sabato 24 luglio 2010

Leggere: perchè no?

“Cos’è un mito, oggi?”, s’ arrovellava Roland Barthes, in sintesi snocciolando che “il mito è una parola”: parola in quanto “segno”, scippo felino sulla tela della significanza simbolica. Forma e contenuto che catabolizzano, scindendo il reale nell’iper-reale mediatico dei nostri anni adrenalinici e convulsi; e quale epifania migliore che il “Pibe de Oro”, sua Maestà tricoricciuta Diego Armando Maradona, per dar corpo (e piedi) al mito? Anni ’80, d’infanzie polverose, sul sagrato di chiese essiccate nell’etra acquosa di crespuscoli fumosi, d’ incenso, come dribbling iperbolici a geometria variabile, tiri di punta e calcinacci storti, nel sette, sul set d’un film in bianco e nero, mentre i “campioni” giocavano a colori, nel verde smeraldo di anelli siderali, pianeti lontani dal microcosmo periferico, di ragazzi in divenire. Perché tutti “Volevamo essere Maradona” (edizioni Cento Autori, collana Leggere Veloce), il “Pibe” era l’icona febbrile di quegli anni da bere, e Rosario Cuomo, penna brillante sulle orme d’un Soriano ( pur sempre d’argentini qui si tratta!) ne evoca il lemure eclettico e geniale, il guizzo estroso che diviene conto e leggenda popolare per una trama sociale sovente avvilita e sfilacciata. Eppur vitale. Napoli era immenso turibolo a sprizzare volute di gioia cristallina, Diego Armando la vestale di un culto misterico da giocare undici contro undici, calzoncini a mezzacoscia e maglie slabbrate di fango e sudore. La sfera a scacchi, come pelle di leone a rivestire le gesta invincibili di campioni, calciatori, santini laici per pargoli adoranti, una prece a fior di labbra per indulgenze parentali, perché il campo è suadente richiamo, e a nulla valgono i richiami di padri sbuffanti e madri accalorate, la progenie è sorda, come astronauta in orbita. Lontano, a seguir le parabole ellittiche, i palleggi da torero, muleta invisibile, quella mano “de Dios” che indicava l’infinito oltre le tribune, un cespo di lanugine ad inseguire ‘o pallone, tra le curve del San Paolo: Maradona è ancora lì, Dioniso ballerino, scugnizzo guascone, incastonato per sempre nel nostro immaginario onirico, tra gagliardetti e coppe scintillanti, punizioni divine e colpi di tacco, di testa, di cuore. Cuomo cesella un agile racconto, l’epica si staglia, sfumata all’orizzonte, il Mito si può solo intravedere, se ne può recidere un solo capello, per legare l’empireo dei Superni al prosaico andazzo dei terreni affanni a trascinarsi; come saetta, illumina d’immenso, estetica che trasmuta in sostanza, puro spirito ad incarnarsi, Dieguito è Achille postmoderno, caduta luciferina (e di “polvere” ne conobbe) e resurrezione angelicata, il suo “daimon” è imperituro perché immortale, ed irredento. Nessuno come lui, oggi come allora. Perché se tutti volevamo essere Maradona, soltanto quel torello arghentino dalle cosce tarchiate e sublimi ne ha saputo reggere tutto l’ingombro e l’aureo peso. Ed il “corazon” di Napoli ancora palpita a sentirne il nome.

Nessun commento: