"Ciò che sia la camorra, ciò che ella fosse almeno non è molto tempo, io dirò in due parole: era un'associazione di uomini del popolo, corrotti e violenti, che ponevano a contributo coll'intimidazione i viziosi e i vigliacchi" (Marc Monnier).
“Il segreto dell'esistenza non sta
soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per cosa si vive”(F. Dostoevskij).
E quale l’essenza vivida dell’esser camurrista, generato da terra livida,
miasmi qual guizzi di sibilla, fiumane carsiche di sangue e cemento, punte
nella carne, avvelenate?
Quale il
conto d’ esse fluido di Mater Gomorra , replicanti inscatolati, pelati di senso, assenso di morte,
sordidi colpi per banale ingiustizia? Cui
prodest?, a citar “Robberto” Saviano, il vate del meta-mondo criminale, dal mediatico eloquio, l’esser figli di Gomorra, quando l’orrore
del reale devasta e sbrana, tra rigurgiti amorali di turbo-capitalismo
asettico, kalashnikov come artigli a sbreccare il piano di superfici riflesse,
bagliori che illuminano notti da bunker sommersi, e non rischiarano, non
riscaldano mai? Giova il comando, il kommando, per greagri e comparse, pali e vedette manager e capi, boss e capesante, il budello limaccioso dell'esser camorrista fattura a largo raggio, stupefacente è l'introito criminoso: circa dieci milioni d'euro al mese rende una piazza, un crocicchio di spaccio, centinaia di migliaia i milioni nell'arco annuo; e allora via col tourbillon di girati, scissionisti, padrini, padroni e prodromi del deliquio a baratro catramoso, è sei “fatto”, morto ammazzato, innocente o meno, in strada, da sicari attinto, oppure in gabbio, da sirene capto. Tunnel di carta, televisivo, da riprese a reporter, da cancellate e Case Celesti, Vanella Grassi e malaciorta, da percorrere in apnea, una Gomorra ingombrante, e milioni le copie, migliaia d’occhi voluttuosi, a narrare le vicende dei replicanti e dei visitors, dei voyeurs e delle vittime, colpevoli a prescindere se sei nato in terra ammorbata, a scipparne i dettagli grotteschi e macabri; una pioggia di bossoli, dagli ’80 in avanti: e Cutolo, Bardellino, Nuvoletta, Giuliano, Quartieri, Scampia, cobret, coca, mignotte e Casalesi, bufale annerite da cemento e monnezza, vite di scarto che risalgono l’empireo fulgente, di una finanza “fottibile”.
Un girone d’affari magmatico d’oltre 12 miliardi d’euro per anno, economia alchemica e trasmutata, appalti e usura, stupefacenti e rifiuti, oro percolato: “L’orrore del reale è nulla contro l’idea dell’orrore” , come Macbeth di Casale, tribù provincialotte e rurali con masters alla Bocconi, armati fino ai denti per farsi la pelle, lancinante profitto da ululare alla luna, conti in Borsa e pistole alla cintola: la filiera è vorticosa, prossima fermata Nord Italia. “E’ lì che i clan fanno affari, è al Nord che vincono”, Saviano ammonisce, e la scena è polverosa, cantiere in disfacimento perpetuo, Napoli è solo una tavola sbreccata, quella d’una zattera nel gorgo, quella d’una cassa funerea e lignea, un tanto al “pezzo”, per ogni omicidio portato a termine, puntato alla gola d'una cittadinanza asfissiata, perché “il male è il prodotto dell'abilità degli uomini”, Sartre docet, e la camorra incarna 'o bussiness, incarta, cuce-scuce i pensieri di chi è sospeso e compresso; perchè i sogni degli uomini sono rovelli distorti nell’iniquità d’una vita in rincorsa, ed un “fatto” irreversibile.
Ed in questa trama s'inserisce la mera querelle posticcia da sceneggiate mediali, d'arte e fattura medievale, nell'era del 2.0: Saviano versus De Magistris, rimbrotti da facebook, scazzi da twitter, fesserie a mezzo stampa, col primo che rimprovera il Maire che non bagna Napoli d'esser bravo solo a liberare i borghi vista mare, dal traffico d'auto e motorette e nulla più, tralasciando le periferie lunari, inghiottite da ben altri traffici, come novello "Stecchino" benignesco, mentre di stecchiti dall'altra parte ce ne son a iosa, e pure negli asili comunali, a due passi dai pargoli; e l'altro che risponde piccato al giovine intellettuale transfuga, sempre a mezzo cartaceo, reo d'esser un ottimo parlatore e null'altro ormai: e dunque Robbè, "perchè non vieni a Napoli? Perchè non ti metti a disposizione della squadra? Perchè non lavori con noi? Penso che questo vorrebbe la città”. Già, ma Napoli davvero cosa vuole?
Forse vorrebbe che il suo universo-mondo si conformasse alla normalità, all'abitudinario, alla civiltà viepiù banale prosaica e quotidiana; forse vorrebbe non esser tessuto per trame farlocche e mediatiche, per parlatori professionisti adusi al trampolino, letterario o politico; forse vorrebbe non vender milioni di copie per fatti di sangue, appalti e malavita; forse vorrebbe vivere, e non più sopravvivere a sé stessa, come lacerto strappato a morsi da un soma sfatto e sbattuto, e costretto a replicarsi all'infinito.
Forse Napoli vuol esser solo una città comune, e non un luogo per parlesia vacua ed insensata, palco ligneo per guarattelle infantili: di questo siam certi di non aver bisogno.
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