sabato 28 febbraio 2009

Gelminator:

Chi l'ha visto?:

"Veltroni avvistato in Africa: cercava di insegnare ai bambini africani a scrivere per farli votare. "Non è importante che sappiano contare, vistì i voti del PD... E poi di questi tempi l'abbronzatura porta bene, vedessi mai..."

Brunetta, l'omino in bianco:

"Brunetta. Ha la faccia di uno che non copula da tempi immemori, forse perchè non riesce a saltar sul letto, chissà. Fa quasi tenerezza, con le sue gambette da Topo Gigio, il nostro minestrino della Pubblica Disfunzione. Non vincerà mai il Nobel per l'Economia, ma se esistesse il premio per la migliore trovata pubblicitaria in campo politico, vincerebbe di sicuro. Il problema sarebbe farlo salire sul podio, ma esistono dei sedioloni chicco soppalcabili a molla che potrebbero fare al suo caso. La sua tanto sbandierata riforma punta ad una miglioria della P.A. : mossa geniale in effetti, gli italiani hanno una percezione distorta della burocrazia pubblica, è stranamente passato il messaggio d'una classe politica che approfitta smaccatamente delle proprie posizioni di privilegio, rubacchiando qua e là, collezionando poltrone come bandierine del Risiko: strano che la Brunetta dei Poveri (i ricchi in questo Paese sono sempre di meno, e sempre più ricchi) non abbia posto l'accento sul dipendente pubblico per eccellenza, ovvero il politico di professione, piuttosto che sul povero messo comunale, magari un po' sbadato ed annoiato dalla monotonia lavorativa. Certo i fannulloni sono una razza deprecabile, e allora perchè non iniziare dai simpatici fancazzisti assisi sui banchi di Montecitorio per una reale riforma dei servizi e dei costumi del pubblico? Lo spreco è superfluo di questi tempi, ed il PIL cresce al ritmo dei capelli di Berlusconi, cioè è in caduta libera. Solo che lo Stato non ha i soldi per il trapianto. Ma urgerebbe un trapianto radicale di classe politica, questo paese pare addormentato da un incantesimo stregonesco, e di certo non basterà il bacio del Renatocchio Brunetta per svegliarlo del tutto. Forse ci manderà in coma definitivamente, ma poi non potremmo neanche decidere in autonomia di staccare la spina, costretti ad un limbo di non vita apparente. Lo Stato è in debito, vuol dire che c'ammazzeremo a rate. Sempre che qualcuno ci faccia un prestito. Meno male che c'è Brunetta: lui è ottimista di natura, del resto chi nelle sue condizioni non lo sarebbe? Fallo pure pessimista!".

Rocco e le sue sorelle:

"Rocco Siffredi il giovedi mangia i cannelloni. Il resto della settimana, gnocche".

Chi cerca trova:

"L'uomo è continuamente alla ricerca di sé stesso, tranne Giuliano Ferrara che non può proprio nascondersi".

Oh Dio il Papa!:

venerdì 27 febbraio 2009

“Penne d’amor perduto”:

Napoli città d’amore negli scritti degli autori e nei luoghi degli amanti.


“Fenesta ca lucive e mo nun luce,
segno è ca nenna mia stace malata:
s’affaccia la sorella e me lo dice:
“Nennella toia è morta e s’è atterrata,
chiagneva sempe ca durmeva sola,
mo dorme co li muorte accumpagnata”

Sono le strofe sofferte, i primi versi di una chanzon d’amour celebre ai più e sconosciuta a pochi, “Fenesta ca lucive” appunto, composta intorno alla seconda metà dell’Ottocento dal poeta Mariano Paolella su note d’ispirazione popolare, su parole nate dai vicoli, echi di amori sfortunati all’ombra dei bassi, tra gli umori della plebe più sanguigna. E sono versi che, ben più di innumerevoli e tediosi trattati di scienze umane, illustrano il legame profondo, viscerale, che Napoli, città partorita dalla passione e dal tormento, ha da sempre instaurato con i suoi figli, col suo “popolo”: fonte di amore sfrenato, “eros” dalle forme e dalle assonanze classicheggianti, ma anche “thanatos”, fiele puro, repulsione infera, totale. Sentimenti forti, che si avvinghiano l’un l’altro, osteggiandosi, mordendosi a vicenda, come i due serpenti, fratelli eppur nemici, che s’intrecciano sul caduceo del dio Mercurio. Forse la passione nasce proprio da questa rara tolleranza di dolore e necessità, dall’ incontro delle pulsioni più forti e primitive, dagli istinti vitali, ma anche da quelli mortiferi, che ognuno si porta dentro, fin dalla nascita. La stessa città affonda le sue origini nel mito della Sirena Partenope, la donna-pesce, la “donna a metà”: ella è infeconda, non può generare, la sua natura è ibrida e perciò l’amore non la può sfiorare, la passione la può solo consumare. Solo morendo il suo grande corpo di pesce o uccello antropomorfo potrà generare, potrà “dare la vita”: e Napoli, la sua eterna e ribelle creatura è ancora qui, a testimoniare la fruttuosità del suo sacrificio, la valenza del suo gesto d’amore.
Il mito ci racconta le gesta degli dei e degli uomini, elabora i significati reali attingendo al nostro immaginario fantastico, trasfigura i luoghi, pietrifica il tempo come lo sguardo di una Gorgone: e quale città può offrire lo stesso campionario di miti e leggende, di luoghi e scenari paradisiaci? Quale altra metropoli può vantare una cornice sì preziosa ed incantevole, unica nel suo genere?
Il Vesuvio a cingerle il capo, il mare del golfo a cullarla d’ inverno e rinfrescarla d’estate, Posillipo a carezzarle il ventre, togliendole l’affanno, e poi più in là, i Campi Flegrei ribollenti e sulfurei, a riscaldarle i piedi; davanti a sé lo spettacolo del Mediterraneo, Capri imperiale, Ischia verdeggiante, Procida schiva e ridente; e poi, gemme brillanti e lucenti, ecco laggiù i suoni ed i colori di Amalfi, i profumi di Sorrento, gli acquarelli di Positano…
Di quante sfumature si tinge l’amore? Quanti i toni e gli accenti della passione?
Napoli li conosce tutti, conosce i segreti più intimi degli amanti, ne assorbe gli umori e a sua volta ne è assorbita; amica fedele, confidente sincera, accompagna i baci appassionati e le languide carezze, gli scherzi e gli screzi degli innamorati più focosi. Storie di amori coniugali, di baruffe giocose, di passioni fedifraghe e conturbanti, di “corna” temute e conclamate, ah, quante declinazioni conosce l’amore! Da dove partire, e dove approdare in questa immaginaria carrellata sui tempi e sui luoghi cari alla dea Venere?
Nel “Simposio” di classica memoria, il saggio Socrate ci descrive le fattezze e le gesta del divino Eros, che in barba alla tradizione non vanta natali illustri, non è figlio della dea Afrodite, ma è il frutto generato da due divinità minori, quali la Necessità e l’Espediente: ebbene il pargolo, nato all’addiaccio e sotto lo sguardo pallido di Selene, è decisamente lontano dall’idea del puttino barocco che s’è cristallizzato nel nostro immaginario. Eros è scalzo, lacero, i piedi polverosi e le vesti cenciose, il musetto sempre sporco ed il sorriso sempre pronto: e ditemi, non è forse il ritratto spiccicato dello “scugnizzo” napoletano, di un piccolo “demonio” dei vicoli? Non vi ricorda forse lo “sciuscià” di De Sica, o le pagine più struggenti e drammatiche di Malaparte? Il dio dell’ Amore non fa parte del Pantheon greco, non ha mai visto la cima innevata del Parnaso: la sua culla fu un “vascio”, umido e affollato, la sua balia una mammana dal seno prosperoso, il suo arco uno “strummolo”, la sua corda una “funicella”; balocchi semplici, scolpiti nel legno, per tasche esigue e pance “vacanti”, da giocarci in strada, sotto lo sguardo distratto e materno delle capere dal lungo crine, mentre il “Vesevo” maestoso rumoreggia lontano, incurante o quasi delle miserie umane.
Ed è tra i vicoli limacciosi e i fondaci bui di una Napoli stracciona e popolare che il piccolo muove i suoi primi passi, guardando le passioni umane dal basso, senza filtro, per quello che sono, unione inscindibile, sintesi mirabile di istinto vitale, quasi ferale, e sacralità solenne, addirittura ascetica.
Eros è il re di un Carnevale eterno, immutabile come lo sono le stagioni, il suo corteo è quanto mai eterogeneo; una folla urlante e festosa di uomini e donne, vecchi e fanciulli, zingare janare e nani gobbuti, ognuno di loro almeno una volta nell’arco della vita ha ceduto alla passione, abdicando la ragione. L’ispirazione popolare, plebea, di quello che è il sentimento più profondo, più “nobile” che un uomo può esprimere, la si coglie in quelle esemplificazioni rituali di matrice ermetica che sono le fiabe: ogni fiaba racchiude in sé un preciso significato, un insegnamento prezioso, ed ogni racconto prende vita da una vicenda umana. E quale accadimento è più destabilizzante, quale cambiamento produce più scossoni dell’innamoramento? Ecco perché l’origine delle molte leggende, delle fiabe che le nostre nonne ci raccontavano armate solo di una pazienza infinita e delle loro carezze gentili, prende l’avvio dalla scintilla dell’Amore, che come un incendio investe poi tutta la nostra sfera sensibile, divampando indomita ed inarrestabile.
Splendido esempio di commistione culturale, operante tra l’ “alto” delle Accademie che fiorivan nei secoli passati, ed il “basso” della favolistica popolare, prettamente orale e di ambientazione rurale, Giambattista Basile, col suo “Lo Cunto de li Cunti” segna il passo della tradizione favolistica europea a cavallo del XVII secolo. Il “Boccaccio di Napoli”, così definito dai contemporanei, si discosta profondamente dal suo illustre predecessore: al posto delle elette e gentili dame affabulatrici, Pampinea, Fiammetta, Neifile, eccetera, qui troviamo cariatidi malandate quali Zeza la sciancata, Cecca la storta, Popa la gobba…un vero e proprio sabba di lamie tignose! E che fiabe sarebbero senza un “re”?Ma che re è quello effigiato nei vari cunti? Un re lazzarone, degno predecessore del buon Ferdinando di Borbone, detto “Nasone” per la sua nasca a dir poco regale: e ciò dimostra che le due figure, quella letteraria e quella storica , si sovrappongono perfettamente, speculari e simmetriche, figlie entrambe di quello stesso humus, dello stesso ambiente effervescente e fecondo che produsse le fiabe del Basile. Ma il vero motore, il cuore delle vicende narrate è l’amore sfortunato della principessa Zoza per il suo principe addormentato – notevole il rovesciamento dei ruoli qui operato, laddove il topos fiabesco vuole che sia il principe a conquistare la sua bella addormentata – con tutto il corollario di prove che la poveretta sarà costretta a superare per avere finalmente accesso al suo sogno d’amore. Ma dove si svolgono queste scene letterarie, quali sono i riferimenti reali del mondo onirico e fiabesco? Le direttrici favolistiche si muovono in direzioni semplici, se vogliamo: verso il basso, l’umido delle grotte oscure, verso il chiuso dei palazzi nobiliari, dei giardini fronzuti, delle camere private, e verso l’alto delle montagne, delle torri merlettate, delle cime delle foreste. Su di essa viene a sovrapporsi un’ altra topografia, tutta nostrana, che raffigura Napoli e i suoi quartieri secolari, quali il Pendino, Porto, Mercato, Chiaia; luoghi ridevoli ed altri malfamati, molti dei quali ormai scomparsi come il Mandracchio, il Pertuso,, il Pisciaturo, i Ferri Vecchi, i Lancieri; luoghi ameni, un tempo fuori porta come le colline di Posillipo, del Vomero e di Capodimonte: insomma, seppur parto della fantasia, la fiaba teneva ben presente le sue origini spazio-temporali, il suo esser figlia di un tempo e di un luogo che, sebbene sublimati in un limbo metastorico, erano comunque ben presenti e vivi nell’immaginario comune. Amico e concittadino del Basile, anche Giulio Cesare Cortese nella sua opera più conosciuta, la “Vajasseide” prende spunto dalla realtà del suo tempo per sfornare una delle più squisite parodie letterarie che mai furono azzardate. Giurista e letterato di prim’ordine, il Cortese si trovava alla corte fiorentina di Ferdinando de’ Medici quando lo solleticò l’idea di comporre un poema in versi da dedicare alle celebri “vajasse” napoletane: pare che una signorile dama di corte, cortigiana di fine aspetto ed arguto intelletto, rifiutasse le profferte amorose del napoletano con modi quantomeno bruschi ed inurbani, e cioè assestandogli una decisa “scarpettata” in piena fronte! In seguito alla delusione d’amore nacque l’idea di dedicare un’opera alle serve napoletane, dato che la nobildonna, nello specifico, non era stata di certo un fulgido esempio di signorilità e grazia muliebre, comportandosi forse peggio delle vere “signore del vicolo”, le matrone sguaiate e volgarotte che ben conosciamo. Da qui prende il là il componimento poetico, di stile classicheggiante ma di contenuto decisamente popolare, e che lo stesso Cortese definisce tale solo per sottolinearne l’intento parodistico, quasi un sonoro sberleffo ai componimenti epici e allo stile “marineggiante”, fortemente ridondante , dell’epoca.

“Le vaiasse so' bone p'ogne cosa
e sempemaie te danno 'sfazeione:
so' sempe frescolelle commo a rosa,
sanno servire po' tutte perzone.
Di' ca nne truove maie nulla schefosa
e che dica: “Ste cose non so' bone”.
Non se pò stare proprio senza loro:
ogne baiassa vale no tesoro”.

Testimonianza preziosa, dipinto ad olio dai contorni precisi, spaccato di vita del Seicento napoletano senza pari, nel poemetto si narra di amori maturi, di passioni contrastate, di terrene pulsioni, financo di una vera e propria rivolta delle vaiasse, in puro stile aristofanesco: come menadi invasate ed incollerite verso il Dio Amore, colpevole di non sorriderle nella scelta degli amanti, le popolane si ritirano sui Quartieri Spagnoli, dove un tempo v’era l’aqquartieramento delle truppe iberiche, nonché un florido meretricio a cielo aperto – per le case chiuse si aspetterà ancora qualche secolo. Invano i padroni, i nobili che le avevano a servizio, cercheranno di smuoverne i bellicosi propositi, le vaiasse non cedono: dal loro Aventino bordellesco, non se ne curan più, avendo trovato amore e ristoro tra le braccia di prodi giovanotti spagnoli. Ma Eros è un dio capriccioso e vendicativo, e le punirà scagliando il suo anatema, i suoi strali colpiranno le donne nella loro intima natura: “Mastro Franzese”, il mal d’amore, l’infame marchio della sifilide, le contagerà e le riottose ribelli saranno condannate ad un destino di effimere lepidezze postribolari, un purgatorio terreno da scontare in vita, tra giacigli improvvisati e carezze mancate.
Le stesse atmosfere popolari, gli stessi suoni delle strade affollate, vene portanti del cuore cittadino, riecheggeranno nelle suggestive pagine che “donna Matilde”, l’appassionata Serao, dedicherà alla città in cui nacque e maturò il suo amore per le lettere. Greca di Patrasso,ma Napoletana da sempre, la fertile immaginazione della brillante giornalista e scrittrice venne facilmente impressionata dai chiaroscuri dei vicoli, dagli odori ferini dei fondaci, delle botteghe del ventre molle di Napoli, luoghi e figure di un tempo che ormai rivive solo nei libri polverosi, nelle parole di scrittori trapassati.
Nelle sue “Leggende napoletane” ritornano prepotenti i suoni e gli odori della sua infanzia in terra di Grecia, alveo materno, grembo fecondo di miti e leggende d’amor perduto e passione ritrovata:
“Le nostre leggende sono l’amore, e Napoli è stata creata dall’amore”, soleva ripetere instancabile, a chi le domandava il perché di quell’attaccamento così pervicace, quasi filiale, verso la sua città d’adozione.
“Sirena morente venuta dal mare, Partenope giacque sulla plagia del Chiatamone, e le sue spoglie salmastre al mare tornarono: le onde intonarono una prece commossa, i flutti piangenti ne portarono il corpo, mentre creature pelagiche, d’algida spuma, versavano lacrime invisibili, più salate del mare”.
E le onde del Mediterraneo ci rimandano echi di passioni sfortunate e amanti feriti, basta tendere l’orecchio e saper ascoltare.
“In una certa ora della notte, sulla bella riva di Posillipo, su quella gaia di Mergellina, su quella cupa del Chiatamone, su quella fragorosa di Santa Lucia, su quella sporca del Molo, su quella tempestosa del Carmine la barchetta fantasma appare, corre veloce sull’acqua, gli amanti si baciano lentamente, la figura dello sposo si erge sdegnata, la barchetta si capovolge”.
Quali i loro sfortunati nomi? Chi sono i novelli Paolo e Francesca? La Leggenda ce ne fornisce i contorni, Aldo e Tecla erano amanti, ma non mancava lo sposo tradito, il marito negletto: il loro sodalizio era nato maledetto, e la vendetta del “becco” fu spietata e senza appello, a morte entrambi! Da quella notte senza luna, i due furono inseparabili per davvero, ma i loro spiriti vagano ancora senza sosta, ed ogni volta che gli amanti si baceranno guardando le acque brune del mare alla sera, ecco i due lemuri palesarsi all’orizzonte, monito ai vivi di goder dell’amore, perché la vita fugge via veloce, come la barchetta stregata, laggiù tra le onde.
Certo una bella fortuna per i due derelitti, passar dalla barchetta solitaria e raminga, nido d’amore prediletto, alla barcaccia di animacce affollata, del dantesco Caronte! Ma non si dice forse che amare è un po’ morire? Chiedetelo alla “Regina di Cuori”, l’ardente e spietata Giovanna II d’Angiò, amante avida e passionale , ma senza scrupoli quando si trattava di liquidare un cicisbeo troppo insistente , o un prode troppo ardimentoso: la Regina era una donna lungimirante ed andava certo per le spicce, almeno a dar retta ai napoletani più affezionati alla storia patria, che ancora ne tramandano il ricordo. Forse i toni son fin troppo calcati, quasi gotici, ma il tempo smussa i ricordi e li ammanta del vello d’oro dei miti più belli: il ritratto che ne emerge farebbe impallidire il Conte Dracula in persona, con tutto il caravanserraglio di canini, cape d’aglio e paletti di frassino puntuti. La vulgata vuole che la nostra Fredegonda preferisse il tintinnar delle catene e le grida degli amanti supplichevoli alle parole dolci ed ai versi in rima baciata: virago insaziabile, parrebbe più una dominatrice in stile sadomaso, che una raffinata sovrana dai gusti forse un po’ eccentrici, eppure tenne il trono per oltre vent’anni tra vicissitudini d’ogni tipo. Teatro di battaglia fu il massiccio e possente Castelnuovo, per tutti solo il “Maschio”, di matrice Angioina, maniero sinistro e trecentesco, dove la Regina si intratteneva coi suoi “cavalieri serventi”: di indole democratica nonostante i tempi, Giovanna preferiva di gran lunga agli emaciati ed esangui nobilucci della sua Corte, giovani ed aitanti palafrenieri, soldati di fanteria, o semplici garzoni di bottega, purchè robusti ed in salute.
E per rimanere in tema di amori di Corte, come non ricordare gli amorazzi del già citato Ferdinando di Borbone, il Re Lazzarone? Non contento delle grazie giunoniche della legittima consorte, l’asburgica Maria Carolina, che pure gli aveva sgravato una quantità di figlioli degna di una Niobe, il buon “Nasone” prediligeva di gran lunga le forme sode e ruspanti delle quatrane, delle contadinelle fresche e ridenti: quando si dice passare dalla Corte al Cortile!
Dal Fusaro, agli Astroni, da San Leucio a Posillipo, passando per le dimore patrizie di Portici ed Ercolano, il nostro aveva disseminato il Regno di casini di caccia, che all’occorrenza si tramutavano in regali alcove dove ricevere le conquiste del momento: amante focoso, Ferdinando era di bocca buona, non disdegnando nessuna delle creature che il buon Dio gli aveva messo a disposizione, fossero dame cortesi o ruvide ragazzotte di paese. Non che la moglie gli fosse inferiore quanto a voluttà e ardimento amoroso: son passati alla storia gli intrighi di letto, le congiure chiassose ordite tra cuscini di seta e soffici lenzuola, i triangoli etero e le passioni saffiche della assai poco algida Austriaca. Carolina non nascondeva le sue tresche, tutti sapevano, tutti sparlavano: celebre una filastrocca che i lazzaroni canticchiavano nei dintorni del Palazzo Reale:

“Scetate Maistà, s’è fatto juorno:
Nun penzà cchiù a la caccia e a li figliole
Vide che fa Monzù cu la Maestà
Penza: ire ciuccio e mò si’ cervo,
Mena ‘a mazza ca sinnò si Re de cuorno”.

Dove il “Monzù” in questione altri non era che il potente Ministro della Guerra, Lord Acton, noto protetto della Regina, nonché fedelissimo della Corona Inglese. E proprio dalla Bretagna giungeva un’ altra famosa inglese, Emma Lyon, passata alla storia come Lady Hamilton, moglie inquieta dell’ambasciatore Sir William, nonché amante dell’ “Eroe dei Sette Mari”, il ciclopico Ammiraglio Nelson, fiero ed ostico marinaio, nemesi giurata del Corso Napoleone. A completare il quadretto, pare che madama Hamilton non fosse solo la concubina dell’ Ammiraglio – che tanto per cambiare era sposato a sua volta – ma anche l’ancella prediletta della Regina, con cui oltre alla passione per il potere, condivideva anche quella ben più ardente e dilettevole per gli amori fugaci e promiscui.
Erano anni di frivoli ardori, di dilettevoli facezie amorose, di amanti cangianti come i bocciuoli delle rose in primavera: tra sbuffi di cipria, chignon pericolanti, codini vanesi, pizzi e merletti, Napoli viveva il tempo della sua stagione più feconda. Il Settecento dei lumi scorreva sereno, e tra i molti stranieri che soggiornarono nel Regno uno più degli altri è degno di nota: Sua Maestà Il Gran Seduttore: signori, ma soprattutto signore, messer Giacomo Casanova!
Il “Divino Amante” alloggiò per tre mesi sul finire del 1770, in quel di Chiaia, al famoso albergo delle “Crocelle”, ed ebbe tempo in quell’esiguo frangente, di duellare alla morte col conte di Medini, pranzare da Lucullo nelle dimore nobiliari, giocare d’azzardo nelle bische intorno al porto, ed amoreggiare con donne e donnicciole d’ogni sorta, su tutte una bella madama francese, la Goudar, che si favoleggiava esser stata già amante di Re Nasone nei momenti liberi. Forse un po’ troppo per un singolo uomo, ma si sa, il Nostro amava le spacconate, e d’altronde dov’è mai scritto che il vantarsi sia peccato?
A passeggiar in quegli anni per Via Toledo, nel cuore della Napoli patrizia e signorile, c’era da fare incontri illustri ed inquietanti all’istesso: nel 1776, per quella via oziava un personaggio scomodo e conturbante, fuggito dalla Francia perché coinvolto in uno scandalo dagli accenti morbosi e pecorecci, degno di un giornalaccio scandalistico di quart’ordine.
Appreso il nome del forestiero, i napoletani d’allora non avrebbero tuttavia tratto da tal conoscenza soverchi motivi di interesse: grazie ad essa, infatti, sarebbero stati edotti della circostanza che il biondo viaggiatore risultava essere un nobile titolato d'Oltralpe, appartenente alla categoria, allora piuttosto affollata, dei marchesi, per di più con qualche trascorso giudiziario alle spalle.
Ben maggiore è invece l'attenzione che il nome in questione suscita in noi contemporanei, giacché esso, lungi dal riferirsi ad un qualsiasi nobiluccio del '700, appartiene a colui che è passato alla Storia come il "Divin Marchese", il famigerato Donatien-Alphonse-Francois de Sade. Eccoci una descrizione ictu oculi della Toledo che fu:

“Questa strada sarebbe indubbiamente una delle più belle che si possano vedere nelle città europee, se non ci fossero le botteghe, che avanzano fin quasi al centro della via deturpandola, tanto più che queste botteghe sono in genere costituite da salumerie o simili, il che da un senso di sporco e di maleodorante”.

Ne è trascorso di tempo da allora, e certo per scioccare un diavolaccio come de Sade, lo spettacolo delle vie napoletane doveva essere pane per genti dal palato rude e dal cuore calloso, rotta ad ogni genere di illegalità! Ma ditemi, cosa è cambiato da allora? Napoli non è forse la stessa unica, caotica baraonda che conobbe il Marchese, che descrisse sì mirabilmente il Dumas nel suo “Corricolo”? E che cos’è, anzi cos’era il corricolo? Era un semplice calesse, originariamente destinato a una persona, ma che grazie ad un’alchimia segreta possibile solo alle pendici del Vesuvio, arriva a trasportarne fino a quindici: sissignore, quindici!
Secondo il padre dei Moschettieri:
“Quando ce n'è per uno, ce n'è per due, è vero. Ma non conosco nessun proverbio, in nessuna lingua che dica: «quando ce n'è per uno, ce n'è per quindici». E invece per il corricolo è proprio così, tanto nelle civiltà progredite ogni cosa è distolta dalla sua primitiva destinazione!”. E passa quindi a descriverne la fauna umana su di esso stipata:

“Prima di tutto, e quasi sempre, un grosso monaco è seduto in mezzo e forma il centro dell'agglomerato umano che il corricolo trascina come uno di quei turbinii di anime che Dante vide, dietro un grande stendardo, nel primo cerchio dell'inferno. Il monaco sostiene su uno dei suoi ginocchi qualche fresca nutrice di Aversa o di Nettuno, e sull'altro qualche bella contadina di Bacoli o di Procida; ai due lati del monaco, fra le ruote e la cassa, si tengono in piedi i mariti di quelle signore. Dietro il monaco si rizza sulla punta dei piedi il proprietario o il conducente dell'equipaggio, che ha nella mano sinistra le redini e nella destra una lunga frusta con la quale imprime una eguale velocità all'andatura dei due cavalli. Alle spalle di costui si aggruppano, come gli staffieri delle buone famiglie, due o tre lazzaroni, che salgono, scendono, si succedono, si rinnovano, senza percepire alcun salario per la loro prestazione di servizio”.

Ebbene che dire, non è forse un quadro fedele, una riproduzione precisa di quanto ogni giorno si vede per le vie di Partenope? Provate a prendere un autobus affollato di mezza estate, e ditemi poi se non vi par d’essere una sardina stipata in una “buatta”, sotto sale e pronta per il banco!
Folle città, realtà vivida e complessa, decisamente poco etichettabile, Napoli da sempre ha offerto ai suoi visitatori e agli stessi napoletani un volto sfaccettato e molteplice: vera casbah mediterranea, ha le fattezze della sua sirena, metà donna verace e sanguigna, metà signora civettuola ed arcigna. Città di mare, città da amare, volto gentile e a tratti ostile, la bella Napoli continua a sorridere ai suoi tanti, numerosi amanti; scuote le chiome indomite e ribelli, s’aggiusta la veste sulle forme armoniose, come la bella Sofia in “Filumena”: s’asciuga il pianto con mano veloce, ecco è già pronta! Ancora una volta s’illumina e risplende, si offre generosa allo sguardo voglioso, al tocco nervoso dell’amante di turno, nonostante il dolore nel cuore, nonostante l’amore tradito negli occhi arrossati.
Ancora una volta, nonostante tutto, Napoli vive.

giovedì 26 febbraio 2009

Berlusgatto:

"Berlusconi. Il nano con il sorriso dello Stregatto. Berlusconi non è basso, è soltanto diversamente alto".

Aereo sommergibile:

"Aumentano gli incidenti aerei, ma ci sono meno vittime: un consiglio, se l'aereo su cui dovete salire ha le ali incrostate di alghe, meglio lasciar perdere".

Povero Cristo:

"Ultime dalla Bibbia: Gesù è morto d'invidia perchè il ladrone alla sua destra aveva una croce più bella. Pare fosse di Bulgari".

Separati in casa:

"Ehi, Walter allora come è andata oggi?". "Mia moglie ha dato le dimissioni, adesso cerco una che ne possa fare le vice".

Quando l'io va a puttane:

L’ auto procedeva lentamente lungo la via poco illuminata. La donna era lì, sembrava quasi che lo stesse aspettando, impalata sotto il lampione mezzo fulminato, con la luce stroboscopica che le illuminava metà viso come la faccia della luna. L’ uomo alla guida era nervoso, e delle gocce di sudore gli scendevano lungo le ciocche dei capelli neri, imperlandogli la fronte.
“Maledetti occhiali – pensò quello, infastidito dalla sua stessa agitazione – si sporcano sempre, magari fossero anti appannamento”. Strinse con vigore il volante, cercando di calmare se stesso e quel tremore improvviso che gli faceva formicolare le braccia. “ Calma, rilassati. Non lo verrà a sapere nessuno, a chi vuoi che importi quello che fai fuori? A nessuno verrebbe in mente di venirti a cercare qui, proprio qui…ci sei solo tu. Tu e quella lì. E di certo lei non lo andrebbe a raccontare a nessuno, che senso avrebbe? È il suo mestiere…e il mio? Che regola assurda, l’ Organizzazione non aveva proprio niente di meglio a cui pensare…io vado! No, no ma che cacchio vado pensando, mica la posso tacitare così la mia coscienza…e poi è contro le regole, contro tutto quello in cui ho creduto sempre anche io, la cosa non la posso liquidare così, no…Ma in fondo potrei provare, solo una volta e poi…poi chissà. Va bene, vado. Sono un uomo, un uomo normale prima di tutto: decido per me e la responsabilità è solo mia. Sono un uomo. E sono un prete”.

mercoledì 25 febbraio 2009

Uno su mille ce la fa:

"Ho fatto la conta dei miei spermatozoi: erano così pochi che Veltroni si è congratulato".

Compagni serpenti:

"Ehi Massimo, come stai?". "Ah, ciao Dario scusami, non t' avevo riconosciuto: quando vi pugnalo mi date sempre le spalle".

Avanti tutta:

Ultime dalla Bibbia:

"Mosè separò le acque del Mar Rosso in uno di quei giorni. E per questo che lo chiamano "Il Menarca".

L'Invasione degli Ultra-Puffi:

"Berlusconi e Sarcozzi. Per un attimo ho pensato di avere le traveggole, l'invasione degli Ultra-Puffi. L'ebete nostrano ha scherzato col Dumbo nano d'Oltralpe, e tra l'ennesima battutina maschilista sulla donna, nello specifico la ministra francese Christine Lagarde, una stretta di mano, una scorreggina, due corna fatte a qualche sottosegretario di passaggio, il vertice tra i due snorkies presidenti è filato liscio come l'olio di ricino. E come sempre il tubo ce lo mettono a noi. E non dalla parte giusta.
Silvio, per rompere il ghiaccio ha scherzato a modo suo: "Ehi, Sarcozzy, allora com'è dare due botte alla Carlà? Certo nel cambio con la Bellucci ci siamo andati a perdere eh? Facciamo che ti presto Veronica e due colpi alla Bruni me li fai dare? E poi, è Bruni anche sotto? Ah,ah,ah,ah....". Sarcozzy dopo avergli ruttato a Moet Chandon per sturargli il cerone nelle orecchie, ha commentato: "Cazzo, nelle tue televisioni sembri più alto! E invece, sei più basso di Asterix!". Poi i due si sono seduti a tavola, e dopo aver sparlato delle più bone, tra le mininistre dei rispettivi governi, s'è giunti all'epilogo drammatico, il climax, anzi il tampax dell'incontro a Villa Madama la Marchesa. "Senti, 'a Nicolasse...ma dimmi la verità alla ministra della Giustizia, cosa...Rachida...non è che l'hai messa incinta tu? Fai come me, fattele prima tutte poi così vedi a quale ministero assegnarle...io con la CArfagna ho fatto così, hai visto che pari opportunità? Ah,aha,ha...L'avrei fatto anche con la Prestigiacomo, ma c'era prima Fini. Vecchio maialone d'un Galletto Franco-Amburghese...nel caso vediamo tra sette mesi se nascono due orecchie con attaccato un bambino vicino...ah,ah,ah". Sarcozzi, dopo aver fatto notare al Cavaliere che normalmente le donne non sono dei setter irlandesi, e partoriscono bambini dopo nove mesi, ha aggiunto: " Silvio ha sempre voglia di scherzare...'sto stronzo. No, non le provo prima...quello era Chirac...scusa Silvio, ma non eravamo qui per discutere di come fregarvi vendendovi l'energia nucleare in sovrappiù che abbiamo in Francia? E soprattutto...ma non avevate rifiutato con un bel referendum dell' '87, se non erro, di costruire nuove centrali nucleari in Italia? Hai ragione non sono fatti miei... e poi lo stronzo sei tu qui. Ma mi stavi dicendo di quando hai pisciato nel bicchiere di Putin quella volta in Dacia...".

L'atomo di stronzio:

"Berlusconi vuole il nucleare di Sarcozzi. Proprio una bella idea mi sembra. Abbiamo anche trovato il posto per le centrali: nella gobba di Andreotti".

Vaticanews:

" Ratzi è vivo e lotta assieme a noi: nella sua ultima enciclica spiegherà il perchè dell'estinzione dei dinosauri. Erano tutti culattoni".

martedì 24 febbraio 2009

Questione d'abitudine:

"La Sinistra è morta. Per fortuna per farmi le pippe uso sempre la Destra".

Giuliano la Prostata:

" A proposito di Giuliano Ferrara: quella non è trippa, è il suo Super-Io grande quanto un gommone di albanesi. Un albanese c'è pure affogato. Nell'ombelico".

Giorni felici:

"Oggi è Martedì Grasso, Natale sul calendario di Giuliano Ferrara".

'O Carnavale:

I simboli sono da sempre uno dei modi che gli uomini hanno trovato per compattarsi tra loro, per cementare la loro appartenenza ad un’ origine culturale o naturale comune. Il totem, la divinità, il sacro fondatore, sono strumenti culturali intercambiabili tra loro: il loro potere, la loro centralità, non è ovviamente intrinseca, ma viene riconosciuta dagli uomini, che ne hanno un intimo bisogno, se ne nutrono, perché c’è bisogno anche di un tipo di cibo spirituale, e non è necessario che sia riconosciuto o si riconosca in un dogma religioso più o meno ufficiale. Se il Natale e tutto il caravanserraglio di riti e figure che esso si trascina appresso si rifanno ad un’ idea di festa “sacra” per eccellenza, perché ricollegabile alle liturgie che celebrano la vita, e sono perciò simboli da rispettare, non così può dirsi del fratello cafone e smargiasso del Natale, quel Carnevale pacchiano e caciarone che dalle nostre parti si suole chiamare “Zi’ Vicienzo”. E quando viene Zi’ Vicienzo? Per prima cosa bisogna dire che il nostro non è un tipo preciso e distinto come suo fratello maggiore: Natale è un galantuomo e sa che non è fine far aspettare chi lo ospita, ecco perché giunge puntuale, ogni anno il 25 dicembre nelle case di tutti noi. Vincenzo, no, lui è un vero napoletano, quello che ti dice: “Oi nì, vai cuoncio, ce verimmo a via ‘e l’otto”, e vai a capire se sarà mezzora prima o un’ora dopo. Ragion per cui ecco che ce lo ritroviamo davanti all’improvviso, verso Febbraio-Marzo, sul suo bel carretto pieno di ogni ben di Dio, triccaballacche, putipù, scetavajasse, alberi della cuccagna, Pulcinelli ubriachi e satolli, vecchi bambini e bambini invecchiati di colpo, figure inquietanti e comiche al contempo, come la celeberrima “Vecchia ‘o Carnevale”, Sirena gobbuta ed antropomorfa, metà Vecchia e metà Pulcinella, regina indiscussa del Carnevale e del suo folle circo di burattini impazziti. E a proposito della Vecchia, questa maschera è doppia, nel senso che il medesimo soggetto impersona Pulcinella Cetrulo e la vecchia ingobbita che lo tiene sulle spalle: il diavolo priapesco e popolare, il Re del Carnevale col suo scettro puntuto a forma di “cuppulone” è proprio lui, “Pullecenella”, il guitto di Acerra (non a caso, come i veri cafoni, Pulcinella è nato in provincia). E la sua Regina? Chi è mai la sua Cenerentola? Ma è proprio la sua “dolce metà”, la Vecchia che se lo sobbarca, unico caso di patogenesi muliebre della storia dell’umanità! A cavacecio della sua grinzosa sposa, Pulcinella danzava la quadriglia, la tarantella, al suono delle nacchere e dei tamburelli, facendo fare alla Vecchia tutta una serie di mosse e gesti osceni, il che generava l’ilarità generale e la risata più sguaiata. Tale specifico personaggio è una figura già presente nel folclore europeo, ed è figura simile alle altre vecchie che compaiono nel periodo del Carnevale o nelle sue adiacenze, come la Befana, la Quaresima, La Vecchia del grano, e che rappresentano tutte, in vario modo, la natura appassita, l’anno appena trascorso, la vecchiaia infamante, l’offesa che il tempo che passa reca con sé. Già nel secolo scorso, si era persa la valenza positiva operata dalla metà superiore, di Pulcinella: la simbologia della Vecchia si accompagnava infatti all’apice drammatico rappresentato dal cosiddetto “Ballo dei Turchi”. Questo spettacolo, nota pantomima seicentesca che si inscenava per le vie appannaggio della plebaglia più minuta, si rappresentò a Napoli e in Campania fino alla seconda metà del XIX secolo: gli attori erano scelti tra i lazzaroni dei quartieri popolari, non più di cinque o sei, con le facce annerite dal sego o dal carbone. Queste facce da galera che in altri momenti avrebbero fatto disperdere un esercito, si calavano perfettamente nella parte dei Saraceni invasati, ed erano perfino credibili mentre davano vita alle eroiche vicende di amori sfortunati, o a mirabolanti duelli di cappa e spada. Nel momento di maggior tensione tragica, ecco giungere Pulcinella a cavallo della sua Vecchia, vero “deus ex machina” del vicolo, genio dell’eudemonia che avvolge tutti in uno scoppio di chiassosa concordia, danze vertiginose e allegrezza generale. Tali balli furono ritratti dal Callot, nei “Balli di Sfessania”, titolo che il pittore francese diede ad una serie di ventiquattro incisioni che sono diventate l'emblema della Commedia dell'Arte e del teatro delle maschere: nel secolo d’oro della Commedia dell’ Arte, fiorì la leggenda secondo la quale, nella notte precedente il Martedì Grasso, le maschere tutte, da Arlecchino a Pantalone, da Colubrina alla Zeza, si animavano e partecipavano al “Gran Ballo di Sfessania”. Il Carnevale è sempre stato il momento della trasgressione, l’unico periodo dell’anno in cui le regole potevano essere infrante, i divieti abbattuti, e le classi sociali si scambiavano i ruoli, potendo il plebeo fustigare il patrizio. Diretta emanazione dei Lupercalia, di origine classica, e che si festeggiavano il 15 Febbraio, il Carnevale era il figlio di primo letto della Trasgressione e del dio Priapo: ancora sul finire del Seicento, era costume portare in processione una statua di legno di Priapo con un membro indecentemente grande e grosso, che giungeva all’altezza del mento. Al carattere licenzioso della festa contribuì anche il fatto che le meretrici di mezza Europa erano costrette ad una vita di “clausura” nei bordelli, dai quali potevano allontanarsi solo per andare a messa, e durante il Carnevale; anche a Napoli le gentili ancelle di Afrodite partecipavano ai veglioni ed alle feste notturne, magari arrotondando il mensile in quelle occasioni licenziose. Ma come tutti, anche “Zì Vicienzo” ha il suo personale appuntamento con la Nera Signora, con “Zì Pascale”, come viene familiarmente appellata dal popolino: e lì, in quel caso, anche il Nostro è preciso, muore ogni anno di Martedì Grasso, prima dell’inizio della Quaresima. Su di un carretto tutto inghirlandato, dipinto ed infiorato di frasche, foglie di cavolo e di vite, tutto parato di veli e mortadelle, salamelle e salami gargantueschi, tirato a mano o da un asinello, ecco avanzare sua Maestà ‘O Carnevale, col ventre a botte e le gambette tozze; ha il viso di uno stolido bamboccione, sporco di polvere e di carbone, stordito ed inebetito dalla sua stessa indigestione. Prefiche urlanti ne accompagnano l’agonia festosa, ma le litanie non sono sommesse e lamentose, sono urla da sommossa, parolacce ed oscenità da bettola o bordello; così il vero Carnevale tira le cuoia, tra gli strepiti del suo corteo cencioso ed esaltato:

“Ha ditto lu miedeco de lu Mercato,
Che Carnevale sta malato.
E gioia!
Ha ditto lu medico de lu Pennino,
Che Carnevale sta malato int’ ‘e stentine.
E gioia!
Ha ditto lu miedeco de lu Porto,
Che Carnevale sta malato n’cuorpo.
E gioia!
E comme l’avite visto st’anno
Lu puzzate bedè a ca a cient’anne!”

Il popolo era col suo Re, anzi era Carnevale: a volte la Morte di Carnevale diventava una specie di Piedigrotta, con la sfilata dei carri in festa e la rappresentazione della Cuccagna, coi grossi carri trainati dalle pariglie, colmi di ogni ben di Dio, Vesuvii fumanti di leccornie e balocchi, coi lazzari e le quatrane bardati a festa, con le urla gioiose di una plebe che aveva poi ben rare occasioni durante l’anno per gioire, perché la miseria era reale, e non la puoi mica mangiare.
Tutto il rito era quindi una specie di “canto del cigno” prima delle giornate della Passione e del calvario terreno del Signore: con la Quaresima si entrava nel periodo della frugalità e della ristrettezza, prima di tutto alimentare. E bisogna mettersi nei panni stracciati dei popolani, per poter capire quanto fosse importante fare incetta di beni primari durante il Carnevale, con le elargizioni reali che nel periodo precedente la Pasqua erano sospese del tutto. Carnevale, oggi come allora, conserva più o meno inalterato, il significato apotropaico di "rovesciamento benigno" dei valori costituiti: occasione di sfrenatezza e licenziosità, nei balli della passione il povero ed il ricco, il bello ed il brutto, il pezzente ed il potente, partecipavano tutti della gioia misterica della vita umana, per una volta unico popolo servo della sola divinità che conti davvero omaggiare: il pazzo Carnevale, divinità dell'abbondanza.

Adoro i Manga(no):

lunedì 23 febbraio 2009

Sono in bambola:

"Messa in commercio la bambola di Vladimir Luxuria: due le versioni, una vestita da principessa, l'altra da principessa col pisello, con perizoma rinforzato".

Previsioni meteo:

"Il meteorismo non è lo studio delle nuvole che ti escono dal culo. Ma tira pur sempre una brutta aria".

I due Pulcinella:

Non sono una Carfagna:

"Sono anni che Berlusconi sorride. Fateci caso, più o meno da quando è morto Bettino. "Finalmente ho smesso di fargli pompini", pare sia stato il suo commento alla notizia della dipartirta del Sommo. A Silvio non piaceva spompinare il capo. A lui non viene bene la parte della Carfagna di turno".

Gasparwin:

"Scienze: scoperto il gene Gasparri. E' quel particolare gene che ci ha fatto evolvere, dotandoci di pollice opponibile ed indice ricurvo per attaccare le caccole sotto i banchi dell'opposizione. Non scherzate su Gasparri, la sua malattia è in stato avanzato: unica nota positiva, adesso riesce a riconoscere la sua immagine riflessa nello specchio di Montecitorio. Gasparri, che hombre. Il suo cervello è ancora in espansione. Verso un buco nero".

La Grande Banana:

"Il New York Post si scusa con Obama per la vignetta razzista. Obama s'è offeso moltissimo: non risaltava abbastanza l'abbronzatura".

Vaticanews:

"Morto il Papa. Andrà in un posto migliore, dove lo attendono 72 cherichetti vergini".

domenica 22 febbraio 2009

Punti di vista:

Carta vince:

Alla fine ha vinto la piccola vedette sarda: San Remo in mano ai giovani! Bonolis ha fatto il botto, quel celebroleso di Laurenti l'hanno avvertito che tutto è andato per il meglio, l'operazione Festivalle è andata in porto, ed il suo cervello ha preso definitivamente il largo. E vai...... Ha vinto Marco Carta si diceva...che volete fare siamo stati sfortunati alla morra, io avrei preferito Aldo Forbice. Comunque Bonolis è soddisfattissimo, non vede l'ora che gli diano un altro milione di euro: e già Laurenti costa, e la biada ultimamente è aumentata vertiginosamente. Alla serata di chiusura presente anche la De Filippi: controllava che non le sciupassero l'Ariston per l'anno prossimo. Rai e Mediaset sempre più uguali, ma di che stupirsi? Sono anni che il padrone è lo stesso!
P.S. Povia è stato inseguito da un piccione omosessuale. Quello era il male minore: il piccione soffriva di dissenteria. Alla fine è stato Povia a fare OOOOOOOOOOOH!
P.S.2. Patti Pravo dispersa nel retropalco, non si ricorda dove ha parcheggiato i barbiturici. Ma sta seguendo una pista.
P.S.3. Al Bano ha abbattutto un platano con un gargarismo. Il comune di San Remo gli ha chiesto i danni. Al Bano è rimasto shockato, il Platano gli ricordava la Lecciso.

sabato 21 febbraio 2009

Voglio farmi l'exstension:

Un Premier alla carriera:

"E a proposito del Nano...a Roma inaugurato il primo monumento a Slvio Berlusconi: una statua in stronzo a grandezza naturale. I piccioni di San Marco hanno già affittato un charter".

Il sogno di Mr.B. :

"L'altra volta ho sognato di essere Silvio Berlusconi. All'improvviso un'enorme lingua bavosa ha incominciato ad inseguirmi. Voleva leccarmi tutto. Fede è dappertutto ormai".

Avvoltoi:

venerdì 20 febbraio 2009

Vaticanews:

"Il Papa dice che Dio non ha sesso. Se Dio fosse uomo il sesso sarebbe un comandamento; del resto se fosse donna, lo sperma saprebbe di cioccolata".

PD After:

"Il PD rischia l'estinzione. Come la foca monaca. E in effetti vedendo la Binetti incominci a capire il perchè. Rutelli si dichiara frastornato per le ultime vicende occorse al partito, e dice di essere pronto ad assumersi le sue responsabilità sulla clamorosa sconfitta elettorale. Ma non bisogna credergli, quando la temperatura scende l'acqua che ha nel cervello ghiaccia e purtroppo gli intrappola i neuroni. Tutti e due.
D'Alema è scettico sul futuro del PD: "Sì abbiamo fatto qualche piccolo errore di calcolo, ma niente che la prossima glaciazione non possa risolvere definitivamente. Ora scusate devo andare, sono iscritto a campionato di tiro a freccette intinte nel curaro. Il primo premio è una bambola vudù con la faccia di Veltroni". Veltroni intanto l'hanno visto imbarcato su un cargo battente bandiera liberiana in rotta verso Cuba: "Non ho mai visto il Mausoleo di Lenin". A chi gli ha fatto gentilmente notare che la salma di Lenin si trova a Mosca, Walter ha risposto: "Fa niente, che volete che sia? Neanche sono mai stato comunista!". Il partito adesso è in mano a Franceschinichi?? Come lo chiamano i compagni della segreteria.
Ma la partita è ancora aperta, ed il PD sta già perdendo due a Soru".

Gas nocivi:

"Scienza: Il buco dell'ozono in Antartide si sta finalmente richiudendo. I pinguini hanno smesso di scorreggiare".

Nanoleone:

Il ritorno di Demente Mastella:

"E' tornato! Mettete a letto i bambini, serrate le finestre, chiudete gli usci a tripla mandata. Anzi piazzateci Capezzone davanti, così niuno oserà avvicinarsi. Mastella è di nuovo in pista: dopo aver gentilmente colpito tra le scapole il Molosso di Prodi, ed aver fatto il saluto a Romano, ecco che Demente Mastella, il nome che meglio gli si attaglia, è di nuovo tra noi. L'invasione degli UltraUdeur continua incessante, adesso Demente è tutto pappa e ciccia col Nanoleone vincitore a Walterloo, del resto di che stupirsi? Il lupacchiotto di Ceppaloni è solo tornato tra i mustelidi del Cavaliere...come dire? Beato tra le donnole. Mastella è l'italiano per eccellenza e per massimo demerito, l'approfittatore di turno, il parente che non ti levi mai dalle palle, il vicino che sta sempre lì a chiederti il sale, lo zucchero, le chiavi di casa...Arriverebbe a chiederti in prestito anche la moglie, se già non avesse quella santa donna della Sandrina Leonardo a reggergli il moccolo, una che al focolare ed ai sacri Penati della casa è affezionata a tal punto da farsi dare i domiciliari. Ma è tutto passato, solo l'ennesimo complotto della magistratura di regime (sovietico, of course); De Magistris l'hanno messo sotto formaldeide, l'inchiesta Why Not affossata nelle sabbie di un CSM complice dei potenti di turno, alla Giustizia c'è Alfano: il piano procede senza intoppi direi. Mastella! E pensare che prima come Guardasigilli c'era proprio lui! L'unico Ministro che i sigilli avrebbe dovuto guardarli dal lato interno, al sicuro dentro una bella gabbia per orsi. Ma adesso è tornato per stare in "quel grande centro" che accomuna tutti i partiti ex DC, nella nuova Democrazia Silviana, Dio ce ne liberi! Sperando che il grande centro collassi, e che un buco nero li inghiotta definitivamente...ma è solo questione di tempo: visto il deficit statale, il buco nero presto ci inghiottirà davvero. Ma è nulla in confronto alla voracità di Demente, l'homo Ceppalonicus sopravvive alle ere di magra, rubando i cestini da picnic, succhiando il miele dal midollo del sistema, lordandosi il muso e gozzovigliando gioioso nella sua spocchiosa strafottenza. Il Mastella è un prodotto dell'Italia di questi anni, è DOC come la mozzeralla di bufala, è una forma di ricotta stantia che diventa indigeribile. Ed è per questo che continua a tornarci su ad intervalli regolari. Nell'attesa che un sonoro rutto lo cancelli per sempre".

giovedì 19 febbraio 2009

Suck my Mick!:

"Il tempo passa per tutti. L'altra volta Mick Jagger mentre stava scopando l'ennesima modella, s'è dovuto fermare perchè aveva rotto il pannolone"

La nuova squola:

Lo sbraco dei Mills:

"Ah, già dimenticavo. L'avvocato David Mills condannato per falsa testimonianza, ma non si ricorda chi l'ha corrotto. Un certo Mister B., pare. Come dire, "Sì, ieri ho scopato. Ma non ricordo chi me l'ha messo nel sedere."

Camera ardente:

"E' morto Oreste Lionello, una vita tra satira e teatro, celebre imitatore di Giulio Andreotti. Andreotti appena saputolo, s'è grattato la gobba. Poi s'è tolto la maschera e sotto aveva la faccia di Oreste Lionello: "Ma allora chi è morto?". Ma lo sconcerto è durato poco, Andreotti è vivo. O almeno è quel che dichiara una sentenza della Cassazione: il Divo Giulio ha avuto rapporti segreti con la Morte fino agli anni 80, poi ha smesso. La Morte se l'è legata all'osso. Andreotti è tecnicamente immortale, il suo cuore batte un colpo all'anno dal '63, una ricetta segreta a base di acidi grassi disciolti che gli consigliò il suo medico personale, Tommaso Buscetta. Ma Lionello era celebre anche per l'imitazione di Woody Allen, un genio ineguagliabile: Allen sarà presente al suo funerale. Vestito da Lionello, solo un po' meno morto".

Flash news da San Remo:

"Ultimissime: Luca era gay. Ma poi s'è schiarito le idee. Adesso sta con Eva Robins".

Vieni avanti Berluschino!:

"Ennesima barzelletta-shock di Berlusconi, questa volta sui desaparecidos argentini. Ormai non ridono più neanche i due infermieri vestiti come guardie del corpo alle sue spalle. La battuta ha suscitato polemiche. Berlusconi ha convocato immediatamente una conferenza stampa: "Sono stato frainteso dalla solita stampa comunista, è un complotto del KGB e di Grande Puffo...comunque la sapete quella del miliardario, padrone di un impero televisivo, che compra sentenze giudiziarie, iscritto per anni alla P2, e che ospitava un mafioso come stalliere nella sua villa, e dopo tutto questo è diventato Capo del Governo per ben due volte? NO? Neanche io, ma sto ancora ridendo".

Berlusconi dice barzellette. Non lo fa perchè è un simpaticone. Lo fa per ribadire che lui è il capo. Fine.

God save the Barbie:

"In Inghilterra messa in commercio la prima Barbie obesa: dovrebbe aiutare le bambine in sovreppeso a ritrovare l'autostima. Platinette è già in viaggio verso la Gran Bretagna. A nuoto".

Scacco morto:

"In preparazione il remake italiano de "Il Settimo Sigillo" di Bergman: nel film l'onorevole Borghezio sfida la Morte giocando a scacchi con Mike Tyson".

mercoledì 18 febbraio 2009

Good news:

"Ultimissime: Giuliano Ferrara soffre di anoressia. Ha inghiottito Kate Moss".

Tumpus fugit:

"Ultimamente ho qualche disturbo...il mio medico dice che è demenza senile anticipata. Per intenderci, e come se le mestruazioni venissero all'inizio del mese: è un po' innaturale, ma almeno sei stronzo all'inizio e non alla fine...verso gli ottanta mi piscerò addosso e perderò la dentiera nel cesso. Ma sarò buonissimo"

Farm west:

"Sperimentata la pillola per dimenticare i brutti ricordi. La pillola occuperà lo stesso segmento farmaceutico dell'Alzheimer".

Mi serve un vaccino:

Povero Wolter:

"Il discorso d'addio di Veltroni al Pd è stato interrotto in più d'una occasione per le matte risate di D'Alema. "Scusate non ridevo così tanto da quando Rosy Bindi mi ha detto di indossare il tanga".

Ultime da 'O Festivalle:

"Gasparri ha querelato Benigni per il suo show al Festival. Benigni l'ha sbattuto all' Inferno".

Tira a campà:

"Pannella, il vecchio leone della politica, è rimasto shoccato dalle dimissioni di Veltroni: l'hanno trovato in cucina che rollava Bob Marley".

Senza Parole:

Come nasce un Leader:

Veltroni ha rassegnato le dimissioni dal Pd. O viceversa. D'Alema s'è finto sorpreso: si allisciava i baffetti con uno stiletto avvelenato, si aggirava per la segreteria del partito elucubrando a voce alta:"Walter s'è fatto fuori da solo, ma allora a che servono gli amici?". Fassino stamane si è alzato dalla sua bara in quercia ed ha succhiato una sacca di plasma in tono dimesso: "Alla fine il paletto di legno ce lo hanno piantato nel cu...". Bersani era quello più allegro: era sceso alle sette di casa, ha preso un taxi. Non lo hanno più visto. La vecchia ruggine delle liberalizzazioni, mi sa. Prodi dal suo ritiro dorato sui monti Rovagnati non ha voluto commentare: sonnecchiava come al solito, una siringa di culatello nel braccio. Rutelli con la consueta sagacia politica ha aggiunto: "Adesso dobbiamo clonare un nuovo Veltroni". La Binetti s'è subito incatenata ad un crocifisso. Gesù le ha gentilmente fatto notare che le croci sono omologate per uno e che rischiavano una multa dal primo centurione di passaggio. Già iniziate le pratiche di fecondazione assistita per far nascere il nuovo leader della sinistra: hanno provato a riesumare la salma di Berlinguer, ma pare che Benigni, in un eccesso di euforia dovuto ad un' overdose di trenette al pesto, abbia trafugato la salma portandosela via a braccio. Allora si sono buttati a pesce congelato su un ovulo della Bindi ancora incellofanato, in garanzia: dopo aver spostato le ragnatele, si sono accorti che era ormai inservibile, la Binetti era già stata in loco. O in utero. Esausti, i centotrentadue leaders della sinistra non hanno potuto far altro che richiamare in servizio attivo Prodi: dopo avergli praticato la respirazione bocca a bocchettone, hanno provveduto a svegliarlo con una forte dose di viagra concentrato, sciolto nell'idrolitina. Romano s'è svegliato di soprassalto, ha urlato per tre volte il nome di Mastella, schiumato rabbia mista a parmiggiano reggiano, e con un sonoro rutto ha fecondato la Bindi, che dopotutto è donna fino a sentenza definitiva. Fassino gli succhiato il collo per distendergli i nervi, D'Alema gli ha praticato un'anestesia totale, Violante l'ha operato a partito aperto: aveva le primarie intasate al centro da grumi di clementerolo cattivo. Sedato, ed in stato di incoscienza, Prodi è stato intubato e si è provveduto alla fecondazione in vitro: non disponendo di un utero, s'è provvisto di impiantare l'ovulo fecondato nel primo orfizio naturale disponibile. Problemi durante la fase di scongelamento del seme: il campione, prelevato da un Veltroni ancora in fase di shock, non voleva saperne di fecondare chicchessia, ed anzi era già in partenza per il centro Africa assieme ad un vibrione del colera. Convinto con la promessa che nel luogo in cui stava andando avrebbe avuto settantadue schede vergini da fecondare a PD, il walterozoo s'è galvanizzato, ed armato di cinepresa per filmare il tutto e mandarlo al prossimo Festival del Cinema di Roma, s'è avviato verso il suo glorioso destino.
Tra nove mesi vedremo il risultato di questa sperimentazione estrema. Per adesso possiamo solo augurarci che non nasca l'ennesimo stronzo".

Si tromba a Sinistra:

"Soru è perplesso sui risultati elettorali. "Ho chiesto al mio consulente politico il motivo di questa clamorosa debacle. La Canalis non mi ha saputo rispondere".

martedì 17 febbraio 2009

Berlu 's pacco:

Nessuno è perfetto:

"Veltroni si è dimesso".
"Ma non se ne accorto nessuno".

' O Festivalle:

"Inizia il Festival di San Remo: il maestro Laurentiis s'è cagato addosso per una partita di pesto avariato".

Gasparri:

"Avete presente Gasparri? Lo vedo spesso che porta a spasso il suo cane ed ogni tanto alza la zampetta per pisciare. Il cane, non Gasparri. Lui la fa ancora sul giornale. Quando penso a Gasparri le domande che mi vengono a mente non sono chi siamo, dove andiamo ecc ecc, ma perchè? E soprattutto: buon Dio ma non bastavano le emorroidi? Gasparri. La pubblicità perfetta per gli antioconcezionali.
Gasparri. L'unico uomo con l'espressione di un anticalcare.
Gasparri. Quando ha visto lo Zingarelli lo voleva rinchiudere in un campo ROM.
Il mio cane quando si lecca le palle ha una faccia più intelligente.
L'unico uomo con le sopracciglia strappate a morsi ed incollate a sputi.
Gasparri, che uomo. Dio ce ne liberi. Ai suoi funerali voglio sparare personalmente un colpo di cannone. Alla salma".

Salutame a Soru:

"La Sardegna al Centrodestra. Adesso Cagliari è in provincia del Billionaire".

Sinistrati:

Orgia condominiale:

"All'ultima riunione di condominio il clima era disteso. Abbiamo proiettato un porno".

Trenta denari:

"Ultime dalla Bibbia: Giuda non era un traditore. Aveva solo acceso un mutuo a tasso variabile".

Martini senza oliva:

"E a proposito di sesso...una volta stavo soffocando una col mio sesso. "Oh tranquillo, mi è successo già una volta con un'oliva". La cosa non mi ha tranquillizzato.

lunedì 16 febbraio 2009

Sesso Divino:

"Dio è donna. E quello che ha in testa è il suo perizoma".

Grasso che cola:

"Ho il colesterolo alto. Devo smettere di guardare Giuliano Ferrara in TV".

Quando l'organo fa la funzione:

Pioggia rancida:

Bing Bang!:

Sfiorata la tragedia nel Canale della Manica, un sottomarino francese ha speronato un sommergibile inglese: "Noi siamo francesi, quegli stronzi guidano a destra: ancora un poco e la Regina ce la trovavamo appesa alla Torre Eiffeul col culo all'aria a cantare la Marsigliese".

Finanza ad alto tasso:

Polemica sul ministro giapponese sbronzo al G7. Nagakawa si difende: "Ehi, ma che cazzo di mondo è se uno non può alzare il gomito quando parla di finanza? E allora voi come la mettete con Tremonti che è pure astemio?".
Ehi tranquilli, non è alcool, sono solo gli psicofarmaci!. Per un attimo m'è parso che Tremonti avesse gli occhi a mandorla.

Comunicazione di servizio:

"Se sei soddisfatto di questo blog allora non ti chiedo di mandarmi un vaglia postale con un importo di euro 150 sul conto corrente numero 0013765349872 Banca Siamo Intesi?, oppure di effettuare un versamento anonimo alla Banca del Seme...ma almeno accendi un cero a Sant'Antonio Bassolino...il ricavato verrà devoluto sul conto bancario del chirugo otorinolaringoiatra incaricato di operare la Iervolino alle corde vocali. Al loro posto verrà trapiantata la traccia dell'ultimo Cd di Merylin Manson".

Ultime da Arcore:

"Marcello Dell'Utri è un uomo di cultura. E Mangano un fattorino della Mondadori".

La lingua del futuro:

"Grave incidente domestico occorso ad Emilio Fede: "Sono scivolato sulla mia saliva e mi sono rotto la lingua. Adesso chi gli leccherà il culo?". Interviene Sandro Bondi: "Emilio può stare tranquillo, al culo di Berlusconi ci penso io, non si accorgerà nemmeno della differenza".

Ies we ken't:

"Veltroni ha un piano per la crisi. E questa è già una notizia. Scettico D'Alema: "Non sono sicuro che giocare alle corse dei cani sia un buon piano pensionistico". Fassino è più possibilista: "L'importante e che i cani siano trattati col rispetto che si deve ad un elettore del PD e viceversa". Intanto il WWF chiede una tutela maggiore per il cervello di Rutelli: "E' una specie in estinzione, col global warming i suoi neuroni si abbandonano ad atti di libidine violenta, sono anni che tentano di sodomizzare il cervello della Bindi". La Bindi attende con fiducia".

La vedo nera:

"Il piano di Obama prende il largo. La moglie Michelle è incazzata nera...nel senso semantico del termine..."Te l'avevo detto di chiamare Joe l'idraulico!".

Violenza privata:

"Aumentano gli stupri delle donne per la strada".
"Che schifo! Io mia moglie la violento a casa!".

C'è grossa crisi:

"Chiuso il G7 sulla crisi. L'emergenza continua: le ostriche al buffet erano congelate".

Organi di partito:

domenica 15 febbraio 2009

sabato 14 febbraio 2009

DC tutto:

Bisogni elementari:

Si diventa ciechi!:

"Una volta mi sono bendato ed ho letto il Kamasutra in braille...mi sono masturbato tre volte sulla parola "sommario".

Strafatto:

"Preoccupazione in questi giorni perl'ex presidente Cossiga: sbava, rutta, da di matto...la solita routine insomma. Per calmarsi Cossiga si cosparge di Nutella e si fa lecare da un varano australiano di nome Kamillo".

Tanga Maria Vergine:

"Si credo in Dio. Ma credo anche nella verginità di Aida Yespica"

Ohsesso!:

"Una volta ho preso il Viagra con il caffè...l'ho soddisfatta proprio a dovere. Tutte e cinque le dita".

venerdì 13 febbraio 2009

L'amore è una brutta bestia:

"Allora, lo festeggi San Valentino?".
"No...quella troia s' è ne scappata col mio migliore amico...e diceva che non le piacevano i cani!"

S'è fatta l'Alba:

"Messa in commercio una bambola con le fattezze di Alba Parietti: nella confezione laccio emostatico, cucchiaino ed una siringa per iniettarle il silicone".

Disturbo trans itorio:

"Sniffare cocaina può portare a disturbi dell'identità sessuale. Non ci credete? Chiedete a Lapo Elkann ed alle sue amiche Deborha, Samantha e Ugha".

A mezzanotte va la ronda del piacere...

"Partono le ronde antistupro padane...le donne da adesso in poi sono al sicuro: quando vedranno avvicinarsi nella notte un gruppo di bergamaschi ubriachi, vestiti come degli elfi sotto acido ed armati di forconi e bastoni, potranno finalmente tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo".

Giovinezza, giovinezza!:

"Berlusconi pare sempre più giovane, la pelle liscia, il sorriso stampato, chi sa cosa si mette in faccia?".
"Credo si chiamino modelle".

Silvio rimembri ancor?:

La Sindaca del rione inzallanuta:

"La Iervolino confessa che se fosse il Sindaco si darebbe un bel quattro in pagella. Ma lei è il sindaco! Che qualcuno la svegli dal suo coma farmacoillogico...
Inoltre pare che abbia aggiunto di volersi ricandidare ancora. "Spero ancora di essere promossa col debito...sa, un quattro in fondo è solo un otto diviso due". Come il suo cervello del resto...alla fine i conti nel PD tornano sempre. I napoletani intanto continuano ad attestarle la stima dovuta ad una così alta carica cittadina...cioè no, scusate ho letto male...stimerebbero prenderla a testate, mettendole un altra carica sotto al Comune della cittadina. Ma la Sindaca non demorde...in attesa che vengano gli infermieri a prelevarla a braccia, accendiamo un cero a Sant'Antonio. O preferite un candelotto per Don Antonio?".

Auguri scimmione!:

"Cento anni fa nasceva Charles Darwin: sostenne con studi severissimi e documentati che l'uomo discende dalla scimmia, passando per un gazebo di Forza Italia".

Spariamo un Ratzinger:

"Il Papa prepara un viaggio in Terra Santa".
"Deve inaugurare un villaggio profughi Valtour".

Linea di Governo:

"Dice che c'è polemica sulle intercettazioni".
"Per il resto il regime procede liscio come l'olio di ricino".

PIL superfluo:

"Il PIL continua a calare".
"Speriamo nella ricrescita".

Facciamo una piazzata!:

"Finalmente l'opposizione scende in piazza!".
"Veltroni ha citofonato personalmente a tutti gli elettori del PD. Tutti e tre".

Non avrai altro Silvio all'infuori di me:

giovedì 12 febbraio 2009

I conti tornano:

"Una donna su cinque ha provato orgasmi multipli nella vita. Le altre quattro solo uno, in una Multipla".

Autoerotismo:

"Non faccio sesso da qualche tempo...come dire? Ho appeso il cappuccio al chiodo...peccato era molto divertente spaventare le coppiette in macchina..."

Parole franche:

Bossi ha dichiarato la sua solidarietà al Presidente Napolitano:"Il vecchio ha ragione, la carta non si tocca...oltretutto il cesso è il luogo più adatto".

Mi fraintenda:

Berlusconi: "Sono stato frainteso dalla solita stampa di regime; non ho mai avuto intenzione di attaccare il Colle, Napolitano è un prezioso organo della nostra Repubblica democratica, ed uno scontro tra istituzioni sarebbe lesivo degli interessi del Paese...e soprattutto quella testa di cavallo recapitatagli ieri da un corriere basso e pelato, verso le ore 22 e 35 di sera, citofonare famiglia Napolitano, non so proprio chi possa averla spedita".

Vado dritto Arcore:

mercoledì 11 febbraio 2009

La Iervolazzo:

Ho sbancato:

L'amore costa:

"Non mi ami più come il primo giorno!".
"Bella mia, il Viagra costa!".

Legittima suspicione:

"Romeo rimane ancora in cella".
"C'è il legittimo sospetto che sia colpevole".

Ccà nisciuno è fesso:

"La Iervolino dice che il nostro riscatto è nell'arte".
"In quella d'arrangiarci, di sicuro".

Video Hard:

"Coraggio, dice che tra due anni arriva la ripresa!".
"Ma la crisi l'hanno già filmata su You Tube".

Io me ne lavo le mani...

"Il Vescovo Bagnasco dice che è un omicidio di Stato".
"Il colpevole è Ponzio Pelato".

martedì 10 febbraio 2009

Tragedia Italiana:

"Erano diciassette anni che era in coma irreversibile".
"Nella infinita tragedia, almeno si è risparmiata quindici anni di Berlusconi"

Silvito Berluschini:

W, come wittoria:

Ego me absolvo:

"Sono un perverso maniaco compulsivo con tendenza paranoico-depressiva. Adesso passiamo ai difetti...".

lunedì 9 febbraio 2009

Silenzio:

Due parole su Eluana. Erano ben diciassette anni che quella povera donna non era più cosciente del suo stato. Pensateci bene: diciassette anni. Sono tremendamente lunghi da trascorrere, un odissea tragica che è ricaduta tutta sul corpo di Eluana e sulle spalle di un Padre con la lettera maiuscola. Un accanimento poltico senza precedenti, che negli ultimi tempi s'era fatto pressante ed asfissiante, un Caimano col dente avvelenato alla ricerca estrema del consenso vaticano, una campagna mediatica a pioggia battente...tutto per cosa? Per ingrassare le pance politiche di questi mezzibusti imbellettati, cicisbei e lecchini alla corte dei miracoli del Tappo di Sughero, ombre tentacolari che s'allungano sulla vita dei cittadini, una morsa che cinge il collo di ognuno di noi dalla culla alla tomba. La politica deve restare fuori, FUORI dalla nostra sfera personale, dalla possibilità di decidere della nostra vita, e soprattutto della nostra morte. Eluana se ne andata come avrebbe voluto, il padre l'ha accompagnata nella sua tremenda vicenda terrena. Adesso che cali il silenzio sulla vita di una donna, di una cittadina italiana, che ha pagato come tutti il dazio dell'esistenza umana. Che i Caimani rimagano a bocca asciutta, almeno questa volta.

Natura politica:

"Ma se lasciassimo fare alla Natura?".
"Dipende. A che partito è iscritta?".

Lettere cadenti:

Maledetto XVI:

La vita è un Inferno:

Interludio poetico:

"Si sta come d'autunno, gli alberi le foglie...ma si preferiscono d'estate, le poppe delle spoglie".

domenica 8 febbraio 2009

sabato 7 febbraio 2009

Ode a Berlusconi:

"Si compie il destino, si tesse la tela setosa del ragno;
Nessuna prece, nessuna lacrima persa per te, burattino di stagno!
Truce folletto nasuto e farsesco,
Guitto d’Acerra dal ghigno beota,
Risuonano nell’aria note assai cupe, di pece più nere,
Un ultimo requiem cantato per te;
Le Erinni furiose volteggiano in coro:
Megera, Tisifone e poi l’infida Aletto,
Si affilan le unghie per l’ultimo volo!
Attento Berlusconi, ti puntano alfine,
Calando dall’alto frementi e giulive.
Ecco son giunte: ti beccano il capo, t’afferrano il (poco) crine!
Ma tu non temere, son truci d’aspetto,
Non fartene un cruccio, non è per dispetto!
Annunciano liete lo squillo supremo,
Quel dì del Giudizio che giunse per tutti:
Vedo Caronte che attende col remo,
Mentre Persefone mi tende la mano,
Odo poi urla che straziano il petto…
Guarda che demoni, mamma che brutti,
Li guardo, sgomento, mi paiono ratti!
E’ il giorno dell’ira, che albeggia lassù
Rischiara il tuo volto Berluska di fiele,
Ma tu non frignare, sorridi lo stesso,
Saluta Plutone che ti tira da presso!
Per l’ultima volta, conosci chi fosti,
E rendici il conto a imperitura memoria:
Se il cuor non ti piange neanche in quest’ora,
Allora Tappone che peste ti colga,
Tramonti la sera,
E senza più indugio
Ti venga il colera!"

Cura di Stato:

"Berlusconi dice che Eluana può anche avere figli".
"Scusate, lo stiamo curando, purtroppo a spese dello Stato".

Silvio Merola e la sceneggiata Napolitano:

"Berlusconi all'assalto del colle più alto".
"Deve essere il complesso dell'altezza".

Il mio Ulisse:

Pubblico un breve saggio sulla figura emblematica di Ulisse, l'eroe della conoscenza per eccellenza: in anni di Berlusconismo rampante, è bene riscoprire le radici dell' Uomo tout court, l'Uomo che esplora gli infiniti mondi e ne ritorna arricchito, per poi riprendere il remo e cercare ancora il mare. Per una volta ancora, per sempre.



Ulisse:

L’uomo, il mito, la letteratura.

L’Odissea, opera immortale dello spirito greco, parto felice e fruttuoso di un cieco cantore, aedo di epiche note che ci toccano il cuore, ha anch’essa delle affinità con l’altra colonna poetica del tempio delle Muse, l’Iliade: se non altro perché la vulgata vuole che siano frutto della medesima mente feconda, di quell’Omero dai contorni sfocati e dalle orbite vuote, pallide albe incastonate tra un naso camuso ed una barba riccia e folta come i rovelli dell’uomo, antico o moderno che sia. Lo studio epistemologico della materia, che in mille e più anni ha visto fior di studiosi cimentarsi con analisi più o meno scientifiche ed impressioni non sempre veritiere, ci suggerisce che entrambe le opere presentano una introduzione in medias res, rappresentano cioè vicende iniziate da tempo per attirare da subito l’attenzione dell’uditorio. E sono vicende, azioni, dannatamente umane, generate da pulsioni e sentimenti terreni: l’intervento divino anche nell’Odissea si fa esplicito, ma sono figure antropomorfe quelle che si occupano dei destini degli uomini, sono divinità aristocratiche, impelagate in trame civettuole ed amorazzi boccacceschi. L’ humus dell’opera, l’argilla dalla quale attingono le mani sapienti del poeta, ha radici nelle varie saghe dei nostoi, i ritorni in patria dei vari superstiti dalla “madre” di tutte le guerre, quella guerra di Troia che “infiniti addusse lutti agli Achei”, e che tanto flagello sparse sui campi di pugna e tra la spuma del mare. E già, perché le varie “odissee” saranno variamente osteggiate da un fato peregrino ed avverso, e gli olimpici saranno in tal caso più implacabili del Leviatano di biblica memoria: il sacrilegio compiutosi nelle stanze di Priamo, l’oltraggio portato alle sacerdotesse d’ Atene non rimasero a lungo impuniti, la via del ritorno è costellata di lutti e di perigliose avventure.
Questo materiale così fertile e complesso si avvale della scomposizione dei piani narrativi, di rimandi ed anticipazioni, e della voce narrante di un eroe tra i più grandi, quell’Ulisse maestro d’ inganni e tessitore di menzogne, affabulatore indiscusso ed instancabile. Nell’ottica omerica Ulisse è il multiforme, il polimorfo, l’uomo che non soggiace all’amara sorte, che plasma gli eventi e non se ne lascia irretire, l’uomo che confidando sulle sue sole forze e sulla capacità d’adattarsi agli eventi mutevoli riesce a superare avversari temibili ed avversità invincibili. Ma può Ulisse definirsi eroe omerico per eccellenza? E’ forse un “eroe”, nella sua dimensione classica, dalla forza combattiva leonina, dal coraggio ai limiti dell’incoscienza, dalla furia bellica cieca ed incontrollabile?
Quando si tratta di puro istinto guerresco di certo il Nostro non occupa le prime posizioni: eppure, quando si tratterà di assegnare le armi d’Achille sarà Ulisse che ne risulterà degno erede, egli è l’Acheo più pericolo sul fronte tattico e parabellico. Lo sdegno d’Aiace rimarrà inascoltato, tanto da portarlo alla pazzia: farà strage d’armenti, nelle nebbie del sogno così simili agli odiati alleati.
Si diceva pocanzi di un Ulisse “pericoloso” per i nemici Troiani, perché la sua arguzia è un arma ben più sottile e suadente della forza erculea d’Aiace o della ferocia dell’Oileo, e nell’ Ippia Minore
Socrate ce ne dà ampia dimostrazione dialettica: secondo il filosofo, la possanza fisica, il valore muscolare, non hanno scelte da proporre, né modelli con i quali confrontarsi, dato che l’istinto è una forza monodimensionale, univoca. La pulsione cinetica può essere controllata, incanalata e profusa, ma come un ordigno innescato, dovrà esplicitare la sua dinamica nell’annientamento sistematico dell’avversario che gli si para innanzi. Ben altra materia l’intelligenza, che come argilla spugnosa, sa adattarsi agli eventi, aderendo alla realtà senza annullarla: basta una leva per sollevare un macigno. Vi sono, nel suo fascinoso e periglioso itinerare, episodi chiave: al cospetto dei Feaci e del Re Antinoo, chi meglio d’Ulisse è in grado di solleticare l’uditorio, affascinare ed ammaliare solo con il semplice uso della sua ardimentosa favella? Nausicaa è ai suoi piedi, così come lo è stato per certi versi, il ciclope Polifemo, vinto dall’inesauribile ingegno e dalle capacità logico-deduttive dell’uomo-Davide contro il gigante-Golia. “Il mio nome è Nessuno”, oppure “Nessuno mi acceca”, sono frasi celeberrime, sconosciute a pochi.
In una società primitiva ed ancestrale, il cui principale obbiettivo è la sopraffazione fisica, il dominio materiale degli elementi, l’acume intellettuale è avvertito con maggiore ambiguità e diffidenza. Ma anche rispetto, perché dote rara e preziosa.
La tematica di fondo cambia profondamente dall’Iliade all’Odissea: a parte il tema corale della prima opera, incentrata sui confronti muscolari e virulenti tra i vari personaggi (Achille-Ettore; Paride-Menelao; Priamo-Agamennone), e quello monosoggettivo dell’Odissea, cambia radicalmente il concetto d’eroe: è un passaggio repentino ed improvviso, che scuote le corde della nostra sensibilità. L’eroe duro e puro compie la sua metamorfosi, la sua trasmutazione alchemica, essere ed apparire che si scindono nella figura del polymorphus Odisseo: nasce per la prima volta una psicologia del personaggio, complessa e di lettura non sempre univoca.
L’episodio delle Sirene nel XXII canto dell’Odissea è un paradigma perfetto della sua indole inquieta: il Nostro è cosciente dell’ enigma che le donne-pesce antropomorfe rappresentano, tuttavia è ben saldo nel suo proposito, la coscienza del pericolo non soffoca l’impulso alla conoscenza.
Il suo desiderio ossessivo, la sua brama di sapere, gli fanno spostare la soglia di vigilanza oltre i confini della consapevolezza: la ragione si fa da parte, mentre la curiosità assurge a senso guida, bussola degli istinti viscerali. Dischi di cera preserveranno i suoi compagni, ma lui no, lui vuole ascoltare, le vuole “sentire” quelle voci ingannevoli che addormentano l’anima, precipitando gli incauti nei gorghi del mare.
Il suo freno saranno gli altri, le sirene oscure non frustreranno il suo istinto pervicace, non scalfiranno il suo impeto vitale.
Ma l’Odissea è anche il poema della nostalgia, la nostalgia della patria lontana e degli affetti cari tenuti nel cuore e mai obliati: Itaca è un isola che non c’è, se non nei sogni più intimi e profondi, è una meta che sfugge all’occhio del peregrino, eppure la sua presenza si percepisce distintamente. Ulisse è una corda di cetra tesa tra il passato degli affetti, tra l’amore coniugale verso una moglie che ricorda ancora giovane e rubizza, e l’affetto filiale, per quel Telemaco che ha tenuto tra le braccia per poco tempo ahimè, e che vide allora infante e poi mai più. Ma i suoi gorghi, le sue procelle interiori sono sì tempestose, ma non così impetuose da fugarne l’anelito vitale, la spinta irrefrenabile verso quelle nebbie oscure dell’incerto, verso quella ricerca del non conosciuto che da millenni e millenni spinge l’uomo oltre il baratro delle sue false certezze.
E’ un eroe combattuto il Nostro, in possesso di una scintilla intellettiva non comune, sospeso tra il desiderio legittimo di posare il piede stremato ancora una volta sul suolo natio, e la pulsione incoercibile ad affrontare i suoi fantasmi mai sopiti, quella voglia tumultuosa di nuovo e di terre lontane. Ulisse è un figlio di Sisifo, è il degno erede di un paradigma iconografico di arguzia e sagacia senza pari, la trama dei suoi inganni è così fine, che son pochi quelli che s’avvedono d’esserne avviluppati.
Sempre nell’ Ippia Minore, Socrate conclude che in una ipotetica disfida tra due campioni inarrivabili quali Achille, il “piè veloce”, ed Ulisse dal “pensiero serpentesco”, il secondo la spunterebbe praticamente sempre, grazie alla facoltà che gli è riconosciuta, quella di scegliere se una data azione deve o meno essere compiuta. E’ in tale capacità di discernimento che risiede la superiorità del Nostro. Achille è una figura univoca, una monade, può agire assecondando unicamente i suoi istinti primordiali e ferini; Ulisse è razionalità pura, è logica distillata, un concentrato ipervitaminico di freddezza glaciale e calcolo serrato. La sua vendetta contro gli usurpatori, contro i principi di Itaca che ne volevano arraffare terre e proprietà, insidiandogli financo la moglie, sarà spietata e lineare, proprio perché esente dai dazi che impone la nemesi virulenta e primitiva. Ulisse non ha gli occhi “di brace”, iniettati di sangue, quando il suo arco micidiale si tende, scagliando i suoi strali mortali sul nemico: al contrario, l’eroe è sereno nella sua missione omicida, non ha tremore la sua mano, la corda si tende perfetta ed inesorabile, ed il destino si compie, così come era scritto. La pietà è lontana dai suoi occhi, niente sembra turbare il suo proposito apocalittico: i traditori devono pagare, non c’è speranza, non v’è espiazione. Persino Achille si “commuove”, la sua chioma leonina è scossa, il Mirmidone si ridesta dalla sua albagia spocchiosa e riconosce il valore del nemico caduto, chiama “fratello” il Troiano Ettore, sa che entrambi non son altro che ombre che camminano, comprimari di uno spettacolo di cui non muovono i fili, facce complementari della stessa medaglia.
Ulisse no. Non prova sentimenti verso i miseri Proci, sommersi da una gragnuola di dardi infallibili, è terso il suo sguardo, le labbra sono serrate ed il braccio si tende senza alcuna esitazione.
Un uomo complesso, non v’è dubbio: quante facce offre il suo essere, quanti i fremiti che ne attraversano l’animo? Ulisse è uomo, ma potrebbe essere un pensiero che subitaneo e repentino sfugge all’occhio più attento, un vento leggiadro e carezzevole che d’improvviso ti schiaffeggia in pieno viso, un fulmine indomabile che rompe gli indugi e ti dà la scossa quando meno te l’aspetti. Ulisse è puro spirito, ma la sua figura incarna l’uomo, non l’eroe. L’uomo tout court, con le sue infinite scelte, con le sue possibilità e le sue fobie, la sua quotidianità a volte meschina, altre eroica, i mille rovelli che però s’eclissano nel momento in cui si deve prendere coscienza di ciò che si è e di come si è.
Guai al Ciclope che incontri un Nessuno di tal fatta! In più d’una occasione l’eroe avrà modo di testare la sua favella iperbolica, la sua dialettica circense, la sua plasticità acrobatica: chi può fermare un guerriero della parola, un cavaliere della retorica, un aedo affabulatore come il Nostro?
Senza tema d’esser smentiti, si può affermare che Ulisse rappresenta un simbolo metastorico, che va ben aldilà delle rappresentazioni mitopoietiche, delle liturgie protoletterarie, delle celebrazioni apologetiche: egli è la personificazione dell’ingegno dell’uomo applicato alla realtà materiale che lo circonda. Ne sa qualcosa Dante, che nel XXVI canto dell’Inferno sbatte il re d’Itaca nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, in cui espiano la loro condanna imperitura, i rei di frode e d’inganni: il Sommo mostra una sana curiosità verso l’eroe, il disprezzo per le “anime prave” lascia il passo ad una severa meditazione sul destino finale dell’uomo Ulisse. In fondo è stato punito per il solo fatto di possedere la scintilla vitale dell’intelletto, e che male c’è ad usare le armi che Madre Natura, o il Padreterno ti hanno messo a disposizione? Non è forse legittimo l’uso delle proprie facoltà, del proprio talento? L’uso sì, sembra rispondere l’Alighieri, ma non l’abuso. Ulisse brucia all’ Inferno perché ha abusato dolosamente del suo essere, ha mistificato la Verità attraverso la Menzogna, ha ammantato la Morte di un manto equino, spacciandola per dono alle divinità dei pagani. Fine ingannatore, per Dante il Nostro merita di confondersi nelle fiamme inesauribili che gli bruciano l’anima, non v’è diritto d’appello che tenga. Ma al solo udirne il nome, il Poeta s’illumina, vuole sapere, ha sete di conoscenza, come la ebbe Ulisse: non può trattenersi dall’ammirare l’irrefrenabile impulso che spinse l’uomo, fragile ed insicuro, ad abbandonar le quiete coste per l’infido e oscuro mare aperto.
L’incauto sfidò gli dei per portare la conoscenza tra gli uomini; come novello Prometeo, intrappolò il desio di “conoscenza” nell’incavo di una vela sospinta dal vento, e per questa “hybris”, per la sua tracotanza venne dagli dei punito. E Dante sembra ammirarlo proprio perché Ulisse ha osato ciò che lui, così timorato di Dio com’era, non avrebbe osato mai. Il timore d’eccedere, di esondare dai propri argini, di superare i propri limiti, non va forse di pari passo con l’enfatica voglia di superare quegli stessi limiti? L’arroganza tutta occidentale di essere creature uniche, esenti da spinte e controspinte biologiche, ma anzi, con la convinzione errata di poter controllare a pieno la nostra natura e quel che vi gravita attorno, non ci ha reso fin troppo sfrontati di fronte ad uno scenario etico e morale di non facile interpretazione? Non è dunque legittimo quel brivido che ci coglie davanti all’ignoto?
Ulisse è un simbolo, è l’exemplum, rappresenta la stessa ragione umana tesa alla ricognizione del possibile, verso i limiti estremi di un orizzonte nebuloso e sfocato: il suo è un “folle volo”, un salto adrenalinico verso il vuoto cosmico, verso l’ignoto che ci atterrisce.
Il viaggio è un percorso introspettivo in evoluzione, pura metafisica, scevro da angosce escatologiche di matrice paracristiane: la scoperta, l’appagamento di quella voce interiore che ci spinge a varcare soglie mai conosciute, non è forse l’unica, vera, meta finale del percorso iniziale? Ulisse ha forse bisogno d’un approdo? E’ forse un Icaro cocciuto che s’invola sul mare furente, è un semplice aedo dall’occhio ceruleo e dalla lingua forbita, , è un uomo invasato da demoni sconosciuti? Ulisse è tutto ciò e molto altro ancora.
Ma agli occhi di Dante, il “Multiforme” è colpevole: egli è un pagano, un mistificatore, il suo gesto irride la Divinità, la sua intelligenza è un affronto alla perfezione degli Immortali, alla loro “aeternitas” immutabile. Nelle parole di Ulisse risuona l’eco lontana dell’essenza del Divin Poeta, la sua humanitas è corroborata dal verbo del Navigatore Instancabile: quell’uomo che prende il remo, che scioglie le cime e dispiega le vele verso l’ignoto da venire è Dante stesso, è il suo spirito più selvaggio e disincantato, forse quello più vero. L’Ulisse di Dante è pienamente conscio della sua perfettibilità, sa di varcare un limite forse invalicabile, ha paura come tutti di quel che non conosce, ma ha la forza morale e spirituale per dirigere la prora dove il cielo tocca l’infinito, dove il mare si stempera nel tramonto. Nulla par vincere dentro di lui “l’ardore” che lo fece “divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore”, nulla par distrarlo dal suo proposito interiore, dal suo viaggio “in sè” , anzi dentro di sé: la “semenza”, il suo esser uomo, e come tale essere pensante, lo incatenano al suo destino, perché Ulisse non vuole “viver come bruti”, desidera superare il limen imposto dalla natura, il suo desiderio bulimico di “nuovo”, di “ignoto” gli impongono di peregrinare ancora, di non arrestare il passo, perseverando ancora.
E’ questa la sua “Modernità”, la chiave di volta della solida costruzione Dantesca: il re d’Itaca brucia nella fiamma eterna, “lo maggior corno della fiamma antica” lo avviluppa nel tempo immutabile degli spiriti infernali proprio a causa della sua “hybris”, della sua arroganza verso la Conoscenza. Gli Dei non permetteranno che l’Uomo assurga all’Onniscienza, non vi sarà speranza di redenzione per l’Ulisse che osi alzare lo sguardo verso il cielo e fissare gli occhi dell’Inconoscibile, nessuna espiazione, solo il tormento lo attende. L’eroe descritto dall’Alighieri incarna proprio questa insolubile dicotomia, l’essenza dell’uomo travolta dai venti delle passioni ed ancorata al suolo dalla paura del domani, dell’incerto: non si sfugge alle Moire, il destino delle creature mortali è segnato alla nascita. Eppure, eppure…Ulisse non s’inchina passivo al fato terreno, sfida le onde, sfida le nuvole, gli dei in persona (par quasi ironia!) pur di giungere a capo del suo arcano interiore: par quasi di sentirlo, il nostro, “son io soltanto il giudice di me stesso”, perché Ulisse è un sussurro, è impalpabile ed inafferrabile, come il senso stesso della vita, non s’inchina davanti a Nessuno, ma solo a sé stesso.
Figura chiave dell’ immaginario Occidentale, mito fecondo ed imperituro, Ulisse è perfettamente calato nel suo tempo, nella realtà degli uomini, sebbene sia un vessillo trascendente della libertà di pensiero insita in ognuno: nemesi speculare d’un Achille immanente e monocorde, bastevole a sé stesso, il Nostro insegue i suoi fantasmi in capo al mondo, fino alle colonne d’Ercole ed oltre, verso l’orizzonte fumoso. Achille è innamorato della sua stessa aura, sprigiona una forza assoluta, distruttiva, incessantemente alimentata dalla “mènis” divina, la passione che lo pervade e lo funesta: è quasi un semidio, così lontano dalle beghe e dalle piccolezze quotidiane, incapace di accettare il compromesso, la natura mutevole della psiche umana, la menzogna. E’ puro, intangibile, è una stella che rifulge di luce propria, prono a quel destino che gli dei gli hanno riservato, senza dubbio alcuno nel suo cuore d’eroe. Ulisse, no: Ulisse è un uomo, semplicemente. Non si nutre di gloria e di luce, non rifulge come il Pelide del suo valore guerriero; risplende del suo esser terreno, creatura soggetta alle leggi del caso e del Caos, vittima di un Fato che gli è ostile, eppur non s’arrende, mai lo farebbe. Si “sporca” le mani, mente spudoratamente, lotta con la sua intelligenza contro le asperità di un destino mortale; guata la melma dell’esistenza, si contamina, si fa strada a spintoni, a morsi, ma riemerge pur sempre vittorioso, s’erge invitto sulla moltitudine, vince perché sopravvive, a tutto e a tutti e mai si dubita della sua scintilla, del suo istinto vitale. In questo pervicace attaccamento alla vita, anche ai più piccoli brandelli dell’esistenza umana, Ulisse dimostra tutta la sua modernità, il suo essere onfalòs, “ombelico” del mondo, riferimento imprescindibile per noi piccoli occidentali spauriti, persi dietro ideologie e follie , tra echi lontani di tradizioni retoriche, ed aneliti ansiosi di futuri peregrini.
L’Odissea letteraria del Nostro si infrange sugli scogli dell’interpretazione borghese che ne dà il Pascoli ne L’Ultimo Viaggio, poema in endecasillabi sciolti, piccola perla poetica, inquieta ed onirica fantasia di brezza mediterranea, che disegna i contorni canuti d’un Ulisse stanco della sua quiete bucolica, desideroso ancora di riprendere il remo, tra spruzzi marini e canti marinareschi, tra placide tempeste e burrascose bonacce, una volta ancora sospinto dai soffi capricciosi d’un vento indomito e ribelle.
Chi è l’Ulisse pascoliano? Il poeta romagnolo abbraccia la tesi cara al Sommo, quella appunto di un Ulisse vagabondo e ramingo per speranza e sete di conoscenza: un eroe che ha adempiuto al suo destino, profetizzato dal vaticinio dell’indovino Tiresia, ombra canuta del Regno dei morti, e che s’è definitivamente arrestato sulle sponde natie, nella frondosa Itaca. Il remo salmastro infisse nella brulla terra, faro immobile sferzato dai venti, la cui luce si stagliava in lampi improvvisi sul mare vermiglio, nelle notti di nebbia: ma l’amico lontano, il mare fratello, lo chiama ancora tra i flutti schiumosi, e Ulisse non può, non vuole, sottrarsi al richiamo. Ed ecco che, ancora una volta, una volta soltanto e poi mai più, il gabbiano dalle nere ali riprende il volo, destandosi dal torpore del focolare: la nostalgia, che prima era dell’isola lontana, adesso è del passato avventuroso, delle onde suadenti, delle ombre fumose dei giganti, dell’occhio ardente del ciclope. Dov’è l’aria impregnata di sale, dove la pelle bruciata dal sole impietoso, dove le voci amiche dei compagni? E così la prora solca ancora le infinite distese di Nettuno, i compagni, vegliardi anch’essi, son di nuovo al suo fianco, ma, ahimè, dove sono quei luoghi a lui sì cari, possibile che la memoria lo inganni e vacilli? Possibile che basti la luce tremolante di una fioca candela a travisar le visioni del suo ricordo passato? Ormai è tardi, Odisseo: i luoghi a te cari non sono più, è tutto svanito, inghiottito dall’oblio, smarrito tra le pieghe della tua stessa giovinezza, quando la scintilla del tuo intelletto era più viva che mai. Le isole del mito, si riscoprono meste, son solo scogli brulli, massi informi partoriti dal nulla;e le genti misteriose che un tempo incantò con parole di miele, non vi son più, tutto è prosaico, tutto è morente, senza più la forza ed il vigore dei giorni gloriosi.
L’Ultimo Viaggio d’Ulisse approda al Nulla Eterno, v’è una caduta globale del “senso” stesso del viaggio, che diviene una epopea derelitta verso il nihil del quotidiano, verso il lento marcire del tempo indistinto. La poesia non riecheggia più tra le pieghe del tempo, è solo un sospiro perso tra le foglie del suo autunno mortale.
Varcati i confini del mito, Ulisse ritorna ad esser uomo soltanto, ma s’accorge infine che l’esistenza è per lui estraneità, eterna ed immutabile fissità delle cose: il mare non risuona di Sirene incantatrici, le aurore sbiadite non parlano più all’uomo, e neanche se ne crucciano; dov’è quello spirito che pareva possedere il mondo, dov’è l’alito di Dio, il segno del suo respiro tra le spume procellose? La nave dell’eroe è un legno spossato, ubriaco di mare e senza meta alcuna, le vele son flosce ed il timone è incantato: perfetta metafora dell’uomo moderno, che più non ritrova le antiche rotte, il Mediterraneo s’è prosciugato d’un tratto, resta solo un deserto di livida acqua infernale, percorsa al fianco della Nera Signora, alla luce spettrale della sua falce di luna.
Il vecchio capitano dal passo incerto approda ad isole-feticcio: nulla può esser rivissuto, v’è solo il ricordo, sbiadito dal tempo, di quello che fu e che mai più sarà. Il Viaggio di Pascoli verso le antiche rotte è quello d’un Ulisse disilluso, naufrago ramingo che ha già superato le colonne della sua coscienza, valicando i confini del suo stesso mito, per approdare infine nella eternità letteraria, consacrato per sempre alla pura poesia. Il poeta riprende i temi cari al francese Baudelaire, il viaggio che diviene evasione, un volo a planare fuori da sé, fuori dal mondo, verso ciò che ancora non si immagina, verso una meta che dia la pace, che plachi la sete di nuovo, che ci ubriachi degli odori e dei colori che ancora ci appaiono come oniriche visioni, genesi fumosa della nostra fantasia, e non come concrete vie di fuga da un quotidiano che atterrisce.
“Il vero viaggiatore è chi parte per partire, col cuore lieve, simile ad un pallone, chi non si separa mai dal suo destino, e senza sapere perché, dice sempre “Andiamo!”. L’autore dei “Fleurs du Mal” amplifica il senso del viaggio, ne stempera i contorni precisi, perché l’effimera ricerca di un senso è un’aporia del pensiero: viaggiare è libertà, e la libertà non ha bisogno d’un approdo, esiste di per sé, non occorre la chiusa del cerchio per concluderne l’itinere.
Pascoli rivede i luoghi del mito alla pallida luce di un presente quasi meschino nella sua banalità, il Ciclope non è più un golem monocoluto, silvano abitatore di conche e spelonche sperdute, vorace cannibale; è ora un mite pastore, mungitor d’armenti, padre sereno e sposo fedele: Ulisse è sgomento. “Dov’è il mito? Dove il ricordo?” , il suo urlo si staglia tra le nubi all’orizzonte, s’imprime nel vento, e noi ne percepiamo il dolore profondo, tutta la mestizia nodosa, del vecchio che ha perso la memoria, che vacilla, annaspando nelle nebbie di un vissuto che gli è adesso ostile, se non estraneo del tutto. E allora perché, per cosa, abbandonare la patria che conforta, il focolare che scalda, la moglie che adori? Nulla, nulla può giustificare l’abbandono di quel che al mondo v’è di più caro, per inseguire il folle balbettio di un dio capriccioso che ti solletica l’orecchio, che ti spinge a sfidare l’ignoto, e te stesso, in nome di una oscura promessa fatta chi sa a chi, vana ricerca dei propri demoni, in nome di una trascurata e fraintesa libertà. O forse sì?
E le Sirene, i Lestrigoni, Circe, Calipso? Che fine hanno fatto? Che il mare invidioso li abbia inghiottiti tra i lividi flutti? E se fossero solo ombre danzanti al fuoco di un fioco giaciglio, parto immaginifico d’un vecchio ormai bambino, o d’un bambino non ancora uomo? Forse le Sirene son solo massi informi, lacrime di pietra cadute dai monti e sospese nel cielo liquido dell’oceano, terre inospitali su cui naufraga il delirio d’Ulisse, la sua nera vela, il suo sogno interrotto. Porci, Proci, compagni perduti, sperduti, fedeli e traditori, invenzioni anch’esse di una mente stupita dall’assenza del ricordo? Perché, Odisseo, perché rifiutasti l’abbraccio eterno di Calipso? La ninfa si strugge ancora al suono delle onde, davanti al tramonto vermiglio che fugge via, insensibile al suo grido di dolore: “meglio il nulla che la morte!”
Altro interprete d’un Ulisse moderno, viaggiatore instancabile e solitario, fu il poeta inglese Alfred Tennyson, anch’egli autore di una lirica dedicata alla sua figura: il suo è invito, anzi un’esortazione, a lasciare i placidi approdi del quieto sentire quotidiano, a lasciarsi andare ancora una volta, mollando gli ormeggi che ci avvinghiano al nostro piccolo mondo, per gettarci impavidi nel “grande” mondo. Forse che basti il solo respiro per dirsi vivi? Ulisse è il “re neghittoso alla vampa”, come pretendere di avvincerlo, di incatenarlo al suolo, impedendogli il salto pindarico verso le lande oscure della sua coscienza? Che paura può mai avere di fronte all’ignoto, lui che all’ombra dei bastioni di Ilio ordì per tutti l’atroce inganno, lui che spavaldo sostenne d’Ettore il fiero sguardo? Dunque che si vinca quel fremito sordo che s’ode nel cuore, si riprenda l’onda benigna, ed i venti contrari si faccian da parte, perché l’Odissea ricomincia…
“Non è mai troppo tardi per coloro che ricercano un mondo novello, che son pronti al sacrificio, pur di conoscere e conquistare le terre inesplorate”: Tennyson riscopre il suo eroe attraverso le pagine dantesche, il motivo dominante è la fuga dal proprio centro, verso il punto di non ritorno, dove s’ode soltanto l’eco indistinto delle proprie paure, dove le catene dell’io sono spezzate dal desiderio di una nuova rotta da inseguire ed esplorare, senza rimorso, senza angoscia alcuna. Manca però la condanna, l’espiazione della pena, ben presente nell’Inferno del Sommo: Ulisse è ben conscio del periglio, ma l’infrazione del limite concesso è solo il punto di partenza, l’appiglio cui aggrapparsi per giungere all’appagamento di quella naturale necessità di ognuno, quella di vedere il proprio destino compiersi, i propri sogni essere vissuti, perchè solo questo conta davvero. Laddove Dante non poteva esimersi dal giudizio, dal concepire per l’Ulisse menzognero un esito negativo, una parabola discendente del mito, Tennyson, uomo moderno, esponente del romanticismo britannico, trasforma il Nostro nell’eroe per eccellenza, il pionere, il colonizzatore del nuovo millennio, un santo patrono laico orfano della sua chiesa, un uomo nuovo in cui immedesimarsi.
Il tema del viaggio trova humus fertile anche nel secolo breve, quando sulla scena letteraria europea s’affaccia l’Ulisse di James Joyce, scrittore a sua volta ondivago, nomade metropolitano, che divise la sua esistenza tra Dublino, Parigi e Trieste, scogli borghesi cui aggrapparsi per non esser risucchiati nel turbinio carsico della Grande Guerra. Romanzo cruciale, possente, evocativo, che scardina le coordinate di spazio e di tempo, irrompe con arroganza, sgomita con la sua lingua inafferrabile, s’impone per l’impareggiabile complessità stilistica e lessicale. L’odissea del moderno Ulisse si consuma nell’arco di una quotidiana peregrinazione alla ricerca d’un figlio, sintagma originale di tutto il viaggio, una discesa nel ventre della città, Dublino, che diventa Mediterraneo salmastro, che diventa anima mundi, giungla inospitale in cui si dipanano le vicende di un Odisseo irlandese di origini magiare, Leopold Bloom.
Bloom, la sua penelope, Molly, il giovane Stephen Dedalus, alterego cartaceo dello stesso Joyce, costituiscono i pilastri su cui si fonda la cattedrale letteraria dell’autore, intrisa di decadente estetismo, in contrapposizione al razionalismo dantesco, il velo di Maya che cela l’ordine del mondo viene infine strappato via, e quel che appare è solo il misero spettacolo d’una umanità persa nel gorgo primordiale, vite fragili, microcosmi inquieti che si scontrano tra loro come monadi impazzite, alla nevrotica ricerca di in senso comune, di un sentiero illuminato nella nebbia di un quotidiano sempre più alieno, distaccato dalla intima realtà di ognuno. Un’opera dagli accenti epici, eroicomici, parzialmente modellata sull’epopea omerica, dove la parola assume tutti i crismi di una liturgia laica, diviene verità disvelata, parto alacre d’una mente feconda e complessa come quella dello scrittore dublinese. Diciotto capitoli, diciotto episodi, diciotto stili per ogni frammento del giorno, l’opera è universalmente riconosciuta come la biblioteca del modernismo : accolta da una risma di pareri discordanti, Eliot, Pound, Gide ne furono folgorati, anche se non mancarono critiche feroci, allergiche allo stile fin troppo estetizzante ed ultramoderno della parola joyciana. Del resto l’Ulisse-Bloom è una figura ben poco eroica, intabarrata nella sua dimensione piccolo-borghese, non possiede quegli afflati epici che hanno reso immortale la creazione omerica: si narra d’un’anonima odissea, un peregrinare sommesso, visceralmente intriso di amenità quotidiane, ma i temi trattati ben rivendicano la fideistica condivisione d’un terreno comune, il tassello mancante del nostro mosaico interiore, quel sentimento che sovente ci trascina seco, e che siamo avvezzi a chiamare semplicemente “amore”. Il vivere quotidiano come Odissea, un Nessuno che diviene un Qualcuno nelle pagine d’un libro che ha cambiato per sempre le coordinate sintattiche, logiche, stilistiche, il modo stesso d’intendere lo scrivere, in definitiva una vera e propria rivoluzione letteraria senza precedenti, almeno se si tiene l’occhio puntato su quel che viene definito “il secolo breve” (l’Ulisse è del 1922). Il fulcro, la chiave di volta dell’opera risiede nella alchemica trasmutazione dell’amore in tutte le sue accezioni; le molecole che ne compongono l’essenza sublimano, passando attraverso stati e gradi: Bloom, nella sua Odissea metropolitana, attraversa una Dublino livida e complessa, le scava nell’animo, per ritrovare il senso di una vita sfuggente, perso nei suoi meandri budellosi e dolciastri; Stephen Dedalus, Telemaco dei nostri giorni, par perso dietrogli spettri di un inconscio febbrile, ragione fatta uomo, che compulsa sé stessa per comprendere il suo tempo, per districarsi tra gli arcani di una storia mai amica, né madre, semmai matrigna; Molly Bloom, Penelope sensuale ed istintiva, parodia della moglie-cenerentola, accattivante sirena, eco silente di ritorni costanti al caldo fuoco di un letto infedele, perseide fumosa ed infiammabile al tocco. Ulisse-Bloom si ribella alla Storia come partogenesi della Violenza, come frutto dell’odio tra gli uomini, ne illustra gli sviluppi uguali e contrari, giungendo alla conclusione che l’amore esiste solo come unione delle sue varie componenti, siano esse accezioni sessuali, filiali, materne, paterne o, più globalmente, sociali. L’Ulisse termina con una sintesi riconciliatoria, una prospettiva allopatica del sentimento più caritatevole, quell’affetto tra gli uomini che è quanto di più vicino all’ idea stessa di Paradiso possa esistere: Dante ci dice che il Paradiso d’Adamo durò un battito d’ali, Proust ci ricorda che esso è perduto per sempre, e che la ricerca d’Ulisse è vana, se non illuminata dalla luce del ricordo.
La frammentazione del piano dinamico e lo smarrimento dell’io narrante possono alla lunga risultare stranianti, caos stilistico votato alla captazione del lettore, ma è l’unica maniera davvero efficace per rendere omaggio all’uomo del Novecento. L’opera di Joyce rende definitivamente giustizia ad una figura emblematica della cultura occidentale: Ulisse da uomo, da eroe, diviene infine Mito, assurge a puro spirito, trascende i suoi limiti terreni.
Fino a che vi saranno nuove terre da esplorare, ciclopi accecati da ingannare, sfide temerarie da affrontare e divinità del Fato da gabbare, stiamo pur certi che il fiero greco dagli occhi cerulei sarà al nostro fianco, e la sua vela incrocerà ancora l’orizzonte nebbioso, solcando una volta di più, il mare increspato della conoscenza umana.