giovedì 14 maggio 2009

Leggere: perchè no?

“L’inferno sono gli altri”. Un inferno sartriano scevro dai riflessi vermigli, dalle vampe sanguigne di castighi danteschi, eppur dannato e osceno nel suo luciferino vezzo d ‘insinuarsi nell’esistente, l’ estremità forcuta a cingere la strozza d’un uomo viepiù “captivo”, i polsi uniti in cogente preghiera, asfissiato dal peso di una società orwelliana, che diviene “Moloch Globalizzato” che tutto fagocita e tutto assimila. Un Dio-cannibale dal volto beffardo e sardonico, l’occhio sfuggente puntato sul fulcro di un esistenza fumosa in precario equilibrio, di un precario qualunque, protagonista distonico di “Questo posto è un inferno”, romanzo d’esordio del genovese Enrico Masnata per le Edizioni Cento Autori, Un inferno senza volto quello che avvolge il protagonista di questo romanzo, “Io” senza nome, fagocitato da un monstrum-balena dai fanoni sfavillanti come i neon dei supermercati, fuochi fatui di un consumismo indeterminato, un io narrante che si spersonalizza, si oggettivizza, nella sua alienante discesa agli inferi; un’odissea dentro sé stessi, nel ventre di un enorme centro commerciale, alla ricerca di un senso vitale, nel nome di una semplificazione esistenziale che diviene logo, che diviene marchio. Scrittura fugace e lieve, permeata dalle note jazzistiche d’un linguaggio in sospensione, che descrive un consumismo dal volto disumano, che annulla l’essere, quantificandone il valore, uniformandone il desiderio agli stilemi di un Leviatano proteiforme ed amorfo, pulsioni primarie che divengono ossessioni superflue. Il ritratto d’una generazione centrifugata, schiacciata dal peso d’un futuro in potenza, che non s’assiede sulle spalle dei giganti, ma ne viene stritolata; una stralunata preghiera che si sgrana invereconda tra serpentesche fila di pellegrini-consumatori, adepti chiassosi di effimeri idoli d’etereo consumo; moderni templi dell’economia e del merchandising, che posero i loro steli di cemento sul nostro Bel Paese, nel silenzio dei più, agli albori degli anni Novanta. Grandi catene di Outlet che avvolsero il nostro commercio al dettaglio, conquistando fette di mercato ingenti, il tutto favorito da normative insufficienti a contrastarne la selvaggia avanzata, in nome di un capitalismo vampiresco, camuffato da volano economico di sviluppo sociale. Un edonismo dinamico che diviene chiave a stella di un algoritmo finanziario spietato, che trasmuta le maschere sociali, alterando l’identità dei ceti produttivi: l’alienazione marxiana dell’operaio avvinto alla macchina, si stempera nella figura messianica di un precario flessibile ed indifferenziato, a scadenza perenne, l’angoscia d’un contratto che mai si rinnova, crocifisso all’evidenza di un immobilismo forzato. Ipermercato come sacco amniotico in cui il tempo pare sospeso, una catalessi indotta da stimoli ipercinetici, luci monocromatiche e temperatura costante: un’ enorme trappola per topi moderni, bulimici ed ingordi, logorati dall’ansia del possesso. Solo che i topi in questione siamo noi. Topi sciagurati che ballano sul cassero di un capitalismo in disarmo, il baratro infernale che s’apre ad un passo".

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