venerdì 21 novembre 2008

Racconto Neapolitano:

Soscia ‘o viento


Cazzo. Brucia da morire, anche se a vederlo non sembrerebbe. Nei film americani, il tipo tutto muscoli con la mascella quadrata viene sparato un centinaio di volte, e lo vedi sempre lì, in piedi accanto alla bandiera stelle e strisce, come se niente fosse. Ma quello non era un film. Quello che era successo non era affatto un fottutissimo film. Eppure. Eppure doveva essere una “fesseria”, come gli aveva detto Sasà, ma quello era sempre stato “nu strunz”, lui lo sapeva questo. Lo doveva immaginare che insieme a quel coglione avrebbe fatto la fine del sorcio in trappola.
Cazzo, come brucia. E che caldo fa in questo autobus di mezza estate. Un caldo che ti entra dentro e ti fa evaporare il sangue. O era febbre? Una febbre nervosa, fredda.
Aveva brividi per tutto il corpo, la fronte imperlata che luccicava al sole di luglio, che filtrava dai finestrini opachi.
“ Signò, ma che calore, avete visto? Si schiatta dal caldo, eh? Guagliò, ma te siente buono?”
La voce di un uomo. Ma sembrava così lontana…
Gegè alzò lo sguardo verso il nulla, adesso vedeva tutto annebbiato. Ma siamo a Napoli o in Egitto? E le piramidi dove stanno?
“ Sì, sì. Sto bene…ho solo caldo…caldo da morire”.
“ Guagliò, ma tu tieni ‘na faccia!”
“ No, davvero, sto bene”.

Bene? Stava bene? La ferita al fianco destro era un piccolo foro, impercettibile agli occhi di stratti dei pendolari accaldati,un minuscolo, impercettibile buco, un forellino che pareva il morso d’una tarma dispettosa, uno strappo sul becco giallo e sfatto di Paperino. Paperino: Paolino, Giggino o come cazzo si chiamava quel papero sfigato, sempre senza un quattrino, sempre a tentare di spiccare il volo con quelle tozze alette da pollo. Forse perciò si diceva “senza il becco d’un quattrino”, perché se sei povero sei un paperino sfigato pure tu, non hai le ali per volare, puoi solo arrampicarti sulla vita, senza tregua, senza garanzia. Una delle sue magliette preferite…adesso era solo da buttare. Ci teneva la mano premuta sopra, come aveva visto fare mille volte nei film che gli piacevano tanto, quelli d’ azione, gli eroi immortali, con le pistole che sparavano all’infinito e non morivano mai. Tutti eroi, tutti immancabilmente americani. Anzi, gli americani dei film erano “ i Buoni”, e lui voleva solo essere come loro. Solo che adesso era lui il cattivo, nella realtà era lui a recitare quella parte. E i “buoni” gli avevano sparato, gli avevano bucato il fianco. Una puntura di spillo insistente, fiaccante. Prendeva il fianco, s’aggrappava al braccio, gli invadeva il cervello: voleva solo piangere, piangere tutte le lacrime del mondo.
Doveva andare tutto liscio, eh Sasà? Era solo una “passeggiata”? E che schifo di passeggiata, Sasà! Ma con chi sto parlando? Adesso dove cazzo stai Sasà? Sei steso a terra, ti vedo; coperto dal tuo bianco sudario, l’oscenità della morte innocente, quella ch non si può, non si deve vedere, che va celata agli occhi degli uomini, perché nessuno vuol vedere il futuro riverso sul marciapiede, una pozza di sangue ad affogarne le speranze.
Sei morto davvero, Sasà, insieme ai tuoi sogni di quindicenne. Eroe per poco, per meno di duecento euro. E quanto vale una vita, Sasà? Quanto vale? Duecento merdosi euro? Eh, ma tu oramai non puoi più rispondermi. Anche perché tu le risposte non le conoscevi, non le hai mai conosciute. Perso come me, come tutti noi, dietro il frastuono di una ruota che gira, all’ infinito…una vita che vale quanto una scatoletta di cibo per cani. Con quel poco che ti offrono. E devi pure scodinzolare per ringraziarli. Per ingraziarteli.
Cazzo, mi hanno sparato.

Non ci poteva pensare. Faceva male? Non tanto, almeno non come ti immagini che sia.
A parte il bruciore. Anche se quando respirava a fondo sentiva una puntura al fianco, come se mille aghi di pino gli si fossero conficcati nella carne: aghi sottili e pungenti come quelli di un albero di Natale. E chi ce l’ aveva mai avuto un albero di Natale vero, di quelli che perdono gli aghi? Solo plastica per lui, solo paccottiglia “made in china”, assemblata da ragazzi ancora più bambini di lui. Di lui che era cresciuto correndo, salendo in fretta le scale della sua esistenza, già col fiato corto a neanche sedici anni. E poi perché pensi al Natale, Gegè, che siamo quasi a Ferragosto? Eh, Gegè? Gegè! Svegliati, ragazzo, non puoi addormentarti. Pensa. Pensa, pensa, pensa…A tua madre, a tua sorella Giulia. Rimarranno sole? E tu, morirai da solo in uno squallido pullman dai finestrini incrostati? No, tu sei giovane, sei ancora un bambino. E sei forte. Vedi che all’ ospedale ti dicono che è solo un graffio, come quella volta che cadesti dalla bicicletta e tua madre volle portarti a forza al pronto soccorso, anche se tu continuavi a dirle che no, non li volevi i punti sulla gamba, che poi ti avrebbero chiamato “ ‘o sfregiato”, che non ce n’era bisogno. E oggi? Quanti punti ti metteranno, quanti? Abbastanza da passare ancora dal via e ritirare il bonus per una nuova vita? Abbastanza da provarci ancora una volta?
Questo è il tuo film e te lo scrivi tu, fotogramma dopo fotogramma, attimo dopo attimo. Non lo senti il cuore che batte? E’ veloce il tum tum, sempre più veloce…si fermerà? Ma tu non vuoi che si fermi, stai pregando una nenia silente sulle labbra che tremano.
“Mamma. Dove sei? Perché non mi tieni la mano?”. Questo pensi? E piangi anche? Ma non eri tu l’ uomo di casa, non eri tu a doverti prendere cura di lei e di Giulia, ancora così piccola? E adesso che fai, sei tu a chiamare loro? Lo dicevi sempre: “ Mamma, non ti devi preoccupare più. Ci penso io a te adesso”. Con un padre inesistente, sempre fuori e dentro, fuori e dentro, fuori e dentro. Poggioreale ormai lo conoscevi a memoria. Un corridoio. Un altro corridoio. E poi sbarre, sbarre a volontà, sbarre a strafottere! Ma tu lì dentro non ci saresti mai finito. Il carcere è per i perdenti, non è così ragazzo? Non è così che andavi dicendo, Gegè? Gli eroi mica ci finivano, in carcere. Ed anche se qualche volta ci venivano sbattuti, era per poco: loro uscivano sempre, scappavano via , lo trovavano sempre un modo per fotterli, ai poliziotti. E tu l’ hai fottuto a quello che ti ha sparato?
“ Si, io t’ aggio fottuto! So’ scappato, strunz!” . Quel coglione di Sasà. “ Gegè, il colpo è semplice. A questo qua gli dobbiamo fare il cavallo di ritorno. Chille vo’ ‘o motorino, e nuie ce pigliammo ‘e sorde, quale è ‘o problema? E pure se ci pigliano, nuie simme minorenni, Gegè, non ci possono fare niente…nuie c’ ‘a futtimme ‘a polizia!” Sasà…e l’hai fottuta la polizia?
Stava andando tutto bene, avevamo preso pure i soldi. Il tipo stava là, con le banconote strette nel pugno e tremava tutto, sembrava in preda ad una crisi isterica, non le voleva mollare, la mano serrata in un pugno.
“Strunz! Lasce ‘e sorde ca si no te scass’ ‘a capa!”. I soldi.
Mi compravo un telefonino nuovo, quello che fa anche le foto, così ci mettevo quelle di Sara. Io e lei che ci abbracciamo sulla spiaggia, così levavo pure lo sfondo con la capa di Maradona che s’ era fatto vecchio. Tutto liscio. Poi quello stronzo esce fuori e dice che ci ha fregato lui, che ha chiamato la polizia, che così ci fottiamo noi e tutti i nostri bei propositi del cazzo. In un minuto sento un casino di freni e ruote che sgommano, due lampeggianti che ci puntano: è finita Sasà, scappiamo. Pigliamo il motorino e scappiamo, quelli stanno con la macchina, vedi che non ci pigliano nei vicoli. “No Gegè, io a questo pezzo di merda gli sparo, e sparo pure a chilli sfaccimma in divisa. Vincimme nuie Gegè, vincono sempre i migliori!”.
E dove l’ hai presa la pistola, Sasà? Dove cazzo la tenevi, che quando ti stringevo i fianchi sul mezzo, mentre m’aggrappavo a te per non rotolare via, non l’ ho sentita?
“Sasà, nun fa strunzate, quelli so’ poliziotti, s’ impressionano, facimme na brutta fine…Sasà!”.
Sparano prima loro, Sasà. Nei film sbagliano sempre, non ti colpiscono mai, paiono comparse cieche che tentano la sorte: ma a Napoli la sorte non te la scegli, te la regala sempre qualcuno. Qua la ruota gira al contrario, la pallia si ferma sempre sul numero sbagliato. Quando esce il tuo sei fottuto. E allora spara, spara anche tu amico mio, spara al cielo e alla miseria del mondo! Tanto la pistola è finta, va a vuoto, come te, come me. E’ solo una imitazione, l’ennesima di una vita menzognera, i nostri sono colpi d’aria, leggeri, carezzevoli: siente comme soscia ‘o viento, siente…
La vita è una recita, ognuno ha il posto che si sceglie. Recitiamo la parte degli uomini: alzi la voce, ti fai sentire, spari nel mucchio. Ma la tua è solo una follia, Sasà; con le pistole finte s’ammazzano solo i sogni, con i proiettili d’aria ci fai solo le bolle di sapone, non lo sapevi?

Cazzo, il dolore. Stordito dal calore dolciastro di questa estate gravida di umide speranze, pareva addormentato, s’era assopito, cullato dal moto delle ruote e dal rollio delle voci impastate dalla calura. Che cazzo di ore sono, che pare di affogare nel Vesuvio con tutto sto calore? Quanto tempo è scivolato via, dalle mie mani, dalla nostra pelle scarnificata e bruciata da questo sole gelido ed implacabile? Gli spari, le grida, io, tu, i lampeggianti… “Buttala a terra, stronzo!”…t’aggio fottuto, io…io… Sasà adesso sento tutto il freddo dell’inverno più lungo, e poi è notte…è sempre stata notte, Sasà.

“Guagliò, ma tu stai male! Tieni la maglietta sporca ‘e sanghe…sei caduto bell’ ‘e mammà?”
“No, io…è solo un graffio, stavo giocando…sono caduto, la colpa non è mia…è stato…è stato Sasà, lui…” Ma la colpa di chi era? Mia, tua, nostra o collettiva, che differenza fa? E qual è il prezzo della colpa? Duecento ero del cazzo! Fossero sati dollari, almeno…Vuoi mettere?
Un finale da film, da tipo tosto, in stile hollywoodiano. La scena madre. Sei ferito, ma hai ancora un colpo in canna: vedi le pale dell’elicottero che ti volteggia in testa, aspetta come un condor la sua carogna, da spartire con i suoi piccoli dal becco uncinato. E poi le urla, il caos attorno al tuo corpo schiantato, ebbro di dolore, sangue che ti scorre davanti agli occhi, un filtro rubino davanti alla tua vita nuda, data in pasto alle belve furiose che t’agitano le budella. E i dollari. Una montagna di fruscianti banconote con lo stemma dello Zio Sam stampigliato sopra, affogato nel verde oleoso dell’inchiostro, il sangue del capitalismo americano che ti ricopre come un tappeto di petali setosi.
E tu steso per terra, finito, della fine che volevi. La tua apoteosi, il tuo personale crepuscolo degli dei, quella morte vista mille volte in uno schermo screziato d’azzurro, finalmente vera, tremendamente reale. E a te Gegè, che morte t’aspetta?
La ferita gli pulsava senza requie , le forze scemavano come il mare in risacca, quel mare che sfiorava con le dita, quando sfrecciava in motorino per il lungomare, Sara dietro di lui, aggrappata alla maglietta leggera con le sue unghie fasulle, uno smalto bianco, d’una pallida luna mangiata a metà. Le dita della morte, le dita dell’amore. Premeva il palmo sul forellino, cercando di tamponare la vita che gli sfuggiva via, da quel petto senza peli, da quel cuore di ragazzo sbagliato. La faccia di Paperino era stupita, pareva allucinata, fiaccata da quell’estate sciropposa, senza via d’uscita. O forse era solo spaventata. Il sangue colava copioso dal becco ferito: che strano, i fumetti non sanguinano, non provano dolore, non vivono e non muoiono. Le forze lo abbandonarono. Il corpo del ragazzo scivolò giù, come risucchiato da una forza invisibile che lo attraeva a sé, con grazia, senza un gemito. Era stordito, Gegè, le gambe inchiodate, le braccia che formicolavano. “Ma’, fammi dormire, lasciami chiudere gli occhi…il sonno non mente, non può ferirmi…famme durmì”. Le voci gli furono sopra, lo circondarono. Poliziotti? Lo avevano preso allora… Si sentì sollevare, improvvisamente leggero, un corpo senza carne, un piccolo Cristo senza la sua croce, issato sulla folla ondeggiante e lamentosa.
“Guagliò! Ragazzo nun durmì, non ti addormentare! Comme te chiamme?”
Alzò la testa, cercando di mettere a fuoco la figura protesa sul suo viso: “Antonio…ma gli amici mi chiamano…Gegè…tu si’ n’amico?”
“Gegè, non ti preoccupare, qua siamo tutti amici…mo’ viene l’ambulanza…L’avite chaimmata l’ambulanza?”
“Ho freddo…”
Una donna premurosa, materna, lo coprì: Gegè era lontano ormai, dalle voci, dai corpi della gente. Troppo distante per sentire la sirena dell’ambulanza che s’avvicinava , troppo lontano da tutto.
Ho freddo. Ma è luglio…Ho freddo e non c’è fuoco che mi possa riscaldare…ho freddo per tutto quello che ho perso, e che mai ritroverò…ho freddo…ed è un freddo mortale.
Chiuse gli occhi, senza versare neanche una lacrima. La ferita adesso era una rosa vermiglia che gli inzuppava la maglietta, un fuoco spento che gli ardeva il petto. Paperino con occhi sbarrati fissava il cielo: stupito, lui ch’era di cartone, d’esser morto davvero, come un sogno interrotto da una pallida alba, in una città vera e dolente dove anche i bambini potevano morire..

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