“SHITZ – Pane, amore e salame: piece sardonica e
grottesca sugli appetiti degli umani all’Elicantropo di Napoli fino al 27
aprile.
Napoli - “L’inferno
sono gli altri”. Un inferno sartriano scevro da riflessi vermigli, fors’
anche da vampe sanguigne di castighi danteschi, eppur dannato e osceno nel suo
luciferino vezzo di “insinuarsi
nell’esistente”, l’ estremità
forcuta a cingere la strozza di famigli
viepiù “captivi”, progenie
lupesca del dio-padre Shitz, come pater l’istessa madre e poi la figlia, polsi
uniti in cogente preghiera d’appagare egoismi luculliani, asfissiati dal peso
di una società orwelliana di falsi miti borghesi distorti, che diviene Moloch ancestrale che tutto fagocita e
tutto assimila, sullo sfondo d’una guerra agli umani, all’umano, perenne e
sibilante come sirena a contraerea. Un Dio-cannibale dalle gengive disadorne,
digrignanti, plasticamente contratte nell’assalto al panem, senza circenses, o
ballon d’essay, ricchi premi e cotillones,
arroccato come nudo pasto, a puntellarsi nel suo sacello d’ossuta egotimia,
stravolto ululante alla luna, in un amplesso demoniaco di carne e ancora carne,
una tanto al pezzo, un occhio alla libbra, un salame come daga, per abbattere
mulini, rinchiusi nei propri steccati.
Famiglia-monstrum, fagocitata a brani da lutulenti fanoni
sfavillanti, come fuochi fatui d’ un consumismo proteiforme, un dasein che si spersonalizza, si
oggettivizza, nella sua alienante discesa agli inferi sabbiosi, nel meriggio di
un yom kippur qualunque, sempre buono
per l’espiazione, sempre prono all’istinto più bieco; un’odissea dentro sé
stessi, nel ventre mai satollo dell’iper-umano lupesco, alla ricerca d’un
segno, un solo segno che sleghi i desideri in-confessabili dai villi
d’intestino: e il vello è biancolatte,
da sposa, per figlia da incatenare liberandola, da portare come stigma, simbolum da mostrare, estendere al
finito, in senso ferale, nel nome di una semplificazione esistenziale che
diviene logo, che diviene marchio a fuoco da imprimere sulla carne, sempre e
solo carne. Scrittura cerusica, singulto viscerale, barocca e rapace, Filippo
Renda rilegge il testo di Hanock Levin, riscrive fame, guerra e destino alla
luce siderale d’un nucleo famiglio gelido come lapide, annulla l’essere, quantificandone il valore,
uniformandone il desiderio agli stilemi del Leviatano, con pulsioni primarie
che divengono ossessioni elicoidali, urticanti e loffie all’unisono.
Speculum di
progenie centrifugata, il riflesso di Shitz
si irradia nelle brume d’un genero affamato, amorale, cannibale, massa e mole
schiacciata dal peso d’una gromma biliosa, un catrame che soffoca e ammorba,
una fine annunciata e dispersa, tra sirene lontane come grani di clessidra a
sfumare nel vento. Stralunata preghiera che si sgrana invereconda, un vampirismo
edonistico dei bassi istinti, chiave a stella di un algoritmo viscerale eppure
ferocemente ironico e grottesco, che trasmuta le maschere e le personae, le famiglie da amnios fetale a sacco scrotale, per
spurgare il seme, come fosse segno storto, chiodo screziato nel ligneo ventre
d’un cristo ormai condannato all’abbrutimento e all’evidenza, che nessun
sacrificio vale shalom, al massimo un
salame.
Famiglia come trappola per topi moderni, bulimici ed ingordi, logorati dall’ansia del
possesso; gli Shitz possiamo esser noi, e sudiam freddo ridendo a scatto, come
ratti sciagurati che ballano sul cassero di una socialità in disarmo, il
baratro infernale che s’apre ad un passo.
Applausi per tutti, e mazel
tov a tutti noi.