domenica 30 marzo 2014

"EL CALCIO, CAPRON!"





  
“Ci sono fantasmi di ogni genere: quello dello Spazio, quello di Amleto, quello dell’Opera, quello del Comunismo che s’aggira per l’Europa e anche quelli che inventiamo per nascondere la nostra debolezza” (Osvaldo Soriano).

“El calcio, capron!”. Il calcio, già. Una parola descamisada, nuda e dura come un campo di schizzi,  fango o cemento amato, sterrati di polvere, cicche e sputi impastati e acido lattico: la palla, el balòn, ‘o pallone;  per qualcuno è “dubbio costante e decisione rapida” , per altri tronfio caduceo per processioni a turibolo di “ ventidue imbecilli a sconocchiar dietro ad una palla”:  l’attesa condensa e strepita, e vallo a spiegare che c’è stato un tempo che i capricci del campo scatenavano cannoni e contraerea, mustang  e corsair , tra Honduras e El Salvador ; la Guerra de Futbòl, ed era il ’69, a scapicollarsi dal caldo ’68, verso lo stadio Azteca del Messico ’70, e per lo mezzo generali argentini, dittature, Allende col mitra in una mano, desaparecidos e Plaza de Mayo, caldo, zanzare, cicche spente sulla pelle e calci, tanti, troppi: al pallone, al costato…e poi ancora Messico, nell’ ’86, la gloria d’una mano de dios che si rivela al mondo ed uno sberleffo da far impallidire la perfida Albione, e fosse stato ancora vivo, da far mangiare il sigaro a Sir Winston, tra una Malvinas e l’altra, tra bombe allo stadio e fucili in caserma. Ecco, appunto. Maradona.

Il pibe de oro, Oro di Napoli, scugnizzo e gordo, matador, tra una pista bianca su verde sfondo, un fantasma evocato ad ogni piè sospinto, la nostra dannazione aulica e dionisiaca, altarino lisergico tra vicoli a lanugine, vita matta a colori, mai bianco e nero, men che meno bianconero: il colore del “paròn”, d’ ‘o padrone, degli Agnelli da sacrificare in campo, che in fabbrica sono altre le bestie alla catena; anni ’80, bionde e scafi blu, Santa Lucia sempre luntana, Napoli stracciona, pizza & mandolino connection, Cutolo e nuova camurria, “Lovgino” e l’invincibile Armando, nero come una cozza in ammollo, botte e ferri corti, ‘o kalashnikov che faceva il suo ingresso nelle mattanze quotidiane, e però machisenefotte, che ‘a dummeneca è tempo di paste, da servire belle calde alla Signora, sul Platinì d’argento, alla vecchia maniera, colpi di tacco e un colpo a Tacconi, a la guerre comme a la guerre, Ma-Gi-Ca e così sia.

Ammèn Faccia ‘Ngialluta, lascia perdere la Smorfia di Troisi, il Santo adesso è un altro, trovati un’altra pietra tufacea su cui posare il capo. ‘O Capo, ‘o boss ci sta già, perché tutti volevamo essere Maradona, guizzo d’estro che diviene cunto e leggenda, mitopoiesi da strada, collante per trame sociali avvilite e sfilacciate; tutti argentini negli anni ’80, col San Paolo che stemperava nel verdognolo d’una fazenda, nella sterpaglia della pampas, a guardare undici campesinos armati di falcetto che matavano ‘A Signora,  a colpi di tango, tattica e Ferlaino; un contagio virulento che segna come stimmate o scrofole la faccia di un popolo che da sempre s’innamora del suo mito, del suo Re taumaturgo, chè il vitello d’oro qua lo scolpiamo nell’intimo, ‘o pallone è il nostro elisir per bamboccioni, gonzi assiepati sulla piazza medievale davanti al carrozzone del Dottor Sottile di turno, e tant’è, la pellicola è sgranata, come il sagrato, l’acciottolato stanco e divelto dalle pallonate scugnizze che nessuno ha saputo mai ricucire.

Erano gli anni ’80, dove i sogni si cotonavano in acconciature improbabili, Rocky abbatteva i Russi a cazzotti, gli Ammerikani ingozzavano di armi i mujahidin, il thatcherismo trionfava, la classe operaia andava in paradiso per mancanza d’alternative, e in Europa, tra una Uefa ed una Coppa Campioni si scioglievano i nodi muscolari d’un catenaccismo italico alla spagnola, contralto speculare alla spregiudicatezza tangentista craxiana; ‘o pallone  rimbalzava sul Muro, aspettando che le frontiere crollassero, che gli oriundi sparissero e la Bosman sparigliasse le carte sul Mercato Unico: e Napoli era quella di Bellavista, sempre più luntana, come Santa Lucia accecata dalle lacrime napulitane d’un Maradona in fuga da tutti e da sé stesso.

Il classico film in bianconero visto alla tv, prima del Biscione politicante, quando da Segrate e Milano 2 si limitava a rincoglionirci di spot e telenovelas, drogando il fatturato, spossando il mercato, pompando caproni in guisa di campeones e gonfiando la pelota a colpi di mercato e sovrafatturazione: do you remember Lentini, Cavaliere? Il Milan “operaio” fu stellare, el cul de Sacchi era per le Coppe da serbare, ma un Maradona non l’ebbe mai, ca va sans dire, Nanoleone s’è dovuto accontentare d’una cafuncella napoletana verace, una ventenne algida come un calippo da gustare; ma questa è un’altra storia, che la Messi non è finita (la Pulce, un roteiro milionario ca incanta il circo, coi suoi numeri da funambolo senza rete è spettacolo che vale il biglietto).

Domenica il film si riavvolge per l’ennesima replica, la pellicola la gira De Laurentìs adesso, è cine-colombone per curve e tribune, il tango a due Higuain-Tevez dovrà attendere (l’Apache è fuori per somma di cartelli), il tram-a-muro di Benitez sale e scende in classifica tra alti e bassi, la cresta di Marechiaro s’è mezz’ammosciata, il toupet di Conte è sempre in testa è vero, a rischio di refoli a ribalta: eppure la classicissima Napoli-Juve non incanta più come ai tempi dello sfavillio in vetta: passati gli anni Moggi, le serie cadette, le squalifiche, le coppe avite, qualcuna vinta, gli scudetti in campo e quelli a mente, el futbòl divide come sempre le Alpi dal Vesevo, gli juventini gobbi dai partenopei cupputi, eppure il tifoso napoletano, pur mantenendo la sua costipata fede di “malato”,  non gode come pria dello spettacolo. Diciamo ‘a verità: il pianeta eupalla ha assunto ormai i tratti delle lande apollinee- lunari (Mar della Tranquillità, più che Cime Tempestose): gli arbitri son sempre cornuti nevvero, ma semi-deserti in genere gli stadi, lugubre e senza genius il gioco, immobile ed impantanato il carrozzone, non rimane che rimirare le paludate coppetelle al muro ed il glorioso passato che fu (la Champions, le italiane l'hanno vinta 12 volte, una in meno della Spagna primatista, mentre nessuno ha fatto meglio di noi in Uefa: 9 trionfi, 2 più della special one Spagna), perché un tempo ‘o pallone qua era una fede, il catenaccio lo si metteva alla bacheca dei trofei, ed i torelli smutandati da scrollare in campo la domenica li si allevava in casa e con maggior cura. Aspettando il Mondiale sambeiro, domenica a Fuorigrotta ci giochiamo il nostro classico mundialito.

“La Juventus produce successo, quindi invidia”, Beppe Viola docet. E all’ombra del San Paolo, “gli uocchi sicche so’ peggio d’ ‘e scuppettate”.
La Signora è avvisata.

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