martedì 13 novembre 2012

Metti una sera Teatro...





“Ercole e le stalle di Augia”, tratto da F. Durrenmatt, 

con  Stefano Parigi, regia Marco di Costanzo.

Al San Carluccio, fino all’11 novembre.











Napoli – Letame. Ch’esonda, tracima, travolge, lercio ricopre la trama sociale d’una civitas in lento disfacimento, in penosa quanto grottesca agonia; dal mito alla mitosi, per plastica divisione dell’ego in  adamitiche costumanze, da pelle di Nemeo alla nemesi dell’ eroico, unico e semi-divino, nelle paludi morbose dell’umano dissentire. Nelle “Stalle di Augia”, l’eracleo figlio d’Ellade e della folgore del Pluvio, emerge dal fosco mito per divenir quasi zimbello agli occhi del Durrenmatt: guitto del fato che lo assegna alle cure d’un falansterio politicante e fumoso, ad annaspare, muscolare e ebbro, nelle caditoie malmostose d’una “burocratia” senza limen in quel d’Elide, statarello poco ingombrante eppur fetico, meta infima e necessaria per eroiche ambasce, di crediti e debiti ad inseguirsi in muta costanza.
E’ Polibio-secretaire a tenere il conto, per l’Eroe ed il suo cerchio, e per la diafana Deianira, compagna del taurino e stracquo maschio, olimpico e perfetto, a simboleggiare per eccesso l’ impotenza del singolo individuo, schiacciato dagli ingranaggi d’una politica globale asservita a leggi non più umane, ma di mercato feticistico ed irreale, uno straniamento irrituale mai così acuto e perverso, cui si piega lo stesso Ercole invitto. Si dà ormai per defunta la baldanza d’un’era mitica, dove l’orizzonte era poco terso ma sgombro, cumuli deformi sbiaditi, e di contro adesso germoglia la mancanza di un “progetto” nella Storia, di una prospettica  rivoluzione antropica ricca di umano sentire e genuina speranza.
Nelle pagina e sul proscenio disegnati dall’autore belga, appare un locus a decandenza, una trasfigurata Europa rapita dai suoi vortici, percorsa da decadentismo strutturale, al suono greve d’un cupio dissolvi  in progressione, l’aura molliccia d’una  “fine civiltà”, non più così nobile, semmai annacquata da venature bluastre andate a male; letame, mota come foglia a ricoprire, fosse glassa sarebbe più affine, e fanè, di certo men funny: dunque, di bicipite flessuoso, di pala e badile, si smuova, si spali, s’impari che occorre voluptas per sedurre il consesso, occorrerebbe Deianira, e non il nerboruto adone. Eppure.
In scena  Parigi val bene una ressa, solo regge pashmina e rotea l’umbrela, segaligno rende la massa arborea di fasci e muscoli una leva dell’ingranaggio, sollevando l’argano sul non-sense acuto, dell’esser eroe sbertucciato dal vacuo cicaleccio politicante, impotente pur essendo di tutti il più possente.
Non resta che affidarsi al “Presidentissimo” di turno, l’ Augias molto in auge, crepitando sul fondo d’un barile catramoso da raschiare, senza luci a rischiarare: in fondo, che male vuoi che faccia un po’ di letame, a fermentare sulla pelle, se le teste ne traboccano in divenire?
Applauso meritevole, un sol uomo in scena a riempire le assi, e parevano cento o poco più.
Spettacolo d’umore ed ironia per tempi difficili.
                                                                                                                                         

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