lunedì 27 aprile 2009

Leggere:perchèe no?

“La malattia dell’Italia è lo Stato, che spende i nove decimi di quel che incamera per pagare gli interessi dei suoi debiti, per mantenere gli impegni d’una classe politica dissennata”. Forse l’ennesima zampata d’un Bossi padano, fiero assertore di un federalismo nordico e vichingo? Un’ accusa politica, dal senno fuggita, d’un Tremonti colbertista di ritorno? Prima facie, la risposta parrebbe affermativa, soprattutto oggi, in tempi di feroce critica alle ribalderie scialacquatorie della classe dirigente: ma a volte, si sa, le apparenze…L’invettiva antistatuale, antiunitaria, era un cavallo di battaglia di Gaetano Salvemini, storico e politico risorgimentale, meridionalista convinto ed antesignano d’un federalismo fiscale ed amministrativo, in perenne polemica con gli unitaristi dogmatici, assertori d’un ideale risorgimentale da accettare a scatola chiusa e senza remore. Insomma, un convinto federalista del meridione, progenitore ottocentesco del suo epigono leghista, che tra una boutade e l’altra, forse farebbe bene a ripassare la storia d’Italia, Paese che fin dalla sua unificazione ha subito il fascino di un separatismo secessionistico, sia a Nord che a Sud del Tevere. Oppure, in mancanza di ponderosi volumi d’esegesi risorgimentale, potrebbe gettare una fugace occhiata all’agile testo curato da Nicola Capone, segretario della napoletana Società di Studi Politici, d’ispirazione crociana: Il dibattito sull’unità dello Stato dal Risorgimento alla Costituzione Repubblicana, edito da La scuola di Pitagora. Il saggio di Capone si ripromette di esplicitare le teorie salveminiane, fortemente critiche verso l’idea unitaria dello Stato, alla luce d’un hegelismo meridionale che inquadrava il Risorgimento come “rivoluzione tradita”, risultato d’un incesto coatto, operato dalle forze monarchiche e liberali ai danni del Mezzogiorno d’Italia. Lo spirito monarco-legittimista avrebbe soverchiato l’ideale rivoluzionario di un Italia unificata dal “basso”, da quei figli del popolo da sempre estranei alle logiche politiche corporativistiche, risultanza territoriale d’una egoistica distribuzione della ricchezza, in barba alla cremastica di stampo liberale. Una condanna senza appello, non solo della matrice mazziniana, o di quella cavouriana, appannaggio di una Destra ultraconservatrice, ma anche dell’impresa garibaldina che, riletta alla luce d’una rivoluzione popolare incompiuta, altro non appare, se non “una semplice incursione armata, che non può minimamente paragonarsi ad una Rivoluzione”. Rivoluzione che il politico molfettese intravide in quelle spontanee sollevazioni rurali, inquadrate dapprima nei moti eversivi anti-borbonici, adoprati subitamente dalla propaganda savoiarda, e che poi, quando l’unità nazionale sotto l’egida piemontese era cosa fatta, furono stroncate nel sangue con l’infamante nomea di “brigantaggio meridionale”, residuo delle barbariche usanze feudali e medievali, d’un popolo vomitato direttamente dalle bocche dell’Inferno più livido. Contrari all’interpretazione salveminiana, furono molteplici studiosi, che si scagliarono contro l’idea di una Italia federalista ad oltranza: uno su tutti, Benedetto Croce. “Don Benedetto” cercò di indicare la via alle nuove generazioni di storici che s’andavano formando sui saggi salveminiani, inquadrando l’opera risorgimentale come la risultante d’un travagliato processo alchemico, frutto della sedimentazione degli impulsi rivoluzionari partenopei del 1799, uniti alla risolutezza settentrionale nel liberarsi del gioco austriaco, il tutto sublimato nell’ideale unitario d’uno Stato italiano finalmente capace di competere vis-à-vis con i suoi omologhi europei. Come sempre quando si parla d’Italia, ci si scanna tra fratelli, nella campanilistica convinzione che la verità stia da una parte sola, tertium non datur: eppure spesso la verità sta nel mezzo, e tra due fuochi che incendiano l’animo se ne può trovare un terzo che illumina il pensiero.

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