sabato 7 febbraio 2009

Il mio Ulisse:

Pubblico un breve saggio sulla figura emblematica di Ulisse, l'eroe della conoscenza per eccellenza: in anni di Berlusconismo rampante, è bene riscoprire le radici dell' Uomo tout court, l'Uomo che esplora gli infiniti mondi e ne ritorna arricchito, per poi riprendere il remo e cercare ancora il mare. Per una volta ancora, per sempre.



Ulisse:

L’uomo, il mito, la letteratura.

L’Odissea, opera immortale dello spirito greco, parto felice e fruttuoso di un cieco cantore, aedo di epiche note che ci toccano il cuore, ha anch’essa delle affinità con l’altra colonna poetica del tempio delle Muse, l’Iliade: se non altro perché la vulgata vuole che siano frutto della medesima mente feconda, di quell’Omero dai contorni sfocati e dalle orbite vuote, pallide albe incastonate tra un naso camuso ed una barba riccia e folta come i rovelli dell’uomo, antico o moderno che sia. Lo studio epistemologico della materia, che in mille e più anni ha visto fior di studiosi cimentarsi con analisi più o meno scientifiche ed impressioni non sempre veritiere, ci suggerisce che entrambe le opere presentano una introduzione in medias res, rappresentano cioè vicende iniziate da tempo per attirare da subito l’attenzione dell’uditorio. E sono vicende, azioni, dannatamente umane, generate da pulsioni e sentimenti terreni: l’intervento divino anche nell’Odissea si fa esplicito, ma sono figure antropomorfe quelle che si occupano dei destini degli uomini, sono divinità aristocratiche, impelagate in trame civettuole ed amorazzi boccacceschi. L’ humus dell’opera, l’argilla dalla quale attingono le mani sapienti del poeta, ha radici nelle varie saghe dei nostoi, i ritorni in patria dei vari superstiti dalla “madre” di tutte le guerre, quella guerra di Troia che “infiniti addusse lutti agli Achei”, e che tanto flagello sparse sui campi di pugna e tra la spuma del mare. E già, perché le varie “odissee” saranno variamente osteggiate da un fato peregrino ed avverso, e gli olimpici saranno in tal caso più implacabili del Leviatano di biblica memoria: il sacrilegio compiutosi nelle stanze di Priamo, l’oltraggio portato alle sacerdotesse d’ Atene non rimasero a lungo impuniti, la via del ritorno è costellata di lutti e di perigliose avventure.
Questo materiale così fertile e complesso si avvale della scomposizione dei piani narrativi, di rimandi ed anticipazioni, e della voce narrante di un eroe tra i più grandi, quell’Ulisse maestro d’ inganni e tessitore di menzogne, affabulatore indiscusso ed instancabile. Nell’ottica omerica Ulisse è il multiforme, il polimorfo, l’uomo che non soggiace all’amara sorte, che plasma gli eventi e non se ne lascia irretire, l’uomo che confidando sulle sue sole forze e sulla capacità d’adattarsi agli eventi mutevoli riesce a superare avversari temibili ed avversità invincibili. Ma può Ulisse definirsi eroe omerico per eccellenza? E’ forse un “eroe”, nella sua dimensione classica, dalla forza combattiva leonina, dal coraggio ai limiti dell’incoscienza, dalla furia bellica cieca ed incontrollabile?
Quando si tratta di puro istinto guerresco di certo il Nostro non occupa le prime posizioni: eppure, quando si tratterà di assegnare le armi d’Achille sarà Ulisse che ne risulterà degno erede, egli è l’Acheo più pericolo sul fronte tattico e parabellico. Lo sdegno d’Aiace rimarrà inascoltato, tanto da portarlo alla pazzia: farà strage d’armenti, nelle nebbie del sogno così simili agli odiati alleati.
Si diceva pocanzi di un Ulisse “pericoloso” per i nemici Troiani, perché la sua arguzia è un arma ben più sottile e suadente della forza erculea d’Aiace o della ferocia dell’Oileo, e nell’ Ippia Minore
Socrate ce ne dà ampia dimostrazione dialettica: secondo il filosofo, la possanza fisica, il valore muscolare, non hanno scelte da proporre, né modelli con i quali confrontarsi, dato che l’istinto è una forza monodimensionale, univoca. La pulsione cinetica può essere controllata, incanalata e profusa, ma come un ordigno innescato, dovrà esplicitare la sua dinamica nell’annientamento sistematico dell’avversario che gli si para innanzi. Ben altra materia l’intelligenza, che come argilla spugnosa, sa adattarsi agli eventi, aderendo alla realtà senza annullarla: basta una leva per sollevare un macigno. Vi sono, nel suo fascinoso e periglioso itinerare, episodi chiave: al cospetto dei Feaci e del Re Antinoo, chi meglio d’Ulisse è in grado di solleticare l’uditorio, affascinare ed ammaliare solo con il semplice uso della sua ardimentosa favella? Nausicaa è ai suoi piedi, così come lo è stato per certi versi, il ciclope Polifemo, vinto dall’inesauribile ingegno e dalle capacità logico-deduttive dell’uomo-Davide contro il gigante-Golia. “Il mio nome è Nessuno”, oppure “Nessuno mi acceca”, sono frasi celeberrime, sconosciute a pochi.
In una società primitiva ed ancestrale, il cui principale obbiettivo è la sopraffazione fisica, il dominio materiale degli elementi, l’acume intellettuale è avvertito con maggiore ambiguità e diffidenza. Ma anche rispetto, perché dote rara e preziosa.
La tematica di fondo cambia profondamente dall’Iliade all’Odissea: a parte il tema corale della prima opera, incentrata sui confronti muscolari e virulenti tra i vari personaggi (Achille-Ettore; Paride-Menelao; Priamo-Agamennone), e quello monosoggettivo dell’Odissea, cambia radicalmente il concetto d’eroe: è un passaggio repentino ed improvviso, che scuote le corde della nostra sensibilità. L’eroe duro e puro compie la sua metamorfosi, la sua trasmutazione alchemica, essere ed apparire che si scindono nella figura del polymorphus Odisseo: nasce per la prima volta una psicologia del personaggio, complessa e di lettura non sempre univoca.
L’episodio delle Sirene nel XXII canto dell’Odissea è un paradigma perfetto della sua indole inquieta: il Nostro è cosciente dell’ enigma che le donne-pesce antropomorfe rappresentano, tuttavia è ben saldo nel suo proposito, la coscienza del pericolo non soffoca l’impulso alla conoscenza.
Il suo desiderio ossessivo, la sua brama di sapere, gli fanno spostare la soglia di vigilanza oltre i confini della consapevolezza: la ragione si fa da parte, mentre la curiosità assurge a senso guida, bussola degli istinti viscerali. Dischi di cera preserveranno i suoi compagni, ma lui no, lui vuole ascoltare, le vuole “sentire” quelle voci ingannevoli che addormentano l’anima, precipitando gli incauti nei gorghi del mare.
Il suo freno saranno gli altri, le sirene oscure non frustreranno il suo istinto pervicace, non scalfiranno il suo impeto vitale.
Ma l’Odissea è anche il poema della nostalgia, la nostalgia della patria lontana e degli affetti cari tenuti nel cuore e mai obliati: Itaca è un isola che non c’è, se non nei sogni più intimi e profondi, è una meta che sfugge all’occhio del peregrino, eppure la sua presenza si percepisce distintamente. Ulisse è una corda di cetra tesa tra il passato degli affetti, tra l’amore coniugale verso una moglie che ricorda ancora giovane e rubizza, e l’affetto filiale, per quel Telemaco che ha tenuto tra le braccia per poco tempo ahimè, e che vide allora infante e poi mai più. Ma i suoi gorghi, le sue procelle interiori sono sì tempestose, ma non così impetuose da fugarne l’anelito vitale, la spinta irrefrenabile verso quelle nebbie oscure dell’incerto, verso quella ricerca del non conosciuto che da millenni e millenni spinge l’uomo oltre il baratro delle sue false certezze.
E’ un eroe combattuto il Nostro, in possesso di una scintilla intellettiva non comune, sospeso tra il desiderio legittimo di posare il piede stremato ancora una volta sul suolo natio, e la pulsione incoercibile ad affrontare i suoi fantasmi mai sopiti, quella voglia tumultuosa di nuovo e di terre lontane. Ulisse è un figlio di Sisifo, è il degno erede di un paradigma iconografico di arguzia e sagacia senza pari, la trama dei suoi inganni è così fine, che son pochi quelli che s’avvedono d’esserne avviluppati.
Sempre nell’ Ippia Minore, Socrate conclude che in una ipotetica disfida tra due campioni inarrivabili quali Achille, il “piè veloce”, ed Ulisse dal “pensiero serpentesco”, il secondo la spunterebbe praticamente sempre, grazie alla facoltà che gli è riconosciuta, quella di scegliere se una data azione deve o meno essere compiuta. E’ in tale capacità di discernimento che risiede la superiorità del Nostro. Achille è una figura univoca, una monade, può agire assecondando unicamente i suoi istinti primordiali e ferini; Ulisse è razionalità pura, è logica distillata, un concentrato ipervitaminico di freddezza glaciale e calcolo serrato. La sua vendetta contro gli usurpatori, contro i principi di Itaca che ne volevano arraffare terre e proprietà, insidiandogli financo la moglie, sarà spietata e lineare, proprio perché esente dai dazi che impone la nemesi virulenta e primitiva. Ulisse non ha gli occhi “di brace”, iniettati di sangue, quando il suo arco micidiale si tende, scagliando i suoi strali mortali sul nemico: al contrario, l’eroe è sereno nella sua missione omicida, non ha tremore la sua mano, la corda si tende perfetta ed inesorabile, ed il destino si compie, così come era scritto. La pietà è lontana dai suoi occhi, niente sembra turbare il suo proposito apocalittico: i traditori devono pagare, non c’è speranza, non v’è espiazione. Persino Achille si “commuove”, la sua chioma leonina è scossa, il Mirmidone si ridesta dalla sua albagia spocchiosa e riconosce il valore del nemico caduto, chiama “fratello” il Troiano Ettore, sa che entrambi non son altro che ombre che camminano, comprimari di uno spettacolo di cui non muovono i fili, facce complementari della stessa medaglia.
Ulisse no. Non prova sentimenti verso i miseri Proci, sommersi da una gragnuola di dardi infallibili, è terso il suo sguardo, le labbra sono serrate ed il braccio si tende senza alcuna esitazione.
Un uomo complesso, non v’è dubbio: quante facce offre il suo essere, quanti i fremiti che ne attraversano l’animo? Ulisse è uomo, ma potrebbe essere un pensiero che subitaneo e repentino sfugge all’occhio più attento, un vento leggiadro e carezzevole che d’improvviso ti schiaffeggia in pieno viso, un fulmine indomabile che rompe gli indugi e ti dà la scossa quando meno te l’aspetti. Ulisse è puro spirito, ma la sua figura incarna l’uomo, non l’eroe. L’uomo tout court, con le sue infinite scelte, con le sue possibilità e le sue fobie, la sua quotidianità a volte meschina, altre eroica, i mille rovelli che però s’eclissano nel momento in cui si deve prendere coscienza di ciò che si è e di come si è.
Guai al Ciclope che incontri un Nessuno di tal fatta! In più d’una occasione l’eroe avrà modo di testare la sua favella iperbolica, la sua dialettica circense, la sua plasticità acrobatica: chi può fermare un guerriero della parola, un cavaliere della retorica, un aedo affabulatore come il Nostro?
Senza tema d’esser smentiti, si può affermare che Ulisse rappresenta un simbolo metastorico, che va ben aldilà delle rappresentazioni mitopoietiche, delle liturgie protoletterarie, delle celebrazioni apologetiche: egli è la personificazione dell’ingegno dell’uomo applicato alla realtà materiale che lo circonda. Ne sa qualcosa Dante, che nel XXVI canto dell’Inferno sbatte il re d’Itaca nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, in cui espiano la loro condanna imperitura, i rei di frode e d’inganni: il Sommo mostra una sana curiosità verso l’eroe, il disprezzo per le “anime prave” lascia il passo ad una severa meditazione sul destino finale dell’uomo Ulisse. In fondo è stato punito per il solo fatto di possedere la scintilla vitale dell’intelletto, e che male c’è ad usare le armi che Madre Natura, o il Padreterno ti hanno messo a disposizione? Non è forse legittimo l’uso delle proprie facoltà, del proprio talento? L’uso sì, sembra rispondere l’Alighieri, ma non l’abuso. Ulisse brucia all’ Inferno perché ha abusato dolosamente del suo essere, ha mistificato la Verità attraverso la Menzogna, ha ammantato la Morte di un manto equino, spacciandola per dono alle divinità dei pagani. Fine ingannatore, per Dante il Nostro merita di confondersi nelle fiamme inesauribili che gli bruciano l’anima, non v’è diritto d’appello che tenga. Ma al solo udirne il nome, il Poeta s’illumina, vuole sapere, ha sete di conoscenza, come la ebbe Ulisse: non può trattenersi dall’ammirare l’irrefrenabile impulso che spinse l’uomo, fragile ed insicuro, ad abbandonar le quiete coste per l’infido e oscuro mare aperto.
L’incauto sfidò gli dei per portare la conoscenza tra gli uomini; come novello Prometeo, intrappolò il desio di “conoscenza” nell’incavo di una vela sospinta dal vento, e per questa “hybris”, per la sua tracotanza venne dagli dei punito. E Dante sembra ammirarlo proprio perché Ulisse ha osato ciò che lui, così timorato di Dio com’era, non avrebbe osato mai. Il timore d’eccedere, di esondare dai propri argini, di superare i propri limiti, non va forse di pari passo con l’enfatica voglia di superare quegli stessi limiti? L’arroganza tutta occidentale di essere creature uniche, esenti da spinte e controspinte biologiche, ma anzi, con la convinzione errata di poter controllare a pieno la nostra natura e quel che vi gravita attorno, non ci ha reso fin troppo sfrontati di fronte ad uno scenario etico e morale di non facile interpretazione? Non è dunque legittimo quel brivido che ci coglie davanti all’ignoto?
Ulisse è un simbolo, è l’exemplum, rappresenta la stessa ragione umana tesa alla ricognizione del possibile, verso i limiti estremi di un orizzonte nebuloso e sfocato: il suo è un “folle volo”, un salto adrenalinico verso il vuoto cosmico, verso l’ignoto che ci atterrisce.
Il viaggio è un percorso introspettivo in evoluzione, pura metafisica, scevro da angosce escatologiche di matrice paracristiane: la scoperta, l’appagamento di quella voce interiore che ci spinge a varcare soglie mai conosciute, non è forse l’unica, vera, meta finale del percorso iniziale? Ulisse ha forse bisogno d’un approdo? E’ forse un Icaro cocciuto che s’invola sul mare furente, è un semplice aedo dall’occhio ceruleo e dalla lingua forbita, , è un uomo invasato da demoni sconosciuti? Ulisse è tutto ciò e molto altro ancora.
Ma agli occhi di Dante, il “Multiforme” è colpevole: egli è un pagano, un mistificatore, il suo gesto irride la Divinità, la sua intelligenza è un affronto alla perfezione degli Immortali, alla loro “aeternitas” immutabile. Nelle parole di Ulisse risuona l’eco lontana dell’essenza del Divin Poeta, la sua humanitas è corroborata dal verbo del Navigatore Instancabile: quell’uomo che prende il remo, che scioglie le cime e dispiega le vele verso l’ignoto da venire è Dante stesso, è il suo spirito più selvaggio e disincantato, forse quello più vero. L’Ulisse di Dante è pienamente conscio della sua perfettibilità, sa di varcare un limite forse invalicabile, ha paura come tutti di quel che non conosce, ma ha la forza morale e spirituale per dirigere la prora dove il cielo tocca l’infinito, dove il mare si stempera nel tramonto. Nulla par vincere dentro di lui “l’ardore” che lo fece “divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore”, nulla par distrarlo dal suo proposito interiore, dal suo viaggio “in sè” , anzi dentro di sé: la “semenza”, il suo esser uomo, e come tale essere pensante, lo incatenano al suo destino, perché Ulisse non vuole “viver come bruti”, desidera superare il limen imposto dalla natura, il suo desiderio bulimico di “nuovo”, di “ignoto” gli impongono di peregrinare ancora, di non arrestare il passo, perseverando ancora.
E’ questa la sua “Modernità”, la chiave di volta della solida costruzione Dantesca: il re d’Itaca brucia nella fiamma eterna, “lo maggior corno della fiamma antica” lo avviluppa nel tempo immutabile degli spiriti infernali proprio a causa della sua “hybris”, della sua arroganza verso la Conoscenza. Gli Dei non permetteranno che l’Uomo assurga all’Onniscienza, non vi sarà speranza di redenzione per l’Ulisse che osi alzare lo sguardo verso il cielo e fissare gli occhi dell’Inconoscibile, nessuna espiazione, solo il tormento lo attende. L’eroe descritto dall’Alighieri incarna proprio questa insolubile dicotomia, l’essenza dell’uomo travolta dai venti delle passioni ed ancorata al suolo dalla paura del domani, dell’incerto: non si sfugge alle Moire, il destino delle creature mortali è segnato alla nascita. Eppure, eppure…Ulisse non s’inchina passivo al fato terreno, sfida le onde, sfida le nuvole, gli dei in persona (par quasi ironia!) pur di giungere a capo del suo arcano interiore: par quasi di sentirlo, il nostro, “son io soltanto il giudice di me stesso”, perché Ulisse è un sussurro, è impalpabile ed inafferrabile, come il senso stesso della vita, non s’inchina davanti a Nessuno, ma solo a sé stesso.
Figura chiave dell’ immaginario Occidentale, mito fecondo ed imperituro, Ulisse è perfettamente calato nel suo tempo, nella realtà degli uomini, sebbene sia un vessillo trascendente della libertà di pensiero insita in ognuno: nemesi speculare d’un Achille immanente e monocorde, bastevole a sé stesso, il Nostro insegue i suoi fantasmi in capo al mondo, fino alle colonne d’Ercole ed oltre, verso l’orizzonte fumoso. Achille è innamorato della sua stessa aura, sprigiona una forza assoluta, distruttiva, incessantemente alimentata dalla “mènis” divina, la passione che lo pervade e lo funesta: è quasi un semidio, così lontano dalle beghe e dalle piccolezze quotidiane, incapace di accettare il compromesso, la natura mutevole della psiche umana, la menzogna. E’ puro, intangibile, è una stella che rifulge di luce propria, prono a quel destino che gli dei gli hanno riservato, senza dubbio alcuno nel suo cuore d’eroe. Ulisse, no: Ulisse è un uomo, semplicemente. Non si nutre di gloria e di luce, non rifulge come il Pelide del suo valore guerriero; risplende del suo esser terreno, creatura soggetta alle leggi del caso e del Caos, vittima di un Fato che gli è ostile, eppur non s’arrende, mai lo farebbe. Si “sporca” le mani, mente spudoratamente, lotta con la sua intelligenza contro le asperità di un destino mortale; guata la melma dell’esistenza, si contamina, si fa strada a spintoni, a morsi, ma riemerge pur sempre vittorioso, s’erge invitto sulla moltitudine, vince perché sopravvive, a tutto e a tutti e mai si dubita della sua scintilla, del suo istinto vitale. In questo pervicace attaccamento alla vita, anche ai più piccoli brandelli dell’esistenza umana, Ulisse dimostra tutta la sua modernità, il suo essere onfalòs, “ombelico” del mondo, riferimento imprescindibile per noi piccoli occidentali spauriti, persi dietro ideologie e follie , tra echi lontani di tradizioni retoriche, ed aneliti ansiosi di futuri peregrini.
L’Odissea letteraria del Nostro si infrange sugli scogli dell’interpretazione borghese che ne dà il Pascoli ne L’Ultimo Viaggio, poema in endecasillabi sciolti, piccola perla poetica, inquieta ed onirica fantasia di brezza mediterranea, che disegna i contorni canuti d’un Ulisse stanco della sua quiete bucolica, desideroso ancora di riprendere il remo, tra spruzzi marini e canti marinareschi, tra placide tempeste e burrascose bonacce, una volta ancora sospinto dai soffi capricciosi d’un vento indomito e ribelle.
Chi è l’Ulisse pascoliano? Il poeta romagnolo abbraccia la tesi cara al Sommo, quella appunto di un Ulisse vagabondo e ramingo per speranza e sete di conoscenza: un eroe che ha adempiuto al suo destino, profetizzato dal vaticinio dell’indovino Tiresia, ombra canuta del Regno dei morti, e che s’è definitivamente arrestato sulle sponde natie, nella frondosa Itaca. Il remo salmastro infisse nella brulla terra, faro immobile sferzato dai venti, la cui luce si stagliava in lampi improvvisi sul mare vermiglio, nelle notti di nebbia: ma l’amico lontano, il mare fratello, lo chiama ancora tra i flutti schiumosi, e Ulisse non può, non vuole, sottrarsi al richiamo. Ed ecco che, ancora una volta, una volta soltanto e poi mai più, il gabbiano dalle nere ali riprende il volo, destandosi dal torpore del focolare: la nostalgia, che prima era dell’isola lontana, adesso è del passato avventuroso, delle onde suadenti, delle ombre fumose dei giganti, dell’occhio ardente del ciclope. Dov’è l’aria impregnata di sale, dove la pelle bruciata dal sole impietoso, dove le voci amiche dei compagni? E così la prora solca ancora le infinite distese di Nettuno, i compagni, vegliardi anch’essi, son di nuovo al suo fianco, ma, ahimè, dove sono quei luoghi a lui sì cari, possibile che la memoria lo inganni e vacilli? Possibile che basti la luce tremolante di una fioca candela a travisar le visioni del suo ricordo passato? Ormai è tardi, Odisseo: i luoghi a te cari non sono più, è tutto svanito, inghiottito dall’oblio, smarrito tra le pieghe della tua stessa giovinezza, quando la scintilla del tuo intelletto era più viva che mai. Le isole del mito, si riscoprono meste, son solo scogli brulli, massi informi partoriti dal nulla;e le genti misteriose che un tempo incantò con parole di miele, non vi son più, tutto è prosaico, tutto è morente, senza più la forza ed il vigore dei giorni gloriosi.
L’Ultimo Viaggio d’Ulisse approda al Nulla Eterno, v’è una caduta globale del “senso” stesso del viaggio, che diviene una epopea derelitta verso il nihil del quotidiano, verso il lento marcire del tempo indistinto. La poesia non riecheggia più tra le pieghe del tempo, è solo un sospiro perso tra le foglie del suo autunno mortale.
Varcati i confini del mito, Ulisse ritorna ad esser uomo soltanto, ma s’accorge infine che l’esistenza è per lui estraneità, eterna ed immutabile fissità delle cose: il mare non risuona di Sirene incantatrici, le aurore sbiadite non parlano più all’uomo, e neanche se ne crucciano; dov’è quello spirito che pareva possedere il mondo, dov’è l’alito di Dio, il segno del suo respiro tra le spume procellose? La nave dell’eroe è un legno spossato, ubriaco di mare e senza meta alcuna, le vele son flosce ed il timone è incantato: perfetta metafora dell’uomo moderno, che più non ritrova le antiche rotte, il Mediterraneo s’è prosciugato d’un tratto, resta solo un deserto di livida acqua infernale, percorsa al fianco della Nera Signora, alla luce spettrale della sua falce di luna.
Il vecchio capitano dal passo incerto approda ad isole-feticcio: nulla può esser rivissuto, v’è solo il ricordo, sbiadito dal tempo, di quello che fu e che mai più sarà. Il Viaggio di Pascoli verso le antiche rotte è quello d’un Ulisse disilluso, naufrago ramingo che ha già superato le colonne della sua coscienza, valicando i confini del suo stesso mito, per approdare infine nella eternità letteraria, consacrato per sempre alla pura poesia. Il poeta riprende i temi cari al francese Baudelaire, il viaggio che diviene evasione, un volo a planare fuori da sé, fuori dal mondo, verso ciò che ancora non si immagina, verso una meta che dia la pace, che plachi la sete di nuovo, che ci ubriachi degli odori e dei colori che ancora ci appaiono come oniriche visioni, genesi fumosa della nostra fantasia, e non come concrete vie di fuga da un quotidiano che atterrisce.
“Il vero viaggiatore è chi parte per partire, col cuore lieve, simile ad un pallone, chi non si separa mai dal suo destino, e senza sapere perché, dice sempre “Andiamo!”. L’autore dei “Fleurs du Mal” amplifica il senso del viaggio, ne stempera i contorni precisi, perché l’effimera ricerca di un senso è un’aporia del pensiero: viaggiare è libertà, e la libertà non ha bisogno d’un approdo, esiste di per sé, non occorre la chiusa del cerchio per concluderne l’itinere.
Pascoli rivede i luoghi del mito alla pallida luce di un presente quasi meschino nella sua banalità, il Ciclope non è più un golem monocoluto, silvano abitatore di conche e spelonche sperdute, vorace cannibale; è ora un mite pastore, mungitor d’armenti, padre sereno e sposo fedele: Ulisse è sgomento. “Dov’è il mito? Dove il ricordo?” , il suo urlo si staglia tra le nubi all’orizzonte, s’imprime nel vento, e noi ne percepiamo il dolore profondo, tutta la mestizia nodosa, del vecchio che ha perso la memoria, che vacilla, annaspando nelle nebbie di un vissuto che gli è adesso ostile, se non estraneo del tutto. E allora perché, per cosa, abbandonare la patria che conforta, il focolare che scalda, la moglie che adori? Nulla, nulla può giustificare l’abbandono di quel che al mondo v’è di più caro, per inseguire il folle balbettio di un dio capriccioso che ti solletica l’orecchio, che ti spinge a sfidare l’ignoto, e te stesso, in nome di una oscura promessa fatta chi sa a chi, vana ricerca dei propri demoni, in nome di una trascurata e fraintesa libertà. O forse sì?
E le Sirene, i Lestrigoni, Circe, Calipso? Che fine hanno fatto? Che il mare invidioso li abbia inghiottiti tra i lividi flutti? E se fossero solo ombre danzanti al fuoco di un fioco giaciglio, parto immaginifico d’un vecchio ormai bambino, o d’un bambino non ancora uomo? Forse le Sirene son solo massi informi, lacrime di pietra cadute dai monti e sospese nel cielo liquido dell’oceano, terre inospitali su cui naufraga il delirio d’Ulisse, la sua nera vela, il suo sogno interrotto. Porci, Proci, compagni perduti, sperduti, fedeli e traditori, invenzioni anch’esse di una mente stupita dall’assenza del ricordo? Perché, Odisseo, perché rifiutasti l’abbraccio eterno di Calipso? La ninfa si strugge ancora al suono delle onde, davanti al tramonto vermiglio che fugge via, insensibile al suo grido di dolore: “meglio il nulla che la morte!”
Altro interprete d’un Ulisse moderno, viaggiatore instancabile e solitario, fu il poeta inglese Alfred Tennyson, anch’egli autore di una lirica dedicata alla sua figura: il suo è invito, anzi un’esortazione, a lasciare i placidi approdi del quieto sentire quotidiano, a lasciarsi andare ancora una volta, mollando gli ormeggi che ci avvinghiano al nostro piccolo mondo, per gettarci impavidi nel “grande” mondo. Forse che basti il solo respiro per dirsi vivi? Ulisse è il “re neghittoso alla vampa”, come pretendere di avvincerlo, di incatenarlo al suolo, impedendogli il salto pindarico verso le lande oscure della sua coscienza? Che paura può mai avere di fronte all’ignoto, lui che all’ombra dei bastioni di Ilio ordì per tutti l’atroce inganno, lui che spavaldo sostenne d’Ettore il fiero sguardo? Dunque che si vinca quel fremito sordo che s’ode nel cuore, si riprenda l’onda benigna, ed i venti contrari si faccian da parte, perché l’Odissea ricomincia…
“Non è mai troppo tardi per coloro che ricercano un mondo novello, che son pronti al sacrificio, pur di conoscere e conquistare le terre inesplorate”: Tennyson riscopre il suo eroe attraverso le pagine dantesche, il motivo dominante è la fuga dal proprio centro, verso il punto di non ritorno, dove s’ode soltanto l’eco indistinto delle proprie paure, dove le catene dell’io sono spezzate dal desiderio di una nuova rotta da inseguire ed esplorare, senza rimorso, senza angoscia alcuna. Manca però la condanna, l’espiazione della pena, ben presente nell’Inferno del Sommo: Ulisse è ben conscio del periglio, ma l’infrazione del limite concesso è solo il punto di partenza, l’appiglio cui aggrapparsi per giungere all’appagamento di quella naturale necessità di ognuno, quella di vedere il proprio destino compiersi, i propri sogni essere vissuti, perchè solo questo conta davvero. Laddove Dante non poteva esimersi dal giudizio, dal concepire per l’Ulisse menzognero un esito negativo, una parabola discendente del mito, Tennyson, uomo moderno, esponente del romanticismo britannico, trasforma il Nostro nell’eroe per eccellenza, il pionere, il colonizzatore del nuovo millennio, un santo patrono laico orfano della sua chiesa, un uomo nuovo in cui immedesimarsi.
Il tema del viaggio trova humus fertile anche nel secolo breve, quando sulla scena letteraria europea s’affaccia l’Ulisse di James Joyce, scrittore a sua volta ondivago, nomade metropolitano, che divise la sua esistenza tra Dublino, Parigi e Trieste, scogli borghesi cui aggrapparsi per non esser risucchiati nel turbinio carsico della Grande Guerra. Romanzo cruciale, possente, evocativo, che scardina le coordinate di spazio e di tempo, irrompe con arroganza, sgomita con la sua lingua inafferrabile, s’impone per l’impareggiabile complessità stilistica e lessicale. L’odissea del moderno Ulisse si consuma nell’arco di una quotidiana peregrinazione alla ricerca d’un figlio, sintagma originale di tutto il viaggio, una discesa nel ventre della città, Dublino, che diventa Mediterraneo salmastro, che diventa anima mundi, giungla inospitale in cui si dipanano le vicende di un Odisseo irlandese di origini magiare, Leopold Bloom.
Bloom, la sua penelope, Molly, il giovane Stephen Dedalus, alterego cartaceo dello stesso Joyce, costituiscono i pilastri su cui si fonda la cattedrale letteraria dell’autore, intrisa di decadente estetismo, in contrapposizione al razionalismo dantesco, il velo di Maya che cela l’ordine del mondo viene infine strappato via, e quel che appare è solo il misero spettacolo d’una umanità persa nel gorgo primordiale, vite fragili, microcosmi inquieti che si scontrano tra loro come monadi impazzite, alla nevrotica ricerca di in senso comune, di un sentiero illuminato nella nebbia di un quotidiano sempre più alieno, distaccato dalla intima realtà di ognuno. Un’opera dagli accenti epici, eroicomici, parzialmente modellata sull’epopea omerica, dove la parola assume tutti i crismi di una liturgia laica, diviene verità disvelata, parto alacre d’una mente feconda e complessa come quella dello scrittore dublinese. Diciotto capitoli, diciotto episodi, diciotto stili per ogni frammento del giorno, l’opera è universalmente riconosciuta come la biblioteca del modernismo : accolta da una risma di pareri discordanti, Eliot, Pound, Gide ne furono folgorati, anche se non mancarono critiche feroci, allergiche allo stile fin troppo estetizzante ed ultramoderno della parola joyciana. Del resto l’Ulisse-Bloom è una figura ben poco eroica, intabarrata nella sua dimensione piccolo-borghese, non possiede quegli afflati epici che hanno reso immortale la creazione omerica: si narra d’un’anonima odissea, un peregrinare sommesso, visceralmente intriso di amenità quotidiane, ma i temi trattati ben rivendicano la fideistica condivisione d’un terreno comune, il tassello mancante del nostro mosaico interiore, quel sentimento che sovente ci trascina seco, e che siamo avvezzi a chiamare semplicemente “amore”. Il vivere quotidiano come Odissea, un Nessuno che diviene un Qualcuno nelle pagine d’un libro che ha cambiato per sempre le coordinate sintattiche, logiche, stilistiche, il modo stesso d’intendere lo scrivere, in definitiva una vera e propria rivoluzione letteraria senza precedenti, almeno se si tiene l’occhio puntato su quel che viene definito “il secolo breve” (l’Ulisse è del 1922). Il fulcro, la chiave di volta dell’opera risiede nella alchemica trasmutazione dell’amore in tutte le sue accezioni; le molecole che ne compongono l’essenza sublimano, passando attraverso stati e gradi: Bloom, nella sua Odissea metropolitana, attraversa una Dublino livida e complessa, le scava nell’animo, per ritrovare il senso di una vita sfuggente, perso nei suoi meandri budellosi e dolciastri; Stephen Dedalus, Telemaco dei nostri giorni, par perso dietrogli spettri di un inconscio febbrile, ragione fatta uomo, che compulsa sé stessa per comprendere il suo tempo, per districarsi tra gli arcani di una storia mai amica, né madre, semmai matrigna; Molly Bloom, Penelope sensuale ed istintiva, parodia della moglie-cenerentola, accattivante sirena, eco silente di ritorni costanti al caldo fuoco di un letto infedele, perseide fumosa ed infiammabile al tocco. Ulisse-Bloom si ribella alla Storia come partogenesi della Violenza, come frutto dell’odio tra gli uomini, ne illustra gli sviluppi uguali e contrari, giungendo alla conclusione che l’amore esiste solo come unione delle sue varie componenti, siano esse accezioni sessuali, filiali, materne, paterne o, più globalmente, sociali. L’Ulisse termina con una sintesi riconciliatoria, una prospettiva allopatica del sentimento più caritatevole, quell’affetto tra gli uomini che è quanto di più vicino all’ idea stessa di Paradiso possa esistere: Dante ci dice che il Paradiso d’Adamo durò un battito d’ali, Proust ci ricorda che esso è perduto per sempre, e che la ricerca d’Ulisse è vana, se non illuminata dalla luce del ricordo.
La frammentazione del piano dinamico e lo smarrimento dell’io narrante possono alla lunga risultare stranianti, caos stilistico votato alla captazione del lettore, ma è l’unica maniera davvero efficace per rendere omaggio all’uomo del Novecento. L’opera di Joyce rende definitivamente giustizia ad una figura emblematica della cultura occidentale: Ulisse da uomo, da eroe, diviene infine Mito, assurge a puro spirito, trascende i suoi limiti terreni.
Fino a che vi saranno nuove terre da esplorare, ciclopi accecati da ingannare, sfide temerarie da affrontare e divinità del Fato da gabbare, stiamo pur certi che il fiero greco dagli occhi cerulei sarà al nostro fianco, e la sua vela incrocerà ancora l’orizzonte nebbioso, solcando una volta di più, il mare increspato della conoscenza umana.

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