lunedì 29 ottobre 2012

Il Salti il Banco

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Come nel più triviale e boccaccesco conto, il sultano priapesco se n'era andato venendo, satiro caprino e smargiasso: allo sfocato leucore di candele corrose da fiamme danzanti, la tronfia albagia del fellone smorto e stramorto, pareva sfumare nel chiarore incipiente d'un'alba novella. Pareva, appunto.

Racconto pop, dell'Elvis della Bassa, barocco, satirico e satiresco; e popular quanto abbasta, nonché populista. Sua Emittenza che lascia il solco, smolla l'aratro e cessa di seminar zizzania e vanagloria nel campo italico e in quello marziale? Giammai! Nanoleone ha abdicato, Nanoleone è risorto, al caldo cremisi d'un resort kenyota, nella eterna posizione del di-missionario, quella più lasciva, a lui men consona, eppure appagante; un passo indietro, due di lato, mano e cabeza in sincrono, questa è la Gran Macarena del Potere del Berluskaz.

Teutoniche e serrate, avanzaron le truppe europeiste, a far le pulci al Nano ed al suo consesso di governicoli, sfuggiti all'oblio per linguacciuto e gracchiante prossenetismo; fanfara francofona, si rompon gli indugi, l'inondazione dei mercati di titoli tossici è compiuta. È dramma fu, per Nano e ballerine.
Poi arrivò il salvatore, a prender l'oro alla Patria o quel che ne restava, il Badoglio-Monti al ritmo di euro-bond e spread con ghiaccio, da mettere sulle pudenda illividite, alla recherche d'un conforto, una mano santa, seppur momentanea. E fu lesta la mano di Frau Merkel, a coprire il sudario delle spoglie che furono: e Napolitèn, sì Vittorio, pardon Giorgio, fu ancor più lesto, monito in resta e pastina in brodo, a propinarci il tecnico e le sue schiere ...può uno "Sbadoglio arginare il mare"?

Di debiti, di interessi, d'asset spauriti, di finanze rincretinite? E' l'alveo, pregno, ormai ottuso: tracima, singulta, s'ammassa, ci scamazza...l'inverno del nostro scontento è qui, e dai Monti che scende la brina, a briglia sciolta, ad annunciar che "L'Italia è fatta". E il Nano è lì, ancor con le braghe calate? No, pardon, scusate, avi ed evi che s'affastellano, si fa confusione, s'era ritirato, come lemure sull'uscio, come mitile senza guscio, il suo Risorgimento era estinto, come alba cianotica e sfatta.
Massimo era il nostro gaudio e giubilo, anche se costò, e quanto, cavar sangue dall'italiano medio, a suon di tasse ed esodati, esondati, e riti da bocconiani alchemici, e fu sollavamento: se non di plebe e gentaglia vile e lavoratrice, almeno di tassi e differenziali con la Deutschland uber palles, e gabbasisi, borse, indici, spread, spritz, sottomento e minigonne, e chi più ne ha Minetti tanga!

Animo gente, gli zombies politicanti son ancora invitti, in vita, scantonano, scandagliano, scannerizzano, si scannano, per frattaglie di poltrone, brandelli di potere, lacerti di prebende, incarichi, scarichi, e la fogna è appilata, a PIL raso; il bolo starnazza, è contrito, a metà strada: non sale e non scende, ci vuole un rigurgito o un rutto di Bossi, un ratto delle Sabine Began, un ritto sulla tolda, un retto nella bolgia, un dritto a Palazzo. E il Poeta che direbbe? Pasolini non ripete, ahimè. Ma piano col mazzo; chè le chiavi, come quello? Ah, no, e meno male: le chiavi son del regno, dello scrigno, del capitale. E ci resterà, la Capitale, o dovremmo venderla alla Totò, come quel catino di Trevi, o alla Treviri, come Marx e i suoi fratelli, collettivizzando gli utili? Adda venì Barroso! UE, UE, e sono singulti fastidiosi, Monti, moniti e vagiti, striduli nella culla: oppure rischiamo la sindrome post-natale, ma ci arriviamo a Natale? E il Nano che c'azzecca?

Le luci, l'albero...il treno Italia è deragliato, l'ha beccato in pieno. Tappo, la stazione è giusta, oppure è solo la prima della Via Crucis?
I mercati son generali, comandano e s'agitano come in borbonica ammuina; comma 22, legge ai pazzi, è la somma dei titoli che fa il totale, non il dettaglio, il consumo, la massaia di Voghera, anzi. E dov'è il Principe per un popolo bue? Per adesso ci rimane Menarca, l'omuncolo dal triangolo in testa, lo zio di Ruby nipote di Cicciolino, Lolito Silvio, prigioniero del più-sess-meno-stress, di Freud, degli anni ottanta, dell'iconografia tettonica e sederonica , ancora seduto al Drive In, a risentire le vecchie barzellette, a rimirarsi nello specchio, e le macerie a canasta a cascata e sempre in conto nostro, Cavaliere?

Mesdames, Messieurs forse che il barnum "Cavalieresco", il lascivo spettacolo delle minne a cozzare con il machismo blando e femmineo dei cardinaletti, dell'ecclesia aurea e burocratica, del potere imporporato e sotto papalina sia lasso e vacuo, e in perdurante rotta? No, ancora una volta, giammai!

Silvio c'è, spariglia il tavolo, attacca l'Angelino, a lui il partito, e la testa è stracqua, di tangente, sempre quella, e sconti di pena stavolta no, sentenze che scantonano e cedono al giudizio, "perchè tutto capita nelle sentenze" a sentir il Cazzaro da bar, e alla truffa, al falso, siam avvezzi, in bilancio ci mettiamo due Miinetti, una Santanchè, un Sallusti e tutto il Ferrara che c'è, anche se è brut, come Ghedini, rinsecchito a fuscello, accanto al cliente, al padron, a controllar che nessun tocchi la "Robbba"! Che nessun magistra-gorilla l'afferri da presso scaraventandolo in gattabuia, dove neanche una grattachecca, forse solo qualche checca, ma siam poi sicuri che gratti, e se poi perdi, Cavaliere? Che la fortuna è cieca, mentre la sfiga...

No, no, Silvio, ho detto sfiga, con la "esse"; che è lunga, e alla lunga, stanca pure quella. A te giammai, caricato a molla; e molla l'osso che le aziende calano, i figli chiamano, pigolano, abbi Fede, che Fedele è già al desco. L'ernia del desco, bravo che un altro po' ti slabbri di brutto, perdi audience, i colonnelli scalpitano, i delfini crescono, gli affari invecchiano, la pelle casca, il sedere è flaccido, e l'Ultima Cera avanza di conto, al Mausoleo di HArdcore.

Ma il Mestìa ha l'ultimo guizzo, pugnala Otello, accoppa Iago, tocca il culo a Desdemona, allarga il sorriso a tagliola, benedice l'apostolato mediatico riunito a sua congrega, alza il calice, cala l'ostia con tutto il purgatorio e canti annessi: cambia la marcia, trillano le trombe, il de profundis va in gloria e le salme son sempre lì, ad innestar la retro; e nel partito ancora qualcuno sogghigna e sbuffa, "va' de retro, Silvio! Alla malora! Oste, porta via i resti, che banchettar con carogne non compete!".

Ma quanti ne ha visti passare il Nostro, quanti i sottopancia, i leccaculottes, gli smutandati, smandrappati, lenoni che ha allattato, che ha allevato in questo ventennio. Il Mestìa li conosce, li blandisce, li riconosce a fiuto, qualcuna al tatto, ma son figli ingrati, eppur Lui è generoso. Non li ha mai traditi, li ha solo comprati, son oggetti cari al suo modernariato da museo cerato.

L'ultima cera, l'ultima gag, prima di spegnersi lentamente, fulminato come tafano da cavo di corrente: perchè l'Unto è lì, a cincischiare da sempre con parabole ed antenne, ma è vecchio ormai, troppi acciacchi e reumatismi. Non resse il vento, nè i lampi. Un problema maniacale ai lombi, e restò all'antenna, attaccato da scossa fulminante.

Assurgendo ancora una volta all'Etere Profondo.

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