Al Théâtre De Poche, nel
cuore tufaceo di Via Tommasi, “IL CONFESSORE” di Giovanni Meola
con Aldo Rapè.
Napoli - “Il male è prodotto dell’abilità
degli uomini”, Sartre docet, luciferino ammonisce.
L’attesa, nuda si flette, nell’attimo d’un raggio sospeso
nella diafana ribalta d’una sacrestia, sacello misterico; snervante, in bilico
perenne: un uomo, solo, di nero vestito, in scena. E’ il “parrino”, Il Confessore, a
riempire, avvolgente, l’horror vacui
d’una quinta scarna, cassetti divelti e storti, pensieri in disuso da lucidare
e ricalibrare, una sedia lignea, un volto sferico, palla di stracci, da
prendere a calci come impure estistenze scalcignate di rivoli pietosi mai
tramutatisi in acque: un fiume carsico, una dolente scissione ex voto, d’un singolo fujente che volle, fortissimamente
volle, la rivolta, indossando i paramenti d’uno stillicidio annunciato, contro
i tagli sconnessi d’un tessuto ormai lacerto, a battersi il petto di padre
senza prole, segnato da croce, come unica
mission per affermare identità e senso in terre desolate come carburatori catramosi
e spenti, a spurgare pece come fosse humus,
di mafia e camurria dove c’è vita, e radici, e linfa nonostante tutto.
E il confessore, dalle terre scarne di cunti e conti da saldare a ferro e mitraglie, A Ciascuno il Suo e un Dio inchiodato, inchiavardato per tutti, extrema
ratio, extrema unzione per anime prave, è il perno mobile del racconto;
chiuso nel ventre ossuto d’una chiesa di periferia, offre la sua storia
all’uditorio, rielabora in camera oscura, in attesa dello scatto, del riscatto
a sacrificio, a rammendare esistenze slabbrate, un martirio più che laico e
rituale, da vivere al rallentatore. Aldo Rapè, sciamano errante, gnommero semantico a ruciuliare per rue
linguistiche a metà via tra gramlot e
spurio seme, impasta siculo e parlesia,
napoletano e “camillerese”, prestando
il volto e le movenze ad uomo votato al corpoessanguediCristo,
alla specularità maieutica di rincalzo alla pia banalità del male, ferino e
pulsante, radicato in terra sconsacrata, di uomini persi o quasi, parrini a loro volta, di parole a
sentenza, esiziali; eppure non è martire, non vuole esserlo Il Confessore, ma
contnua a misurare lento pede “ ‘a vocca d’ ‘o riavulo”, a sezionarne la
lingua, così vicina, tanto da sentirne l’orrendo effluvio
e puzzo di morte.
Vive l’attesa:
dell’ennesimo bersaglio, dell’ennesimo morto ammazzato, tra scampoli di pietas come brani al desco della solitudine;
d’anime e sangue, richiamo avito di peccati scostumati, consumati al lume d’una
catarsi irredenta, impossibile, alla fioca luce d’un altarino ascoso, quasi
invisibile, che perimetra il limen
d’un confine già segnato: confessione e pentimento, nella trama un filo torto;
che uno, dopo una vita passata a perdonare per dovere gli sgarri altrui, sarà
sempre un “signato”, dazio e obolo da
versare mirando una croce, come fosse eterna eucarestia. Bravo e convincente
Rapè, il testo è semplice nella sua essenzialità, non scantona, mantiene i
margini, forse osa poco, o troppo è il calpestio su trame già lise perché
troppo rappresentate: mafia e camorra son pane quotidiano, per chi quelle terre
vive e respira, giorno dopo giorno.
Morto dopo
morto.
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