mercoledì 1 aprile 2009
Leggere: perchè no?:
D. C. Due caratteri vergati alla vampa d’un fuoco indomabile, due stille di sangue animate dalla passione eterna d’un uomo, d’un maestro, che si spogliò della sua essenza terrena per assurgere ad un empireo letterario immaginifico, summa poetica di un divenire escatologico e cristiano nell’inferno terreno d’una salvezza possibile. D. C., e all’uomo medio, logorato dai quotidiani affanni, s’affaccia alla mente il ricordo di una balena bianco-crociata, inaffondabile, dagli appetiti pantagruelici, immutabile nel suo centralismo ondivago, forse più eterna ancora di quella dell’Alighieri “ghibellin fuggiasco”. Perché di quella “Divin Commedia” qui si scrive, e “del sommo poeta le alte gesta”, e l’intelletto s’arrovella, s’interroga curioso, sul destino che il nostro avrebbe riservato ai bellimbusti vecchi e nuovi d’una politica eternamente arraffona, sovente criminale, di certo cialtrona e buffonesca nei suoi lazzi improvvisati. In quale bolgia luciferina, in quale girone di sempiterni indemoniati li avrebbe sbattuti, avvinghiandoli a catena, bruciandone i peccati? Un Dante fustigatore del pubblico malcostume e delle private ipocrisie, delle simoniache illusioni d’un papato ormai smarritosi nel mercimonio delle lucrose indulgenze: la Madre Chiesa, di divina emanazione, che diviene puttana in Terra, per uomini di poca volontà e nessunissima fede; un fiero assertore dell’indipendenza laica d’un Impero Sacro e in dismissione, che conobbe fasti e glorie d’un passato dal fiero cipiglio aquilino, e che si ritrovò spiumato e senza becco, mentre le Arpie papaline ne facevano scempio ed oltraggio, con malevole lordura. Tutto questo ed altro ancora emerge nel ritratto a “tinte giuste”, mai pedante, e sempre attualissimo, che del Sommo c’ha lasciato Bruno Lucrezi nel suo “Dante Maestro”, Caramanica editore: silloge accurata di personali spunti, strappi ricamati ad arte sulla tela di un’esegesi dantesca troppo spesso ridondante, sterile esercizio di critica retorica, un simulacro pomposo, ma privo d’anima. E a Dante Lucrezi “rende l’anima”, si consacra al “suo” poeta, restituendogli tutta intera l’umana passione di vita, quella sublime tensione estatica verso il Centro Immobile, la Divina Scintilla che tutto può, e che di riflesso arde in ognuno, e che prorompe dalle pagine della “Comedia”. Un fiume che esonda in piena dalla mente dell’Alighieri, e s’inerpica per selve oscure, sprofonda in infernali sentieri di redenzione, s’attorciglia come basilisco, levandosi al cielo d’un paradiso possibile, lo sguardo perso nella contemplazione armonica delle Sfere Celesti, alla ricerca d’un Dio materno e misericordioso che non ne punisca “il folle volo”. Perché la redenzione dell’uomo è una ricerca sofferta, un mistico delirio di “anime prave”, se non supportato e rischiarato dalla grazia d’una fede consapevole, diretta emanazione di un Divino immantinente, ma che si nutre di trascendenza. Uomo complesso, summa enciclopedica di un medioevo tutt’altro che oscuro, Dante pose l’alloro del poeta alla base dei un Umanesimo al di là da venire: fu il primo cantore, il più alto vessillo di una fede illuminata, che diviene Speranza solo se sorretta dalla Ragione. E a Bruno Lucrezi va tutto il merito di avercene restituita intatta l’essenza umana e lo spessore poetico.
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