venerdì 25 aprile 2014

METTI UNA SERA A TEATRO...



“SHITZ – Pane, amore e salame:  piece sardonica e grottesca sugli appetiti degli umani all’Elicantropo di Napoli fino al 27 aprile.



Napoli - “L’inferno sono gli altri”. Un inferno sartriano scevro da riflessi vermigli, fors’ anche da vampe sanguigne di castighi danteschi, eppur dannato e osceno nel suo luciferino vezzo di “insinuarsi nell’esistente”, l’ estremità  forcuta a cingere la strozza di famigli  viepiù “captivi”, progenie lupesca del dio-padre Shitz, come pater l’istessa madre e poi la figlia, polsi uniti in cogente preghiera d’appagare egoismi luculliani, asfissiati dal peso di una società orwelliana di falsi miti borghesi distorti, che diviene Moloch ancestrale che tutto fagocita e tutto assimila, sullo sfondo d’una guerra agli umani, all’umano, perenne e sibilante come sirena a contraerea. Un Dio-cannibale dalle gengive disadorne, digrignanti, plasticamente contratte nell’assalto al panem, senza circenses, o ballon d’essay, ricchi premi e cotillones, arroccato come nudo pasto, a puntellarsi nel suo sacello d’ossuta egotimia, stravolto ululante alla luna, in un amplesso demoniaco di carne e ancora carne, una tanto al pezzo, un occhio alla libbra, un salame come daga, per abbattere mulini, rinchiusi nei propri steccati.

Famiglia-monstrum, fagocitata a brani da lutulenti fanoni sfavillanti, come fuochi fatui d’ un consumismo proteiforme, un dasein che si spersonalizza, si oggettivizza, nella sua alienante discesa agli inferi sabbiosi, nel meriggio di un yom kippur qualunque, sempre buono per l’espiazione, sempre prono all’istinto più bieco; un’odissea dentro sé stessi, nel ventre mai satollo dell’iper-umano lupesco, alla ricerca d’un segno, un solo segno che sleghi i desideri in-confessabili dai villi d’intestino: e il vello è biancolatte, da sposa, per figlia da incatenare liberandola, da portare come stigma, simbolum da mostrare, estendere al finito, in senso ferale, nel nome di una semplificazione esistenziale che diviene logo, che diviene marchio a fuoco da imprimere sulla carne, sempre e solo carne. Scrittura cerusica, singulto viscerale, barocca e rapace, Filippo Renda rilegge il testo di Hanock Levin, riscrive fame, guerra e destino alla luce siderale d’un nucleo famiglio gelido come lapide,  annulla l’essere, quantificandone il valore, uniformandone il desiderio agli stilemi del Leviatano, con pulsioni primarie che divengono ossessioni elicoidali, urticanti e loffie all’unisono.

Speculum di progenie centrifugata, il riflesso di Shitz si irradia nelle brume d’un genero affamato, amorale, cannibale, massa e mole schiacciata dal peso d’una gromma biliosa, un catrame che soffoca e ammorba, una fine annunciata e dispersa, tra sirene lontane come grani di clessidra a sfumare nel vento. Stralunata preghiera che si sgrana invereconda, un vampirismo edonistico dei bassi istinti, chiave a stella di un algoritmo viscerale eppure ferocemente ironico e grottesco, che trasmuta le maschere e le personae, le famiglie da amnios fetale a sacco scrotale, per spurgare il seme, come fosse segno storto, chiodo screziato nel ligneo ventre d’un cristo ormai condannato all’abbrutimento e all’evidenza, che nessun sacrificio vale shalom, al massimo un salame.

Famiglia come trappola per topi moderni,  bulimici ed ingordi, logorati dall’ansia del possesso; gli Shitz possiamo esser noi, e sudiam freddo ridendo a scatto, come ratti sciagurati che ballano sul cassero di una socialità in disarmo, il baratro infernale che s’apre ad un passo.
Applausi per tutti, e mazel tov a tutti noi.

mercoledì 16 aprile 2014

METTI UN SERA A TEATRO....



Al Teatro Troisi, Milena Vukotic in “C - Come  Chanel” , la belle epoque d’una donna straordinaria. Dall’ 11 al 13 aprile. 


Napoli- Donna sirena, lo sguardo en blanc et noir, sfuggente, il vezzo femminile di celarsi nella diafana luce dell’apparenza, mostrandosi nuda nell’intima essenza d’una recherche  suadente e tronfia, spettacolare; rigore e celebrità, imperscrutabile taglio nella tela dell’esistenza: Cocò Chanel, al secolo Gabrielle Bonheur Chanelle, figlia delle Moire, in perenne agnizione d’una genesi parca, viepiù misérable, charmant tranciava il file rouge del suo essere donna al principio novecento; via i puntelli aristocratici per donne da voliera, via trucchi e parrucchi, finis terrae , aldilà v’è solo il nero, o il bianco, una tela da ridisegnare; via damaschi, trame e velluti, via! Il tocco vitale di sartina semiorfana e affamata, di padre, di essenza, di tutto, la portò ad innalzare calici dove il cristallo riluceva meno della sua figura, fasciata in tubini, visioni intessute, bagnate dal tenue riflesso d’una luce avvolgente, rocchetto e filato a far da puntello; cöté espressionista, una danza di cappelli e lustrini che si fondono nel disegno, perdendosi nel flusso del “n° 5” a distillare dal fusto, tra un Picasso e un Cocteau, uno Stravinskji ed un Max Jacob; Mademoiselle era così, prendere o lasciare: bigger than life, per dirla allammericana.

Un vezzo prismatico per la contaminazione, le facce smerigliate d’una cifra stilistica languidamente divisa tra aristocratica lepidezza e pudicizia proletaria; Cocò che l’arte disfece in povertà, che s’arrese all’evenienza in tempi magri e neri di guerre in euroscope, che s’arrischiò quando il mondo che fu collassava ad ellissi, gli obici tuonavano e la moda cangiava: Milena Vukotic possiede giusta lente focale, precisa e convessa, atta ad inquadrare la figura versatile di Mademoiselle Chanel, musa del novecento, vocazione inquieta, vera icona per una Signora attrice dal percorso scenico che tocca il suo azimut  mediale tra “classiche” commedie fantozziane, dal tocco etereo e disincantato (la Pina!), teatro d’autore e sua Maestà Televisione;  perché “la moda passa, lo stile resta”,  così come sciabordano via le frotte di personaggi fumosi, tronfi, vedette da palcoscenico, “personaggini” di contorno, persi in velleità pseudo-artistiche, spesso smarriti nella lutulenza della loro evidente mediocrità, a far da sfondo senza luce alla Signorina Cocò.

La Vukotic calca il personaggio con giusta misurazione, non cede al bozzettismo cesellato che una maschera sì pregna vorrebbe assecondato; forse il testo ammanca di ritmo, risulta flemmatico e a scartamento ridotto, curva e stride con la cinica levità della Cocò terrible che la prammatica del tempo riporta,  “refugium peccatorum” per artisti, scrittori ed intelletuali spiantati e d’avanguardia, amante di rampolli benestanti e riccastri arrembanti, trompe d’oeil intimista, per elicoidale fuga in avanti d’un’anima in perenne rincorsa.  David Sebasti è contraltare maschile, mille volti per Uomo che insegue la preda e da essa viene avvinto: l’ego polimorfo d’un Padre assente, lemure infecondo, Amanti in affanno, stolidi o lungimiranti, uomini ed ominicchi che s’assisero ai piedi del suo monumento, contemplandone la fiera malizia e l’orgoglio irriducibile.
Manca il ritmo scenico s’è detto, ed è nota stonata, per una piece elegante che merita giusto plauso per la mimesis della protagonista, una Chanel costruita per sottrazione. Chapeau, Milena.

sabato 5 aprile 2014

METTI UNA SERA A TEATRO....



Mimmo Borrelli tra le Anime del Purgatorio Ad Arco con “Chianta e Schianta”, performance tratta da ‘A Sciaveca, per la rassegna “Anime in Transizione” .


 Napoli - Mater, come alma indecente e derelitta; Terra come madre, possente e posseduta, seme e genesi, e rinascita, cordone placentare.Un  alveus invaginato, per antiche novene di sibille fumose, tra Bacoli, Baia e Torregaveta, reflussi d’acheronte, lande sez’aucielli, di borborigmi infernali, conto inebriante e pestilenziale, malapianta per malaciorta: d’esser nati affondano le mani nell’humus antico di declinazioni semiotiche, come segno ancestrale, verbo illanguidito ed umorale, che assorbe il vezzo, ed il puzzo, di terre stantie, di cave frastagliate da cui tracima la vita, seme che diviene senso. E Trascendenza. Una danza, tra l’io marinaro e l’ego sotterraneo, tra Madre-Sibilla e figli seminati, cosparsi di preci strascicate e violente, sono piezze 'e sfaccimma partoriti tra schiuma e jastemme , perchè tali sono, i nostri vecchi, schegge umorali d’un tempo abortito, isole circumnavigate macchiate di peccato originale; perchè la terra non è mai lieve, per i figli del Mare. Il vello non è mai d'oro, è un vulnus; l'esser appendice di mitopoiesi immaginifica e rurale, reale, non copre né nasconde, bensì rivela, e Borrelli è degno anfitrione, la sua opera è endecasillabo disciolto per litanie teatrali, riti liturgici per ascensione a metà; inebriante tocco, retrattile come onda, il mare è marcio, è fiele e scimunisce, evaporando in mummarelle svacantate, dove la pietas non è ricetto, tutt'al più sconforto, trascinate le anime nella Sciaveca del peccato a rimorso.

Mimmo Borrelli è vena autoriale scoperta, ferale e pulsante, vulcanico estro; s'ammischia il verbo, il seme dialettico diviene dialetto semantico, vis flegrea che dispiega il nesso tra la terra e il mare; nella sua intera opera la sua, pregna, terra solforosa diviene tela ingiallita, itterica su cui ricamare, incidendo il solco: è 'Nzularchia, canto errante di camurrìa per Pater assente, Figlio sacrificato, canto tragico e clautrofobico; è Sciaveca (per l’appunto) di salsedine incrostata, con tritoni d'inumana forza ad issare la trama, rete avviluppata per anime naufraghe da pescare. E’ carotaggio interiore, nella mota e nel fango, fertile e blasfemo, perchè vivo e reale; come ferita a raggrumare, a scorrere silente. Bradisismo d'anime all’abbisogna. E’ Malacrescita, il cunto derelitto di Sibilla euripidea, flegrea, bacolese; una Niobe senza lacrime. E sono cunti di fratelli distorti, padri violenti, madri euripidee, figli gemelli, parto destruens, sperma avvinazzato, corrotto dagli eventi, ad imporporare la terra; sangue e vino, chè di latteo e virginale, resta la macula sul grembo, e nulla più. Mimmo Borrelli, ispida la barba che incupisce il volto, nazareno criptico e dionisiaco, è corpo cavernoso che trasmuta in eco polimorfo, strascicata risacca e lugubre, come funereo ristoro: ma di pace non v'è traccia, notturne lamentazioni di uomini abbrutiti e gravi, carichi di pesi e colpa illividita, tracimate dagli avi a trascinare nel gorgo, anime un tempo innocenti e adesso rotte.

Febbrile, catartico ballo di sfessania, che spossa e stracqua, denuda e trasforma, mai rassicura. Borrelli trasfigura sé stesso nel suo teatro carsico, sedimentato nella tradizione che scorre in ipogeo, come in ecclesia in Purgatorio (e mai luogo fu più consono); e son lampi flogistici, di fucine infere, abbacinanti e sottili come aghi nella carne. Una carne straziata, aperta, viva; senza requie o cura o redenzione: tessuto morente, bagnato da lacrima asciutte, d'una Matrigna Terra che non nutre, non riscalda, né consola. Un orfeo apocalittico, cantore eretico d'una lingua sconosciuta ai più, retaggio d'una terra che non conobbe il rimorso, perchè mai lo cercò. Plauso convinto, l'arte della mimesis ha trovato un degno cantore. Notevole.