mercoledì 5 maggio 2010

Leggere: perchè no?

Sei colpi. Sei stigmate di fuoco, sul corpo di un ragazzo di 26 anni. Unica colpa, quella di scrivere la verità, guardandola in faccia, senza retorica, senza paura.Giancarlo Siani era un “quasi-praticante” del Mattino quando fu ammazzato, una notte settembrina dell’ ‘85, un soffio di libeccio che si portò via anche la sua vita. Echi lontani d’una “Fortapasc” perpetua e impenitente, misericordia silente a frangersi su faraglioni di cartapesta, nel mare plumbeo d’una indifferenza colpevole che costò la vita ad un ragazzo, eroe suo malgrado. E se il “giornalista-giornalista” Siani non avesse pagato un prezzo estremo per il suo mestiere, di sicuro avrebbe letto di “Giordano Bruno”, cronista precario, in bilico sulla vita, graphic novel d’ambientazione partenopea, venata d’umorismo e striature noir, tendenti al nero pece; avrebbe sorriso, rivedendo in un fumetto, in sequenza, gli inizi problematici, il precariato come condizione esistenziale, quella atavica voglia di ricercare notizie, di raccontare la verità, scavando nel fango lutulento della metropoli con le sole mani, con la forza ribelle degli anni giovanili. E “fumetto” è parola riduttiva, in effetti. Giuseppe Pesce e Pasquale Vitale ricreano un mondo iper-reale, disegnano i contorni d’un mosaico decomposto, una tela setosa che avviluppa la Sirena, come fosse Disinganno: s’alza maestosa, Partenope insanguinata, grida in ambasce, attonita e sofferente. Nessuna requie, nessuna prece, solo ululati d’umanità derelitta, humour nero e sangue vermiglio. I due autori hanno lavorato di fino, smussando i tratti bozzettistici e caricaturali della nostra metropoli, riversando su carta, in chiaroscuro, il profilo nervoso d’una Neapolis d’umore ellenico, la nuda cronaca del quotidiano affanno, screziata dal nerofumo d’alambicchi sobbollenti, fumose misture: un “athanor” alchemico in cui trasmutare segno e natura, in cui il giallo tufaceo diviene esoterico effluvio di destini intrecciati, vite contorte, unite a spirale. Napoli, città del peccato, che monda sé stessa, scorrendo sotterranea come Sebeto invisibile; che s’apre a ventaglio, sfumando e schiumando in un mare illividito, spettrale e metallico: nell’ultima avventura di Giordano Bruno (dopo “Ponte Ricciardo”, nel 2005 e “Il mare alessandrino”, 2008), la fiamma dell’incubo rischiara il tetro volto d’un serial killer spietato, progenie di Squartatore che avvampa al lume etereo, eterno, di Raimondo di Sangro, Prinicipe-diavolo di San Severo. “Il Lume di Don Raimondo” (Oxiana Edizioni) è infatti il terzo albo d’una silloge a cinquina dedicata al cronista-precario, indagatore d’incubi terreni, segugio infallibile nel cacciarsi nei guai, ironico e distaccato quanto basta, impiccione fino alla morte: la sua. E mai come in “Don Raimondo”, il nostro ci va così vicino; il bianco riverbero di canini puntuti risplende nella penombra gotica di un novello “gabinetto del dottor Caligari”, il cacciatore diviene preda, i polsi serrati, gli occhi sgranati: una vertigo straniante, una graphic novel che ricorda le sfumature argentee del “Nosferatu” di Murnau, seguendo note romanzesche vicine ai racconti dell’indimenticato Attilio Veraldi, per una Napoli letteraria annerita e stracciona. Oggi come allora.

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