All’Elicantropo, dal 28 al 30
marzo, “Sputa la Gomma!”, di e con Pierpaolo Palladino, piece ironica
e disincantata sull’incontro-scontro tra scuola e teatro.
Napoli - Forse che l’uomo, attore per celia e un po’ per non morire, ritorni bambino, ad ogni legno calpestato? Forse che non scalpiti di nuovo, e ancora, come alunno ex cattedra, coi lemuri d’un tempo a ballargli nella testa, come sonetti popolari, come fossero del Belli, Gioacchino, mordaci strali? E allora “Sputa la gomma!” Pierpaolo Palladino, alias Lorenzo, che il lunario non aspetta, da sbarcare ci sono i captivi discenti, tutti infraquattrodicenni, prigionieri di scuola matrigna e periferie lunari, viepiù romane, pasolinianamente epigoni della Strada che fu; ma Fellini è lontano, il nastro è strada d’acciao e cemento, come latta a medaglia, da appuntarti al petto se il lavoro andrà in scena, in porto e senza scuffiar, che a sbuffare ci pensano i puledrini instancabili, i diavoletti in divenire che ti cuociono a fuoco lento, in pentolone scrostato, come aule nostrane, all’abbisogna.
Forse che il tuo spirto emozionale e lucido e ben saldo abbasti
ad ammansirne i singulti con sicumera e baldanza? No di certo, che dell’adolescente,
o quasi, i rovelli son celati, e notturni e prepuberali, e vallo a spiegare a professori, direttori, bidelli,
genitori e alla buonanima del Belli, che lì all’adiaccio d’una palestra
sbrindellata, con campioncini di bigbabol
a ciancicare sgommando, ci sei
finito per sbaglio, per abbaglio, per raglio asinino d’un compare da soap che ti giocò mancino tiro, e tu di
riflesso gli assesteresti volentieri un destro a giro; ma vallo a spiegare a
loro, Pierpaolo, che sei solo attonito spettatore di umili bamboccetti affastellati
e in rincorsa iniziale, già in debito, e quanto. E su, “Sputa la gomma!” Rosi, Tyron, Pamela, etc. etc., folletti indomiti
e scornosi, tignosi animaletti da
palco, pischelli in fuga concentrica, omuncoli già induriti da pieces esistenziali, slabbrate eppure
dannatamente vitali, ardenti; nessuna rinuncia, che la barcaccia è da attraccare
in porto, per un conto che cresce alla distanza, sviluppandosi dall’amniotico onfalos d’un precario docente in
affanno, giunto per caso e dissonanza sulla zattera di mocciosi scalcagnati,
fino all’onda più alta, che spariglia e atterrisce, oppure smalizia e “ammatura”.
Mai luogo fu più adatto d’un palchetto improvvisato,
palestra reale d’una scuola frustra, svilita e stracqua, per disvelare l’epifania
d’un uomo compiutasi nella regia di suggestioni e rimembranze calate sulle
alucce spiumate e ferocemente innocenti, di giamburrasca romanacci commoventi, racconto
d’un riscatto possibile per adulti in formazione e ragazzini già cresciuti,
lontano per una volta dal silenzio assordante delle periferie distoniche, senza
baricentro, in equilibrio precario e costante disillusione.
Palladino è attore compiuto, il seme virale d’una lingua
contaminata, a commistione, è ben fecondo; la regia è giustamente scarna, come linoleum a pavimentazione che mestamente
ricordiamo, lavagna e sipario che divengono copione per sonetti urticanti ed
irrisori; s’aprono le danze e si schiude il palco, e i diavoletti angelicamente
all’unisono gridano: “Merda!”. E fu
teatro, nonostante tutto.
Si spera, e si consiglia, caldamente il bis.
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