lunedì 19 marzo 2012

Pose Teatrali: I Virtuosi di San Martino












Al Trianon Viviani tutta la genialità dei Virtuosi di San Martino.
Da 16 al 19 marzo nel cuore greco di Forcella.



Napoli - Ensemble proteiforme, frankenstein multingegno, i Virtuosi di San Martino, scartano lacerti di musica e cabaret, brani di rapsodie radical chic oppur soliloqui d’amblais, populistico effluvio, ed irreverente virtuosismo “da camera”; camerati listati a tutto, per satire caustiche ed al vetriolo, raspando il vero a contropelo, in repubblicano (o repubblichino?), autarchico salotto, boiseire per menti aperte, di più splanacate, con verga e vanga per spalar via luoghi comuni, come fossero scaduta merce, o sottoprodotto intellettuale, paccottiglia sfatta per abuliche menti a consumare tempo ed umore. La loro “Repubblica di Salotto”, è cerusico canto per dervisci impuri, alleati e ratti da verve e humour, retti ed allevati al meneghino canto di Valdi e Gufi, bubolare ritmico ed elegiaco, perversi e sferzanti, d’istrionismo e maraviglia: capitanati da Roberto Del Gaudio, garrincha neapolitano, di verve e vezzo, istrionico e uterino quanto abbasta, per dar vita ad un’ora e più di calambours e lazzi “fotonici”, scintille d’intellighenzia a sfatar mitopoiesi d’eroi mediali e mediatici moderni, attorucoli da consessi minimali e loffi, forse off, cardinaleschi porporati da spretar fiato in malabolgia, di silhouttes di botuliniche soubrette, onorevoli arraffoni, politicanti felini dalle unghie spuntate, registi cult, amanti e tronfi, sbertuccianti liturgie per culturisti della parola, svacantate di senso, mai di sesso (e ci mancherebbe); al cuore come ictus rapace, capace a spegnerne il genio sovente ingolfato, son i capri battuti (al muro?) dai Virtuosi, nero di seppia per intelletualoidi intagliati nella parva materia dell’apparenza, più che dell’ontologico nesso, scoloriti e sbreccati, ridimensionati a colpi di satira, ricacciati nel botro, borbottanti ed inermi, per di più inutili, ormai stantii. Frattaglie e brani d’arguta e scorretta epistemologia musical-teatrale, moral suasion urticante, a cuocere sulla graticola d’un borghesismo ossificato, sintesi mirabile d’una stratificazione culturale da wikipedia morale, veloce a scorrere, impalpabile al lasso, inafferrabile perché non ricercata; il “Virtuosismo de Saint Martin” si spera addiventi morbo pandemico che contagi le vecchie carni del tessuto socio-mediatico, facendone strali, sbocconcellandone l’ipocrita flatulenza, il ribollire stigio, che ammorba il serbatoio a botte di intellighenzie in divenire: la fortuna è trovare cattivi docenti irriverenti e sleali quanto abbasta, per segnare via maestra, e rivoli discenti, quali i Virtuosi, capi tribù spietati e necessari, nel discernere il senso d’un cannibalico andazzo ripetitivo, quanto ridondante; serve un taglio netto, e allora avanti, di punta e d’attacco! Muerte ai pretazzi, ai dis-onorevoli, ai lecca-cool, oppure a loro vita eterna, se son guizzo e spunto per sadici ridenti come i vacaputanga partenopei (Valdi docet) , spiriti totemici per chi non s’accontenta dell’ apparire vacuo, ma ricerca l’essenza, di satira e arguzia.

martedì 13 marzo 2012

Pose teatrali:

Doppio Ruccello alla Sala Ichòs di San Giovanni a Teduccio: “Le cinque rose di Jennifer” e “Ferdinando”, per una full immersion nelle atmosfere del compianto drammatugo partenopeo.
























Napoli - “Jennifer” e le sue paillettes rosate, la sua plebea pudicizia, i suoi posticci a raggiera; “Ferdinando” e le sue impudicizie ad inganno, il suo candore androgino, smerigliato e puntuto. Emerge, canto dolente, a Via San Nicandro, “‘a cupa ‘e Sannicandro”, in quel di San Giovanni, un Ruccello quasi immacolato, puro di cunto ed essenza, nell’amnios fetale d’un teatro periferico, polifonico, mai provinciale, come onfalos di gusci tufacei in disfacimento, architravi industriali, come masserizie scheletriche, ad indicare un futuro svacantato e svuotato di senso. Senso ottuso, ovattato, d’una maieutica minimalista, d’exempla in soffio di labbra, del far teatro e compenetrarsene; Sala Ichòs, antica camiceria, per vesti ben cucite, calate addosso a docenti/attori e spettatori/discenti che tendono ad ellisse, a circoscrivere un decennale (e più) d’attività, “radio-attività”, che permea il terriccio, adattandone l’humus, e scavandone in costanza, e coscienza, fiumi di carsica politeia da rive gauche, da fumisterie cabarettistiche illuminate, e d’immenso, raro talento. Animalità da palco. Da preservare, incendiare di linfe novelle, smussando gli angoli di boiseries sinistrorse da pianeta radical chic ed intellettualoide, da paraninfi imbellettati, a sminuzzare il senso ermetico d’una piece, fino all’ultimo pezzo, fino all’estremo lacerto. Linfa plebea; e qual miglior fiera da mostrare, esotico e dramatico vezzo, da belletti di scena scevri di finzioni sovrastrutturali, che quel Ruccello Annibale, calato dal basso, anima mundi d’un partenopeismo da rinnovare, partogenesi d’una drammaturgia grotesque, vivida ed incendiaria; ironia sospesa sulle miserie dei basoli, mutazioni simbiotiche d’identità irredente, tra un femminiello/travestisto vestale alla cornetta, spasmi posticci in agnizone perenne (“Franco”, dove sei?), virgo di solitudo, non di verga, mai beata; ed un efebo tricoricciuto, Candide luciferino, spirto del tempo fosco, a recidere il capo d’un meridionalismo borbonico defunto, e mai seppellito (spoglie mortali, annacquate, che smottano nel deliquio): Ferdinando, Godot proditoriamente rivelatosi; Jennifer, Ifigenia sacrificata sui lari d’un consumismo cannibalico. Carne tremula, disseccata, solcata da trucchi di scena e canti erranti (via radio) di divine muse del Pop(ulismo) canoro, Jennifer (Giuseppe Giannelli) scorge il botro dell’ossessione, cedendo di schianto, un colpo esploso ferraginoso, come lacrima solinga; Arcangelo, di trame discinte e perversismo borghese, paludate vesti al corpus aggrovigliate, d’un membro virile e mai ascoso, l’incedere dello Zeitgeist savoiardo ed ingordo nelle foie adolescenziali d’un Ferdinando/Filiberto, scazzamauriello asseverato e amorale, gabba le due badesse d’un culto perduto, le “zie” Clotilde (Teresa Addeo) e Gesualda ( Ilaria Basile). Si sazia della sua verità, tracannando in alto il calice di abulici e laceri miti che son più corrotti delle fiabe antiche, del Perrucci (e la sua Cantata) trasfigurati da cantori plebei, in nobili preci litaniche, verba di popolo, per una Parola disvelata.
Ruccello sradicava i suoi personaggi, la fenomenologia della sua personale recherche voyeuristica, si scontra con la poetica delle sue rappresentazioni, il Vero Lume a fugare le surrettizie celebrazioni di Neapoli - la Sua Napoli - dedita ad un’autorappresentazione sovente stucchevole, perché spersonalizzata, in guisa di costume, a prescindere dalla teatralità sociale d’un palcoscenico adagiato sulle lepidezze d’una terra arcana ed incantata. Incantata, perché ritualizzata ad libitum, sfruttata come corpo e merce, kitsch artefatto di luccichii ingolfati e salmastri, travestitismo irrituale, sfatto; al pulsare ritmico d’un neon ideologico, che si riversa, lunare, sul lume (non eterno, semmai etereo) ad olio, d’un decadentismo fallace, e non più scenico. Semmai osceno, perché non più autentico. Eppure la lengua del Basile, cinerinasulfurea, raccatta i lacerti, e s’ addobba delle “moderne” radici ruccellesche, perpetuando il rito, impervio, d’una teatralità verace, mai vulgare, che s’adombra e rischiara ad uroboro, all’umido delle assi . Merito e plauso al taglio netto, asciutto, della regia e delle scenografie del regista Salvatore Mattiello, che mantiene la livella per delineare i contorni di drammaturgie e testi imperituri e classici, e come tali da maneggiare senza formalismo vacuo, bensì con cura.