martedì 10 novembre 2009

Leggere: perchè no?

Abusi. Tema corrente di cronache familiari deviate, amori morbosi e patologie oscure. Ma che può divenire una tela sfilacciata, d’un’artista border-line, al limite della dispercezione, i tagli modulari sul tessuto endemico ben visibili e sanguinolenti, nel ricordo d’una bimba attonita, feticcio animato di vivida innocenza, gli occhi sgranati a fissare del volto l’orrore, la sua contigua violenza. Un riverbero asfittico di carezze sfumate, un amore rachitico, tubercolotico, a sputar indifferenza ed umori virali: un padre-uncino a scarnificare il volto acerbo d’una figlia sgomenta; una madre-baccello spossata ed inerme, vestale di cenere, a guardia di bastioni in rovina, il fuoco d’un dispotismo miserevole, di stracci frusti, che si staglia minaccioso, obliquo e morente. Un flusso letargico di memorie sopite, fiere mai dome, che s’agitano nel cerchio infuocato d’una donna “captiva” , scheggia rabbiosa sfuggita ad un passato di sofferenze primigenie. Mary il suo nome, il suo vessillo slabbrato: donna-sirena, ad annaspare nel limen lutulento d’una fanciullezza negata, il suo canto angoscioso risuona nelle pagine-confessione de “L’artista in gabbia. Storia della bambina Mary” (Vox edizioni), uno schiaffo urticante che la psicologa Eleonora Capuozzo imprime sulla pagina, con la stessa vis espressiva con cui la “folle” Betty Bee (all’anagrafe Elisabetta Leonetti) genera le sue opere “daemoniche”. Le due donne disegnano orbite convergenti, un percorso che s’interseca come caduceo ermetico, emblema d’una sinestesia speculare, in cui inchiostro al nero di pece e colori eversivi si fondono, episteme percettiva d’un linguaggio comune, assimilato e sublimato nell’archetipo d’una sofferenza escatologica. Artista in gabbia perché represso, abusato nella sua intima essenza, ma che assecondando il suo demone ritrova sé stesso, un filo serico che si tende sull’infinito a legarne l’animo lacerato e convulso. Attraverso gli occhi della sua terapeuta, si decostruisce la maschera stereotipica dell’artista-Mary, se ne percorre l’iter a rovescio, reinfetandosi nella sua dimensione placentare di bimba-monade, in quel microcosmo segnato indelebilmente dall’eccessiva fisicità di un padre-Creonte che ne sacrificò l’amore sull’ara d’una cieca e ferale violenza. L’eden bucolico d’una pace domestica che diviene riflesso marziale, sterpaglia raggelata da turbolenze affettive che innescano vorticosi grovigli emotivi: il sesso come sferza e comando, stimolo predatorio e ricetto momentaneo, libidinoso effluvio di vapori corporali a placare la sete morbosa di una libertà soffocante, estrema, sempre anelata e allo spasmo rincorsa. La Capuozzo ricrea tutta l’angoscia ansiogena di una donna fragile e nervosa come il battito d’una farfalla, ma che nella sua arte ritrova la forza pungente e recisa d’un calabrone indomito. Un libro necessario, crudo nella sua intima verità: perché certe ferite continuano a sanguinare, stilla dopo stilla. Sempre.

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