Ritratto sfiziosetto per Dioscuri Napoletani.
“Siamo tutti esuli dal nostro passato”.
A citar Dostoevskij, siam tutti transfughi d’una landa solcata da
marosi e tempeste, figli d’un passato che tormenta nel deliquio o
ristora nel conforto, pellegrini d’un culto vizioso, da concupire o
blandire con preci e soliloqui.
Ma tant’è; la bruma è coltre
da fugare, o velo al nerofumo da stralciare, in bilico tra ricordanze
leopardiane, o concordanze mannare per homines lupoidi, che radono il
pelo, per celar il vizio: vezzo immaginifico di coprire o descovrire le
carte d’un passato che si scala o si rimira, o si teme come suocera
sull’uscio.
Prodromi di Lari dis-persi nel focolaio d’un
ricordo, sfuggente come sensale d’illeciti guizzi, scazzi ipocondriaci
per germani, fraterne figure del nostro immaginario quotidiano; due
figure, due retaggi.
Luigi, Giggino, ben insediatosi nel ruolo
di arruffapopolo per poteri forti e disincantati, manolete opportunista,
ma non scaltrissimo, lesto di muleta e banderillas ma troppo ondivago
per esser coerente, sgravato d’amblais nel paludato mondo dei
politicanti professionisti, lui integerrimo ed agguerrito ministero, del
pubblico paladino, ertosi forse con malagrazia, ma di certo con enfasi
ed impatto, fino allo smottamento emotivo delle masse plaudenti, che gli
concessero fiducia, voto e poltroncina, per poi esser sedotte &
abbandonate nell'arco d'un terzo di lustro, o giù di lì.
L'altro, Claudio, ottimo consigliori, nell'ombra ma rilucente alquanto,
sobrio, si silente sicumera, radici che affondano in frasi sussurrate,
memoria smezzata di chi nella vita organizza e-venti, strambando
all'abbisogna per sbarcare il lunario, secondando le maree con furbizia e
certa grazia, mai mettendo prora di traverso.
Il passato è
terra straniera, brandelli di identità artefatte, per apolidi che
gettano moneta nel pozzo, osservandone il tintinnio, esprimendo il
desiderio della vita, per quel che si vuole essere (o almeno apparire);
Giggino & Claudio "sempreinsieme" , che s’arenano sulla battigia
lignea d’una zattera di fortuna (e che fortuna) in quel di Palazzo,
remando in controsenso, aggirando le zone a traffico limitato d'un piano
estemporaneo e confusionario alquanto.
L’uno, irriverente,
arrogante, piacione che pungola e seduce (qualcuno ancora c'è); l’altro,
avviluppato alla discrezione, non vedi nelle sue mani il timone, ma la
terra l'avvista sempre prima, un passo sempre indietro ma la punta è
mezzo giro avanti, sonda il terreno e detta i tempi: e quando s'è
dissodato il terreno, nello spazio lancia il germano reale, perchè
quello abbisogna di spazio, per il suo ego a dismisura.
Certezza e rimozione: ci vorrebbe sovente un repulisti spurgante, una
negazione dell'egotimia a scomparsa, per salvare almeno una scheggia, un
chiodino, della zattera movimentista ormai ai marosi. Giggino e Claudio
sfidano la sorte, il rendez-vous è giostra per parate e affondi,
schermaglie ad orologeria con l'amministrazione della città porosa ad
attendere sullo sfondo, quando lo sguardo è già più alto, altrove,
chissà; il tempo è scandito da sguardi felini al lazo, valzer di sedie
di comando scambiate come vesti, al minimo, pelle; che divengono
dioscuri impudenti quando solcano il limite della loro baldanza,
scadendo nel ridicolo e nella tronfia ridondanza.
Palazzo come
refugium peccatorum per anime infanti, fortezze Bastiani con muraglie di
carta, ordinanze e decreti che generano fumosi veli a ricoprire
l'emergenza continua dell'esser sulla breccia, comunque e ad ogni costo.
Giggino rappresenta bene o male sé stesso, è lupoide
alfa-dominante, che del nesso causale tra l'aver lo scettro ed il
comando, ha fatto brani; l’arena politica è inganno, a sua volta
passpartout per “ingannare” fanatici e critici dall'occhio accigliato,
masse più o meno amplie che dipendono dagli umori del più altro in grado
(ma sarà poi in grado?).
Claudio, insinuatosi nel ganglio,
cela l’intermezzo con scambio fraudolento, competenza personale
spacciata sottobanco, perchè la rivoluzione non è pranzo di gala, ed un
coperto lo si deve pur pagare, ed il conto tocca a noi, è presto detto.
Giggino l'eletto, Cluadio il suo cicero; si riconosca il torto, e tosto,
chè la pena non è scontata, perchè un fratello è monade famiglia, di
nulla (in pubblica piazza) meritevole, di nulla e così sia.
E cosa resta, del passato straniero, divenuto presente collettivo?
Polvere, bandane, manifesti per la via. E macerie, a solo un anno di
distanza, ed un piccolo gingillo ad occupare i Dioscuri, un Palazzo in
centro ad aspirarne frustrazioni e velleità. Il passato lo si
polverizza, ma la cenere s’accumula negli interstizi più minuti.
I Diosuri, indivisibili, dalla culla al trionfo; dall'alveo al tramonto.
Fossero pure invisibili a tutti, non lo sarebbero giammai a loro stessi.
E così sia.
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