mercoledì 28 luglio 2010

Leggere: perchè no?

Il comico. Concetto astratto, che aleggia sospeso; sta lì, nell’etere, e tu da sotto a chiederti quale sia l’appiglio, dove poggi il suo peso. Come Troisi. Istrione gentile, guitto sornione, dal sorriso felpato. Pareva puttino, due alette a ricciolo, una vis comica che sobbolliva sommessa, come Vesevo a gorgogliare: dov’era il magma, la spuma pirotecnica, il guizzo teatrale e palese della Partenope barocca? Dov’era il nerofumo pulcinellesco, il cuppulone puntuto, come ogiva puntato, al nocciolo della questione? Sottotraccia, impecettibile, com’era giusto che fosse, l’arcano disvelava: Troisi era puro spirito, essenza permeante; e dove lo spirito del comico riposa? Di Massimo, è sicuro, l’anima giace ai piedi dello “Sterminatore”, nell’alveo lavico di San Giorgio a Cremano: era il ’94, ed era ancor presto, per quel puttino vispo, pigro genietto dalla smorfia afasica e smozzicata. Lievità, alloro dei più grandi, ossimoro per un gigante dal cuore malaticcio: e “ ‘o sai comme fa ‘o core”, fa di testa sua, capriccioso e scugnizzo, non ti aspetta, caracolla sincopato, corre avanti. Troppo avanti. Timido Pulcinella, chissà cosa avresti detto ricevendo un premio a te dedicato: forse, più che l’aureo folletto scolpito da Lello Esposito, avresti gradito una “caravella di legno d’oro”, che sfavilla meno, ma è che diviene solida e lignea materia ad impregnar memoria. La tua, la nostra memoria. E a Villa Bruno di ricordi e risate ne è pregna l’aria, il Premio Troisi è kermesse di prestigio e poesia; quanti i nomi, i vincitori, nipoti e pronipoti, che annovera il suo albo? “Tris di risate” (Comix edizioni), è silloge umoristica di rara portanza, miscellanea dei tre testi vincitori della sezione comica del 2009, exemplum e conto del talento comico che permea la Penisola; per antipasto il monologo al cabernet, di cabaret, da cabina al mare, “Vacanze? No, grazie. Ho smesso”, della “romanissima” Luana Troncanetti, effervescente saggio-bikini su di un mondo a due pezzi da incastrare alla men peggio: quello delle vacanze intelligenti da passare con un idiota (solitamente il marito, ma l’autrice è donna e gli passiamo la licenza!). Come primo speziato, per gli amanti del desco esterofilo, una sapida e bollente mestolata di “Borshch”, zuppa- porridge, scodellata dall’architetto-trasformista e partenopeo Arnaldo “Tony” Matania col suo racconto “Io Tataina e vengo di Ukraina”, resoconto tragicomico delle gesta “en travesti” (Mrs Doubtfire ci fa un baffo, e nel caso depiliamo anche quello) di un libero professionista che non bada alla pecunia (nemmeno i suoi clienti a quanto pare), finendo a fare la badante dell’arcigno padre e di altre rintronate ed arzille arpie grinzose al seguito. E per finire, dopo il trionfo di frutta e dessert, che qualcuno paghi il conto, visto che “Il crimine non paga (le tasse)”, di Liborio Ciufo da Licata, miglior testo di teatro, di certo non tetro, tratto forse dalla storia patria (e dalle patrie galere) siculo-americane di “Don Pennino Lo Ferro” (“parrino” alquanto arrugginito, in veritade), al Capone alla caponata, “king of the gangs” di Nuova York, iattura per le polizie di mezzo mondo e per il commissario Justice in particolar modo: per tacer dei suoi scagnozzi (Frank, Sonny e Jhonny, un trio di dementi da far invidia ai Monthy Python), chiave di volta (al cervello) per un atto unico che si spera non sia l’ultimo. Un “Tris di risate”, uno scrigno comico di promettenti scrittori, per ricominciare da tre una volta di più. Ancora una volta.

sabato 24 luglio 2010

Leggere: perchè no?

“Cos’è un mito, oggi?”, s’ arrovellava Roland Barthes, in sintesi snocciolando che “il mito è una parola”: parola in quanto “segno”, scippo felino sulla tela della significanza simbolica. Forma e contenuto che catabolizzano, scindendo il reale nell’iper-reale mediatico dei nostri anni adrenalinici e convulsi; e quale epifania migliore che il “Pibe de Oro”, sua Maestà tricoricciuta Diego Armando Maradona, per dar corpo (e piedi) al mito? Anni ’80, d’infanzie polverose, sul sagrato di chiese essiccate nell’etra acquosa di crespuscoli fumosi, d’ incenso, come dribbling iperbolici a geometria variabile, tiri di punta e calcinacci storti, nel sette, sul set d’un film in bianco e nero, mentre i “campioni” giocavano a colori, nel verde smeraldo di anelli siderali, pianeti lontani dal microcosmo periferico, di ragazzi in divenire. Perché tutti “Volevamo essere Maradona” (edizioni Cento Autori, collana Leggere Veloce), il “Pibe” era l’icona febbrile di quegli anni da bere, e Rosario Cuomo, penna brillante sulle orme d’un Soriano ( pur sempre d’argentini qui si tratta!) ne evoca il lemure eclettico e geniale, il guizzo estroso che diviene conto e leggenda popolare per una trama sociale sovente avvilita e sfilacciata. Eppur vitale. Napoli era immenso turibolo a sprizzare volute di gioia cristallina, Diego Armando la vestale di un culto misterico da giocare undici contro undici, calzoncini a mezzacoscia e maglie slabbrate di fango e sudore. La sfera a scacchi, come pelle di leone a rivestire le gesta invincibili di campioni, calciatori, santini laici per pargoli adoranti, una prece a fior di labbra per indulgenze parentali, perché il campo è suadente richiamo, e a nulla valgono i richiami di padri sbuffanti e madri accalorate, la progenie è sorda, come astronauta in orbita. Lontano, a seguir le parabole ellittiche, i palleggi da torero, muleta invisibile, quella mano “de Dios” che indicava l’infinito oltre le tribune, un cespo di lanugine ad inseguire ‘o pallone, tra le curve del San Paolo: Maradona è ancora lì, Dioniso ballerino, scugnizzo guascone, incastonato per sempre nel nostro immaginario onirico, tra gagliardetti e coppe scintillanti, punizioni divine e colpi di tacco, di testa, di cuore. Cuomo cesella un agile racconto, l’epica si staglia, sfumata all’orizzonte, il Mito si può solo intravedere, se ne può recidere un solo capello, per legare l’empireo dei Superni al prosaico andazzo dei terreni affanni a trascinarsi; come saetta, illumina d’immenso, estetica che trasmuta in sostanza, puro spirito ad incarnarsi, Dieguito è Achille postmoderno, caduta luciferina (e di “polvere” ne conobbe) e resurrezione angelicata, il suo “daimon” è imperituro perché immortale, ed irredento. Nessuno come lui, oggi come allora. Perché se tutti volevamo essere Maradona, soltanto quel torello arghentino dalle cosce tarchiate e sublimi ne ha saputo reggere tutto l’ingombro e l’aureo peso. Ed il “corazon” di Napoli ancora palpita a sentirne il nome.