I simboli sono da sempre uno dei modi che gli uomini hanno trovato per compattarsi tra loro, per cementare la loro appartenenza ad un’ origine culturale o naturale comune. Il totem, la divinità, il sacro fondatore, sono strumenti culturali intercambiabili tra loro: il loro potere, la loro centralità, non è ovviamente intrinseca, ma viene riconosciuta dagli uomini, che ne hanno un intimo bisogno, se ne nutrono, perché c’è bisogno anche di un tipo di cibo spirituale, e non è necessario che sia riconosciuto o si riconosca in un dogma religioso più o meno ufficiale. Se il Natale e tutto il caravanserraglio di riti e figure che esso si trascina appresso si rifanno ad un’ idea di festa “sacra” per eccellenza, perché ricollegabile alle liturgie che celebrano la vita, e sono perciò simboli da rispettare, non così può dirsi del fratello cafone e smargiasso del Natale, quel Carnevale pacchiano e caciarone che dalle nostre parti si suole chiamare “Zi’ Vicienzo”. E quando viene Zi’ Vicienzo? Per prima cosa bisogna dire che il nostro non è un tipo preciso e distinto come suo fratello maggiore: Natale è un galantuomo e sa che non è fine far aspettare chi lo ospita, ecco perché giunge puntuale, ogni anno il 25 dicembre nelle case di tutti noi. Vincenzo, no, lui è un vero napoletano, quello che ti dice: “Oi nì, vai cuoncio, ce verimmo a via ‘e l’otto”, e vai a capire se sarà mezzora prima o un’ora dopo. Ragion per cui ecco che ce lo ritroviamo davanti all’improvviso, verso Febbraio-Marzo, sul suo bel carretto pieno di ogni ben di Dio, triccaballacche, putipù, scetavajasse, alberi della cuccagna, Pulcinelli ubriachi e satolli, vecchi bambini e bambini invecchiati di colpo, figure inquietanti e comiche al contempo, come la celeberrima “Vecchia ‘o Carnevale”, Sirena gobbuta ed antropomorfa, metà Vecchia e metà Pulcinella, regina indiscussa del Carnevale e del suo folle circo di burattini impazziti. E a proposito della Vecchia, questa maschera è doppia, nel senso che il medesimo soggetto impersona Pulcinella Cetrulo e la vecchia ingobbita che lo tiene sulle spalle: il diavolo priapesco e popolare, il Re del Carnevale col suo scettro puntuto a forma di “cuppulone” è proprio lui, “Pullecenella”, il guitto di Acerra (non a caso, come i veri cafoni, Pulcinella è nato in provincia). E la sua Regina? Chi è mai la sua Cenerentola? Ma è proprio la sua “dolce metà”, la Vecchia che se lo sobbarca, unico caso di patogenesi muliebre della storia dell’umanità! A cavacecio della sua grinzosa sposa, Pulcinella danzava la quadriglia, la tarantella, al suono delle nacchere e dei tamburelli, facendo fare alla Vecchia tutta una serie di mosse e gesti osceni, il che generava l’ilarità generale e la risata più sguaiata. Tale specifico personaggio è una figura già presente nel folclore europeo, ed è figura simile alle altre vecchie che compaiono nel periodo del Carnevale o nelle sue adiacenze, come la Befana, la Quaresima, La Vecchia del grano, e che rappresentano tutte, in vario modo, la natura appassita, l’anno appena trascorso, la vecchiaia infamante, l’offesa che il tempo che passa reca con sé. Già nel secolo scorso, si era persa la valenza positiva operata dalla metà superiore, di Pulcinella: la simbologia della Vecchia si accompagnava infatti all’apice drammatico rappresentato dal cosiddetto “Ballo dei Turchi”. Questo spettacolo, nota pantomima seicentesca che si inscenava per le vie appannaggio della plebaglia più minuta, si rappresentò a Napoli e in Campania fino alla seconda metà del XIX secolo: gli attori erano scelti tra i lazzaroni dei quartieri popolari, non più di cinque o sei, con le facce annerite dal sego o dal carbone. Queste facce da galera che in altri momenti avrebbero fatto disperdere un esercito, si calavano perfettamente nella parte dei Saraceni invasati, ed erano perfino credibili mentre davano vita alle eroiche vicende di amori sfortunati, o a mirabolanti duelli di cappa e spada. Nel momento di maggior tensione tragica, ecco giungere Pulcinella a cavallo della sua Vecchia, vero “deus ex machina” del vicolo, genio dell’eudemonia che avvolge tutti in uno scoppio di chiassosa concordia, danze vertiginose e allegrezza generale. Tali balli furono ritratti dal Callot, nei “Balli di Sfessania”, titolo che il pittore francese diede ad una serie di ventiquattro incisioni che sono diventate l'emblema della Commedia dell'Arte e del teatro delle maschere: nel secolo d’oro della Commedia dell’ Arte, fiorì la leggenda secondo la quale, nella notte precedente il Martedì Grasso, le maschere tutte, da Arlecchino a Pantalone, da Colubrina alla Zeza, si animavano e partecipavano al “Gran Ballo di Sfessania”. Il Carnevale è sempre stato il momento della trasgressione, l’unico periodo dell’anno in cui le regole potevano essere infrante, i divieti abbattuti, e le classi sociali si scambiavano i ruoli, potendo il plebeo fustigare il patrizio. Diretta emanazione dei Lupercalia, di origine classica, e che si festeggiavano il 15 Febbraio, il Carnevale era il figlio di primo letto della Trasgressione e del dio Priapo: ancora sul finire del Seicento, era costume portare in processione una statua di legno di Priapo con un membro indecentemente grande e grosso, che giungeva all’altezza del mento. Al carattere licenzioso della festa contribuì anche il fatto che le meretrici di mezza Europa erano costrette ad una vita di “clausura” nei bordelli, dai quali potevano allontanarsi solo per andare a messa, e durante il Carnevale; anche a Napoli le gentili ancelle di Afrodite partecipavano ai veglioni ed alle feste notturne, magari arrotondando il mensile in quelle occasioni licenziose. Ma come tutti, anche “Zì Vicienzo” ha il suo personale appuntamento con la Nera Signora, con “Zì Pascale”, come viene familiarmente appellata dal popolino: e lì, in quel caso, anche il Nostro è preciso, muore ogni anno di Martedì Grasso, prima dell’inizio della Quaresima. Su di un carretto tutto inghirlandato, dipinto ed infiorato di frasche, foglie di cavolo e di vite, tutto parato di veli e mortadelle, salamelle e salami gargantueschi, tirato a mano o da un asinello, ecco avanzare sua Maestà ‘O Carnevale, col ventre a botte e le gambette tozze; ha il viso di uno stolido bamboccione, sporco di polvere e di carbone, stordito ed inebetito dalla sua stessa indigestione. Prefiche urlanti ne accompagnano l’agonia festosa, ma le litanie non sono sommesse e lamentose, sono urla da sommossa, parolacce ed oscenità da bettola o bordello; così il vero Carnevale tira le cuoia, tra gli strepiti del suo corteo cencioso ed esaltato:
“Ha ditto lu miedeco de lu Mercato,
Che Carnevale sta malato.
E gioia!
Ha ditto lu medico de lu Pennino,
Che Carnevale sta malato int’ ‘e stentine.
E gioia!
Ha ditto lu miedeco de lu Porto,
Che Carnevale sta malato n’cuorpo.
E gioia!
E comme l’avite visto st’anno
Lu puzzate bedè a ca a cient’anne!”
Il popolo era col suo Re, anzi era Carnevale: a volte la Morte di Carnevale diventava una specie di Piedigrotta, con la sfilata dei carri in festa e la rappresentazione della Cuccagna, coi grossi carri trainati dalle pariglie, colmi di ogni ben di Dio, Vesuvii fumanti di leccornie e balocchi, coi lazzari e le quatrane bardati a festa, con le urla gioiose di una plebe che aveva poi ben rare occasioni durante l’anno per gioire, perché la miseria era reale, e non la puoi mica mangiare.
Tutto il rito era quindi una specie di “canto del cigno” prima delle giornate della Passione e del calvario terreno del Signore: con la Quaresima si entrava nel periodo della frugalità e della ristrettezza, prima di tutto alimentare. E bisogna mettersi nei panni stracciati dei popolani, per poter capire quanto fosse importante fare incetta di beni primari durante il Carnevale, con le elargizioni reali che nel periodo precedente la Pasqua erano sospese del tutto. Carnevale, oggi come allora, conserva più o meno inalterato, il significato apotropaico di "rovesciamento benigno" dei valori costituiti: occasione di sfrenatezza e licenziosità, nei balli della passione il povero ed il ricco, il bello ed il brutto, il pezzente ed il potente, partecipavano tutti della gioia misterica della vita umana, per una volta unico popolo servo della sola divinità che conti davvero omaggiare: il pazzo Carnevale, divinità dell'abbondanza.
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