“Ci sono fantasmi di
ogni genere: quello dello Spazio, quello di Amleto, quello dell’Opera, quello
del Comunismo che s’aggira per l’Europa e anche quelli che inventiamo per
nascondere la nostra debolezza” (Osvaldo
Soriano).
“El calcio, capron!”.
Il calcio, già. Una parola descamisada,
nuda e dura come un campo di schizzi, fango
o cemento amato, sterrati di polvere, cicche e sputi impastati e acido lattico:
la palla, el balòn, ‘o pallone; per qualcuno è “dubbio costante e decisione rapida” , per altri tronfio caduceo
per processioni a turibolo di “ ventidue
imbecilli a sconocchiar dietro ad una palla”: l’attesa condensa e strepita, e vallo a
spiegare che c’è stato un tempo che i capricci del campo scatenavano cannoni e
contraerea, mustang e corsair
, tra Honduras e El Salvador ; la Guerra
de Futbòl, ed era il ’69, a scapicollarsi dal caldo ’68, verso lo stadio
Azteca del Messico ’70, e per lo mezzo generali argentini, dittature, Allende
col mitra in una mano, desaparecidos
e Plaza de Mayo, caldo, zanzare, cicche spente sulla pelle e calci, tanti,
troppi: al pallone, al costato…e poi ancora Messico, nell’ ’86, la gloria d’una
mano de dios che si rivela al mondo ed
uno sberleffo da far impallidire la perfida Albione, e fosse stato ancora vivo,
da far mangiare il sigaro a Sir
Winston, tra una Malvinas e l’altra, tra bombe allo stadio e fucili in caserma.
Ecco, appunto. Maradona.
Il pibe de oro,
Oro di Napoli, scugnizzo e gordo, matador, tra una pista bianca su verde
sfondo, un fantasma evocato ad ogni piè sospinto, la nostra dannazione aulica e
dionisiaca, altarino lisergico tra vicoli a lanugine, vita matta a colori, mai
bianco e nero, men che meno bianconero:
il colore del “paròn”, d’ ‘o padrone,
degli Agnelli da sacrificare in campo, che in fabbrica sono altre le bestie
alla catena; anni ’80, bionde e scafi
blu, Santa Lucia sempre luntana, Napoli
stracciona, pizza & mandolino connection, Cutolo e nuova camurria, “Lovgino” e l’invincibile Armando, nero
come una cozza in ammollo, botte e ferri corti, ‘o kalashnikov che faceva il suo ingresso nelle mattanze
quotidiane, e però machisenefotte,
che ‘a dummeneca è tempo di paste, da
servire belle calde alla Signora, sul Platinì d’argento, alla vecchia maniera,
colpi di tacco e un colpo a Tacconi, a la
guerre comme a la guerre, Ma-Gi-Ca e così sia.
Ammèn Faccia
‘Ngialluta, lascia perdere la Smorfia
di Troisi, il Santo adesso è un altro, trovati un’altra pietra tufacea su cui
posare il capo. ‘O Capo, ‘o boss ci sta già, perché tutti volevamo
essere Maradona, guizzo d’estro che diviene cunto e leggenda, mitopoiesi da
strada, collante per trame sociali avvilite e sfilacciate; tutti argentini
negli anni ’80, col San Paolo che stemperava nel verdognolo d’una fazenda, nella sterpaglia della pampas, a guardare undici campesinos armati di falcetto che matavano ‘A Signora, a colpi di tango, tattica e Ferlaino; un
contagio virulento che segna come stimmate o scrofole la faccia di un popolo
che da sempre s’innamora del suo mito, del suo Re taumaturgo, chè il vitello
d’oro qua lo scolpiamo nell’intimo, ‘o
pallone è il nostro elisir per bamboccioni, gonzi assiepati sulla piazza
medievale davanti al carrozzone del Dottor
Sottile di turno, e tant’è, la pellicola è sgranata, come il sagrato,
l’acciottolato stanco e divelto dalle pallonate scugnizze che nessuno ha saputo
mai ricucire.
Erano gli anni ’80, dove i sogni si cotonavano in
acconciature improbabili, Rocky
abbatteva i Russi a cazzotti, gli Ammerikani
ingozzavano di armi i mujahidin, il
thatcherismo trionfava, la classe operaia andava in paradiso per mancanza
d’alternative, e in Europa, tra una Uefa ed una Coppa Campioni si scioglievano
i nodi muscolari d’un catenaccismo
italico alla spagnola, contralto speculare alla spregiudicatezza tangentista craxiana;
‘o pallone rimbalzava sul Muro, aspettando che le
frontiere crollassero, che gli oriundi sparissero e la Bosman sparigliasse le
carte sul Mercato Unico: e Napoli era quella di Bellavista, sempre più luntana, come Santa Lucia accecata dalle
lacrime napulitane d’un Maradona in fuga da tutti e da sé stesso.
Il classico film in bianconero
visto alla tv, prima del Biscione politicante,
quando da Segrate e Milano 2 si limitava a rincoglionirci di spot e telenovelas, drogando il fatturato,
spossando il mercato, pompando caproni in guisa di campeones e gonfiando la
pelota a colpi di mercato e sovrafatturazione: do you remember Lentini, Cavaliere? Il Milan “operaio” fu stellare,
el cul de Sacchi era per le Coppe da
serbare, ma un Maradona non l’ebbe mai, ca
va sans dire, Nanoleone s’è dovuto accontentare d’una cafuncella napoletana verace, una ventenne algida come un calippo
da gustare; ma questa è un’altra storia, che la Messi non è finita (la Pulce, un roteiro milionario ca incanta il circo, coi suoi numeri da
funambolo senza rete è spettacolo che vale il biglietto).
Domenica il film si riavvolge per l’ennesima replica, la
pellicola la gira De Laurentìs
adesso, è cine-colombone per curve e
tribune, il tango a due Higuain-Tevez dovrà attendere (l’Apache è fuori per somma di cartelli), il tram-a-muro di Benitez sale e scende in classifica tra alti e
bassi, la cresta di Marechiaro s’è
mezz’ammosciata, il toupet di Conte è
sempre in testa è vero, a rischio di refoli a ribalta: eppure la classicissima Napoli-Juve non incanta
più come ai tempi dello sfavillio in vetta:
passati gli anni Moggi, le serie cadette, le squalifiche, le coppe avite,
qualcuna vinta, gli scudetti in campo e quelli a mente, el futbòl divide come sempre le Alpi dal Vesevo, gli juventini gobbi dai partenopei cupputi, eppure il tifoso napoletano,
pur mantenendo la sua costipata fede di “malato”, non gode come pria dello spettacolo. Diciamo ‘a verità: il pianeta eupalla ha assunto
ormai i tratti delle lande apollinee- lunari (Mar della Tranquillità, più che
Cime Tempestose): gli arbitri son sempre cornuti nevvero, ma semi-deserti in
genere gli stadi, lugubre e senza genius
il gioco, immobile ed impantanato il carrozzone, non rimane che rimirare le
paludate coppetelle al muro ed il glorioso passato che fu (la Champions, le italiane l'hanno vinta 12
volte, una in meno della Spagna primatista, mentre nessuno ha fatto meglio di
noi in Uefa: 9 trionfi, 2 più della special
one Spagna), perché un tempo ‘o
pallone qua era una fede, il catenaccio lo si metteva alla bacheca dei
trofei, ed i torelli smutandati da scrollare in campo la domenica li si allevava
in casa e con maggior cura. Aspettando il Mondiale sambeiro, domenica a Fuorigrotta ci giochiamo il nostro classico mundialito.
“La Juventus produce
successo, quindi invidia”, Beppe Viola docet.
E all’ombra del San Paolo, “gli
uocchi sicche so’ peggio d’ ‘e scuppettate”.
La Signora è avvisata.