lunedì 31 marzo 2014

IL FUTURO E' VOLONTARIO




“Vi sono dei limiti oltre i quali l'idiozia dovrebbe essere controllata”. (Heinrich Böll)


Sindaco per voluntas populi dal giugno 2011, un tempo “il più amato degli italiani” (classifica redatta dalla Scavolini, immaginiamo) in lizza per la copertina di ’Uomo-Vago” degli Amministratori “très charmant”, il Nostro Arancio-cremisi, con lungimiranza e “bonapartenopeismo” di stampo zapatista, tentò di tutto e la qualunque, pur di rimanere fermamente in groppa al vento del cambiamento; ma nulla potè la sua maschia voluptas nonché voluntade, contro il pressapochismo politico et amministrativo scodellato sul campo in questi tre anni di inter-Regno parte napoletano e partenopeo: ahimè, sfiorì il sogno cocozza dell’imago internacional di Neapoli, il contrabbandiere di speranza di stanza a Palazzo, nulla potè contro la sindrome fantozziana che gli pervade l’ animo e le pudenda.

E allora, quale idea sfolgorante et iusta, che si nomini il ciambellano reale, il marketing s’adda rifà ‘o trucco; et voilà! Ecco a voi, noi, sudditi il nuovo prodotto ri-vo-lu-zio-na-rio!, un acquisto a metà prezzo, offerta very special by “Quelli di San James Palace”,che coi punti del latte rancido ed ammuffito, ci hanno impacchettato l’ennesimo paccodoppiopaccoecontropaccotto media-politicante: Monia Aliberti il nuovo assessore alla “comunicazione e marketing, immagine e promozione della città, eventi, “made in Naples”, identità, tradizioni e futuro della città”, è giunta solare al sacrificium, per rimpinguare la pletora d’assessori assassinati (politicamente ca va sans dire) dalla Fredegonda Imbandanata, il Maschio Alfa e Omega dominante, il Giggino Murat che grandi e piccini, tutti spaventa (perfino i suoi alleati per mancanza d’alternative, il Piddini piccini picciò all’ombra del Vesuvio).
Urge sincretica domanda: ma la nostra Partenope descamisada non aveva di già il suo assessore occulto all’immagine azzurro-arancio-arcobaleno della Cittade, perdipiù aggratisse, perché di Volontario quivi cianciamo? E’ dall’ election day del germano maggiore che il suo Hermano Menor, il Divin Claudio,  soldatino di chiummo instancabile, si spende in segreteria sindacale, al telefono, “spandendo” il nome, acquisendo concretezza e sicumera come factotum umbratile della città (“Largoooo!”); mille le maschere e mille i volti, per Claudio De Magistris, Volontario, quasi-staffista, un tempo co.co.co. per la buonanima di don Tonino Di Pietro e della sua IDV, braccio sinistramente destro del fratellone a Sindaco, impresario, gran comunicatore (sebbene di poche parole), neuronale ganglio di pubblico legame, seppur privato, perchè pur sempre di un di "Volontario" trattiamo: uno, nessuno e centomila. E che il nostro Claudascione, dopo inchieste, scandali e titoloni di giornlae, ancora aleggi nelle aule del Comune è cosa nota, “chiedete a Claudio” era la novena diuturna a cantilena che si respirava a Palazzo fino a pochi mesi orsono.
Per la sua permanenza nell’avito Palazzo fu sfornato financo il documento giusto ad hoc: un decreto sindacale a firma di Tommasino Sodano, siglato unilateralmente in data 15 novembre 2011, con il quale si dava ingresso trionfale al nostro Claudascione, ex impresario nel campo del organizzazione “comunicazione e marketing, immagine e promozione della città, eventi, “made in Naples”, identità, tradizioni”, più o meno tutto l’ambaradan parolaio ad imbottire il portfolio della nuova “assessora” Alberti, negli ultimi cinque anni nel board dell'«Accor Hospitality» di Palazzo Caracciolo, prima come responsabile delle risorse umane, poi come responsabile degli eventi: e allora “Salga a board, cazzo!”, che lo scoglio ci ha scoglionati, la zattera s’è sfrantummata, la scialuppa s’è sciupata, ed il legno s’è ‘nfracetato, e qui rischiamo che ce lo tirino pure appresso, o peggio, che lo usino come albero maldestro per impiccarci i nostri sogni di “revenge gauche” murattiana in salsa De Magistris.
L’Alberti non dorma sonni tranquilli, che non essendo parente stretta, la nostra neo-assessora è pur sempre revocabile dal solerte Imbandanato, chè nel Comune famiglio nessuno è indispensabile, e men che meno chi sfugge al legame sanguigno; del resto almeno uno straccio di contratto, alla nostra Assistita, medium politicante ad evocar futuro sibillino, l’avran fatto, mentre Il Divino come lemure, “Aleggia sempre, intriso di fatal desio, alla ricerca della requie e del ristoro, volontario puro, libero come aquilotto implume, né staffista, né real-volontario, ibrido chimerico, astrazione di pensiero”: ABUSIVO, e così sia.
E allora, rovello smargiasso e pulcinellesco, si affaccia prosaica domanda: ma come campa il Claudascione? Luciferini rispondiamo: forse che a San Giacomo abbiano capito che il volontariato in pubblica piazza non vale la candela, e lo stoppino di tal fatta resta pur sempre in mano al povero germano? E allora come prender piccioni con singola fava? Magari spartendo una poltrona per due, smezzando stipendio e assessorato? La nostra è solo umile opinione, non la si prenda in serio conto, è più balocco per libere menti, liberamente tratto in acconto: e’ dunque una protoforma di spending review all’aranciona? Ragù di vongole in cui sguazzare, bacile anarcoide d’amministrazione all’acqua pazza, realpolitik mediale per l’Ammiraglio Cocozza, fraterno et amicale, che rese servigio al Fratellino, senza che fosse costretto a chieder la questua nei giardini antistanti il Palazzo, imbandanato in standardo cremisi, stracquo e senza posa.
“E’ la somma che fa il totale”, diceva Qualcuno, ed uno stipendio fratto due è pur sempre meglio che fare ‘o Volontario, ca va sans dire.  N'est-ce-pas?


 


domenica 30 marzo 2014

METTI UNA SERA A TEATRO....



All’Elicantropo, dal 28 al 30 marzo, “Sputa la Gomma!”, di e con Pierpaolo Palladino, piece ironica e disincantata sull’incontro-scontro tra scuola e teatro.


 Napoli - Forse che l’uomo, attore per celia e un po’ per non morire, ritorni bambino, ad ogni legno calpestato? Forse che non scalpiti di nuovo, e ancora, come alunno ex cattedra, coi lemuri d’un tempo a ballargli nella testa, come sonetti popolari, come fossero del Belli, Gioacchino, mordaci strali? E allora “Sputa la gomma!” Pierpaolo Palladino, alias Lorenzo, che il lunario non aspetta, da sbarcare ci sono i captivi discenti, tutti infraquattrodicenni, prigionieri di scuola matrigna e  periferie lunari, viepiù romane, pasolinianamente epigoni della Strada che fu; ma Fellini è lontano, il nastro è strada d’acciao e cemento, come latta a medaglia, da appuntarti al petto se il lavoro andrà in scena, in porto e senza scuffiar, che a sbuffare ci pensano i puledrini instancabili, i diavoletti in divenire che ti cuociono a fuoco lento, in pentolone scrostato, come aule nostrane, all’abbisogna.

Forse che il tuo spirto emozionale e lucido e ben saldo abbasti ad ammansirne i singulti con sicumera e baldanza? No di certo, che dell’adolescente, o quasi, i rovelli son celati, e notturni e prepuberali, e vallo a  spiegare a professori, direttori, bidelli, genitori e alla buonanima del Belli, che lì all’adiaccio d’una palestra sbrindellata, con campioncini di bigbabol  a ciancicare sgommando, ci sei finito per sbaglio, per abbaglio, per raglio asinino d’un compare da soap che ti giocò mancino tiro, e tu di riflesso gli assesteresti volentieri un destro a giro; ma vallo a spiegare a loro, Pierpaolo, che sei solo attonito spettatore di umili bamboccetti affastellati e in rincorsa iniziale, già in debito, e quanto. E su, “Sputa la gomma!” Rosi, Tyron, Pamela, etc. etc., folletti indomiti e scornosi, tignosi animaletti da palco, pischelli in fuga concentrica, omuncoli già induriti da pieces esistenziali, slabbrate eppure dannatamente vitali, ardenti; nessuna rinuncia, che la barcaccia è da attraccare in porto, per un conto che cresce alla distanza, sviluppandosi dall’amniotico onfalos d’un precario docente in affanno, giunto per caso e dissonanza sulla zattera di mocciosi scalcagnati, fino all’onda più alta, che spariglia e atterrisce, oppure smalizia e “ammatura”.

Mai luogo fu più adatto d’un palchetto improvvisato, palestra reale d’una scuola frustra, svilita e stracqua, per disvelare l’epifania d’un uomo compiutasi nella regia di suggestioni e rimembranze calate sulle alucce spiumate e ferocemente innocenti, di giamburrasca romanacci commoventi, racconto d’un riscatto possibile per adulti in formazione e ragazzini già cresciuti, lontano per una volta dal silenzio assordante delle periferie distoniche, senza baricentro, in equilibrio precario e  costante disillusione.
Palladino è attore compiuto, il seme virale d’una lingua contaminata, a commistione, è ben fecondo; la regia è giustamente scarna, come linoleum a pavimentazione che mestamente ricordiamo, lavagna e sipario che divengono copione per sonetti urticanti ed irrisori; s’aprono le danze e si schiude il palco, e i diavoletti angelicamente all’unisono gridano: “Merda!”. E fu teatro, nonostante tutto.
Si spera, e si consiglia, caldamente il bis.

PUNTI DI VISTA


"EL CALCIO, CAPRON!"





  
“Ci sono fantasmi di ogni genere: quello dello Spazio, quello di Amleto, quello dell’Opera, quello del Comunismo che s’aggira per l’Europa e anche quelli che inventiamo per nascondere la nostra debolezza” (Osvaldo Soriano).

“El calcio, capron!”. Il calcio, già. Una parola descamisada, nuda e dura come un campo di schizzi,  fango o cemento amato, sterrati di polvere, cicche e sputi impastati e acido lattico: la palla, el balòn, ‘o pallone;  per qualcuno è “dubbio costante e decisione rapida” , per altri tronfio caduceo per processioni a turibolo di “ ventidue imbecilli a sconocchiar dietro ad una palla”:  l’attesa condensa e strepita, e vallo a spiegare che c’è stato un tempo che i capricci del campo scatenavano cannoni e contraerea, mustang  e corsair , tra Honduras e El Salvador ; la Guerra de Futbòl, ed era il ’69, a scapicollarsi dal caldo ’68, verso lo stadio Azteca del Messico ’70, e per lo mezzo generali argentini, dittature, Allende col mitra in una mano, desaparecidos e Plaza de Mayo, caldo, zanzare, cicche spente sulla pelle e calci, tanti, troppi: al pallone, al costato…e poi ancora Messico, nell’ ’86, la gloria d’una mano de dios che si rivela al mondo ed uno sberleffo da far impallidire la perfida Albione, e fosse stato ancora vivo, da far mangiare il sigaro a Sir Winston, tra una Malvinas e l’altra, tra bombe allo stadio e fucili in caserma. Ecco, appunto. Maradona.

Il pibe de oro, Oro di Napoli, scugnizzo e gordo, matador, tra una pista bianca su verde sfondo, un fantasma evocato ad ogni piè sospinto, la nostra dannazione aulica e dionisiaca, altarino lisergico tra vicoli a lanugine, vita matta a colori, mai bianco e nero, men che meno bianconero: il colore del “paròn”, d’ ‘o padrone, degli Agnelli da sacrificare in campo, che in fabbrica sono altre le bestie alla catena; anni ’80, bionde e scafi blu, Santa Lucia sempre luntana, Napoli stracciona, pizza & mandolino connection, Cutolo e nuova camurria, “Lovgino” e l’invincibile Armando, nero come una cozza in ammollo, botte e ferri corti, ‘o kalashnikov che faceva il suo ingresso nelle mattanze quotidiane, e però machisenefotte, che ‘a dummeneca è tempo di paste, da servire belle calde alla Signora, sul Platinì d’argento, alla vecchia maniera, colpi di tacco e un colpo a Tacconi, a la guerre comme a la guerre, Ma-Gi-Ca e così sia.

Ammèn Faccia ‘Ngialluta, lascia perdere la Smorfia di Troisi, il Santo adesso è un altro, trovati un’altra pietra tufacea su cui posare il capo. ‘O Capo, ‘o boss ci sta già, perché tutti volevamo essere Maradona, guizzo d’estro che diviene cunto e leggenda, mitopoiesi da strada, collante per trame sociali avvilite e sfilacciate; tutti argentini negli anni ’80, col San Paolo che stemperava nel verdognolo d’una fazenda, nella sterpaglia della pampas, a guardare undici campesinos armati di falcetto che matavano ‘A Signora,  a colpi di tango, tattica e Ferlaino; un contagio virulento che segna come stimmate o scrofole la faccia di un popolo che da sempre s’innamora del suo mito, del suo Re taumaturgo, chè il vitello d’oro qua lo scolpiamo nell’intimo, ‘o pallone è il nostro elisir per bamboccioni, gonzi assiepati sulla piazza medievale davanti al carrozzone del Dottor Sottile di turno, e tant’è, la pellicola è sgranata, come il sagrato, l’acciottolato stanco e divelto dalle pallonate scugnizze che nessuno ha saputo mai ricucire.

Erano gli anni ’80, dove i sogni si cotonavano in acconciature improbabili, Rocky abbatteva i Russi a cazzotti, gli Ammerikani ingozzavano di armi i mujahidin, il thatcherismo trionfava, la classe operaia andava in paradiso per mancanza d’alternative, e in Europa, tra una Uefa ed una Coppa Campioni si scioglievano i nodi muscolari d’un catenaccismo italico alla spagnola, contralto speculare alla spregiudicatezza tangentista craxiana; ‘o pallone  rimbalzava sul Muro, aspettando che le frontiere crollassero, che gli oriundi sparissero e la Bosman sparigliasse le carte sul Mercato Unico: e Napoli era quella di Bellavista, sempre più luntana, come Santa Lucia accecata dalle lacrime napulitane d’un Maradona in fuga da tutti e da sé stesso.

Il classico film in bianconero visto alla tv, prima del Biscione politicante, quando da Segrate e Milano 2 si limitava a rincoglionirci di spot e telenovelas, drogando il fatturato, spossando il mercato, pompando caproni in guisa di campeones e gonfiando la pelota a colpi di mercato e sovrafatturazione: do you remember Lentini, Cavaliere? Il Milan “operaio” fu stellare, el cul de Sacchi era per le Coppe da serbare, ma un Maradona non l’ebbe mai, ca va sans dire, Nanoleone s’è dovuto accontentare d’una cafuncella napoletana verace, una ventenne algida come un calippo da gustare; ma questa è un’altra storia, che la Messi non è finita (la Pulce, un roteiro milionario ca incanta il circo, coi suoi numeri da funambolo senza rete è spettacolo che vale il biglietto).

Domenica il film si riavvolge per l’ennesima replica, la pellicola la gira De Laurentìs adesso, è cine-colombone per curve e tribune, il tango a due Higuain-Tevez dovrà attendere (l’Apache è fuori per somma di cartelli), il tram-a-muro di Benitez sale e scende in classifica tra alti e bassi, la cresta di Marechiaro s’è mezz’ammosciata, il toupet di Conte è sempre in testa è vero, a rischio di refoli a ribalta: eppure la classicissima Napoli-Juve non incanta più come ai tempi dello sfavillio in vetta: passati gli anni Moggi, le serie cadette, le squalifiche, le coppe avite, qualcuna vinta, gli scudetti in campo e quelli a mente, el futbòl divide come sempre le Alpi dal Vesevo, gli juventini gobbi dai partenopei cupputi, eppure il tifoso napoletano, pur mantenendo la sua costipata fede di “malato”,  non gode come pria dello spettacolo. Diciamo ‘a verità: il pianeta eupalla ha assunto ormai i tratti delle lande apollinee- lunari (Mar della Tranquillità, più che Cime Tempestose): gli arbitri son sempre cornuti nevvero, ma semi-deserti in genere gli stadi, lugubre e senza genius il gioco, immobile ed impantanato il carrozzone, non rimane che rimirare le paludate coppetelle al muro ed il glorioso passato che fu (la Champions, le italiane l'hanno vinta 12 volte, una in meno della Spagna primatista, mentre nessuno ha fatto meglio di noi in Uefa: 9 trionfi, 2 più della special one Spagna), perché un tempo ‘o pallone qua era una fede, il catenaccio lo si metteva alla bacheca dei trofei, ed i torelli smutandati da scrollare in campo la domenica li si allevava in casa e con maggior cura. Aspettando il Mondiale sambeiro, domenica a Fuorigrotta ci giochiamo il nostro classico mundialito.

“La Juventus produce successo, quindi invidia”, Beppe Viola docet. E all’ombra del San Paolo, “gli uocchi sicche so’ peggio d’ ‘e scuppettate”.
La Signora è avvisata.

mercoledì 26 marzo 2014

METTI UNA SERA A TEATRO...



Al Théâtre De Poche, nel cuore tufaceo di Via Tommasi, “IL CONFESSORE” di Giovanni Meola con Aldo Rapè.


   Napoli - “Il male è prodotto dell’abilità degli uomini”, Sartre docet, luciferino ammonisce.

 L’attesa, nuda si flette, nell’attimo d’un raggio sospeso nella diafana ribalta d’una sacrestia, sacello misterico; snervante, in bilico perenne: un uomo, solo, di nero vestito, in scena. E’ il “parrino”, Il Confessore, a riempire, avvolgente, l’horror vacui d’una quinta scarna, cassetti divelti e storti, pensieri in disuso da lucidare e ricalibrare, una sedia lignea, un volto sferico, palla di stracci, da prendere a calci come impure estistenze scalcignate di rivoli pietosi mai tramutatisi in acque: un fiume carsico, una dolente scissione ex voto, d’un singolo fujente che volle, fortissimamente volle, la rivolta, indossando i paramenti d’uno stillicidio annunciato, contro i tagli sconnessi d’un tessuto ormai lacerto, a battersi il petto di padre senza prole, segnato da croce, come unica mission per affermare identità e senso in terre desolate come carburatori catramosi e spenti, a spurgare pece come fosse humus, di mafia e camurria dove c’è vita, e radici, e linfa nonostante tutto.   

E il confessore, dalle terre scarne di cunti e conti da saldare a ferro e mitraglie, A Ciascuno il Suo e un Dio inchiodato, inchiavardato per tutti, extrema ratio, extrema unzione per anime prave, è il perno mobile del racconto; chiuso nel ventre ossuto d’una chiesa di periferia, offre la sua storia all’uditorio, rielabora in camera oscura, in attesa dello scatto, del riscatto a sacrificio, a rammendare esistenze slabbrate, un martirio più che laico e rituale, da vivere al rallentatore. Aldo Rapè, sciamano errante, gnommero semantico a ruciuliare per rue linguistiche a metà via tra gramlot e spurio seme, impasta siculo e parlesia, napoletano e “camillerese”, prestando il volto e le movenze ad uomo votato al corpoessanguediCristo, alla specularità maieutica di rincalzo alla pia banalità del male, ferino e pulsante, radicato in terra sconsacrata, di uomini persi o quasi, parrini a loro volta, di parole a sentenza, esiziali; eppure non è martire, non vuole esserlo Il Confessore, ma contnua a misurare lento pede‘a vocca d’ ‘o riavulo”, a sezionarne la lingua, così vicina, tanto da sentirne l’orrendo effluvio 
e puzzo di morte.


Vive l’attesa: dell’ennesimo bersaglio, dell’ennesimo morto ammazzato, tra scampoli di pietas come brani al desco della solitudine; d’anime e sangue, richiamo avito di peccati scostumati, consumati al lume d’una catarsi irredenta, impossibile, alla fioca luce d’un altarino ascoso, quasi invisibile, che perimetra il limen d’un confine già segnato: confessione e pentimento, nella trama un filo torto; che uno, dopo una vita passata a perdonare per dovere gli sgarri altrui, sarà sempre un “signato”, dazio e obolo da versare mirando una croce, come fosse eterna eucarestia. Bravo e convincente Rapè, il testo è semplice nella sua essenzialità, non scantona, mantiene i margini, forse osa poco, o troppo è il calpestio su trame già lise perché troppo rappresentate: mafia e camorra son pane quotidiano, per chi quelle terre vive e respira, giorno dopo giorno.

Morto dopo morto.