“Ercole e
le stalle di Augia”, tratto da F. Durrenmatt,
con Stefano Parigi, regia Marco
di Costanzo.
Al San
Carluccio, fino all’11 novembre.
Napoli –
Letame. Ch’esonda, tracima, travolge, lercio ricopre la trama sociale d’una civitas in lento disfacimento, in penosa
quanto grottesca agonia; dal mito alla mitosi, per plastica divisione dell’ego
in adamitiche costumanze, da pelle di Nemeo
alla nemesi dell’ eroico, unico e semi-divino, nelle paludi morbose dell’umano
dissentire. Nelle “Stalle di Augia”,
l’eracleo figlio d’Ellade e della folgore del Pluvio, emerge dal fosco mito per
divenir quasi zimbello agli occhi del Durrenmatt: guitto del fato che lo
assegna alle cure d’un falansterio politicante e fumoso, ad annaspare,
muscolare e ebbro, nelle caditoie malmostose d’una “burocratia” senza limen in quel d’Elide, statarello poco
ingombrante eppur fetico, meta infima e necessaria per eroiche ambasce, di
crediti e debiti ad inseguirsi in muta costanza.
E’ Polibio-secretaire a tenere il conto, per l’Eroe
ed il suo cerchio, e per la diafana Deianira, compagna del taurino e stracquo
maschio, olimpico e perfetto, a simboleggiare per eccesso l’ impotenza del
singolo individuo, schiacciato dagli ingranaggi d’una politica globale
asservita a leggi non più umane, ma di mercato feticistico ed irreale, uno
straniamento irrituale mai così acuto e perverso, cui si piega lo stesso Ercole
invitto. Si dà ormai per defunta la baldanza d’un’era mitica, dove l’orizzonte
era poco terso ma sgombro, cumuli deformi sbiaditi, e di contro adesso
germoglia la mancanza di un “progetto” nella Storia, di una prospettica rivoluzione antropica ricca di umano sentire e
genuina speranza.
Nelle
pagina e sul proscenio disegnati dall’autore belga, appare un locus a decandenza, una trasfigurata Europa
rapita dai suoi vortici, percorsa da decadentismo strutturale, al suono greve
d’un cupio dissolvi in progressione, l’aura molliccia d’una “fine civiltà”, non più così nobile, semmai
annacquata da venature bluastre andate a male; letame, mota come foglia a
ricoprire, fosse glassa sarebbe più affine, e fanè, di certo men funny: dunque, di bicipite flessuoso, di
pala e badile, si smuova, si spali, s’impari che occorre voluptas per sedurre il consesso, occorrerebbe Deianira, e non il
nerboruto adone. Eppure.
In
scena Parigi val bene una ressa, solo
regge pashmina e rotea l’umbrela, segaligno rende la massa
arborea di fasci e muscoli una leva dell’ingranaggio, sollevando l’argano sul non-sense acuto, dell’esser eroe
sbertucciato dal vacuo cicaleccio politicante, impotente pur essendo di tutti
il più possente.
Non resta
che affidarsi al “Presidentissimo” di turno, l’ Augias molto in auge,
crepitando sul fondo d’un barile catramoso da raschiare, senza luci a
rischiarare: in fondo, che male vuoi che faccia un po’ di letame, a fermentare
sulla pelle, se le teste ne traboccano in divenire?
Applauso meritevole, un sol uomo in scena a riempire le assi, e parevano cento o poco più.
Spettacolo
d’umore ed ironia per tempi difficili.
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