Alla Sala Assoli fino al 2 dicembre, “Dongiovanna”,
con Giovanna Giuliani, storia di donna all’”Ennesima” potenza.
Napoli – “La
seduzione implica e misura l’incapacità delle donne a parlare per se stesse o a
reclamare in quanto genuina, una sessualità indipendente dai sogni che gli
uomini fan su di loro”(Jane Miller).
Ma può sensualità, escrescenza d’ amor profano,
declinata diuturnamente al maschile, figlia “d’un’incarnazione
della carne” (per dirla con Kierkegaard), trovare ricetto, e riscatto, nel
femmineo esplicarsi d’una vanità fine a sé stessa? Può Dongiovanni declinare
sfumature, ciprie, ars amandi, voluttà
e maschia recherche, di guitto in perenne
caccia, al femminile, mutando segno in “Dongiovanna”?
Giovanna Giuliani, o-scenicamente riscrive il mito ancestrale, lauto pasto d’un
cristianesimo catto-imperante, per figura classicheggiante come aureo velo di
Maya, a disvelare gli arcani dell’essere seduttore, al limite di stalking,
verso sé e l’altrui sesso; ma conta ancora il sesso, la declinazione genitale,
il gerundio in divenire, nel primo scorcio del millennio in nuce?
“Ennesima”,
è il nome che designa per sé, forse è un accidenti l’istesso suo femminino
“esserci” (Heidegger approverebbe),
in tempi liquidi e convulsi, in cui il gender
è traslucido, trans-gender appunto,
perché valica le costumanze ed i limiti del corporeo definirsi, tra omo ed
etero, col terzo genus un tempo caro ad Hermes, forse ad esso
ancora ermeticamente consacrato, per un taglio lacaniano, reciso e netto,
perché omosessuale è “chiunque (uomo o
donna) ami un uomo” ed eterosessuale “chiunque
(uomo o donna) ami una donna”, ancora avulso dall’imago del mondo che noi moderni talebani con l’I-pad in resta
abbiamo della nostra humana sensualità (ahi, quanto più moderni ci appaiono i primati!).
Dongiovanna
all’ennesima potenza, spinge e preme e divelle il senso scenico, per rovesciare
il sesso, forzando il sentimentalismo adolescenziale (a suo dire), il cristallo
delle emotività vulgari, di gelosie
irrisolte, di paranoie possessivo-compulsive, ansie che divengono sacello per
lemuri incarnati nella più muscolare delle pulsioni: la piece è emulazione dell’archetipo, analisi labirintica delle nuances del prisma femminile, lettino su
cui distendere il proprio ego,
circondadolo di ferraglia a zavorra e rimorchio, ostacoli inconsci come cavalli
di frisia, fino alla demolizione delle inibizioni più radicali, fino allo
spoglio repentino della pelle scenica, sotto il calco umbratile d’una luna in
palcoscenco, a rischiarare concavi e convessi dell’esser donna, e seduttrice, e
fragile, determinata ed auto-ironica, ipso
facto “eroica” (almeno come modello culturale, “di culto”).
Oscilla, l’anima errante, dispersa tra singulti a
dispnea, il dramma d’esser voce e maschera tra somatiche rappresentazioni a
catalogo, personae in condominio
straniante, tutte e nessuna, Dongiovanna le ascolta, le solletica, le studia. Perché il suo è un trans-gender senza
qualità, sia stilistiche, che sessuali, solo l’ennesimo genere, che forse li
racchiude tutti. La sua episteme la chiama ammore, pare cobra, che non è rettorianamente “serpe”,
ma sapere, che s’arricchisce ad ogni
muta, a metamorfosi; più che uno
spettacolo, un catalogo in bella vista delle progressioni dinamiche dell’esser
uomo, senza distinzioni di pistillo: e per la prima volta l’equinozio dei generi è
paritario per davvero.
Brava la Giuliani a dare forma al pensiero
autoriale (il testo è tratto da un’opera di Fabrizia Di Stefano), stimolato da
lettura polimorfa, che diviene lotta di stile e stille, di sudore e lacrime, e
riso umorale, a gola spiegata, come bulimia e variazione che spinge verso l’atavica fame del
dongiovannismo, irredentismo sessuale scevro da ogni inutile perbenismo a
malcelata ed ipocrita copertura.
Applausi.
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