“Il vecchio maliardo giaceva alfine al suolo. Il bianchiccio simulacro di quello che era per tutti l’emblema, l’egida stessa del Potere, il Monarca Assoluto, dal mediatico eloquio, palpitava ancora, giù nelle sue pudenda illividite, di viagresco ardore: il grigiore mortifero irrigidiva le membra, assommandosi al rigore cavernoso del suo membro indispettito. Come nel più triviale e boccaccesco conto, il sultano priapesco se n’era andato venendo, satiro caprino e smargiasso: di certo in vita godeva, e financo in morte aveva goduto. Allo sfocato leucore di candele corrose da fiamme danzanti, a raggiera disposte attorno all’alcova, la tronfia albagia del fellone smorto e stramorto, pareva sfumare nel chiarore incipiente che s’affacciava da fuori”. E questo è il conto.
Racconto pop, dell’Elvis della Bassa, fosse dunque conto, sarebbe barocco, satirico e satiresco; e popular quanto abbasta, nonché populista. E lo pagheremmo all’unisono ed in coro. Tutti noi.
Sua Emittenza che lascia il solco, smolla l’aratro e cessa di seminar zizzania e vanagloria nel campo italico e in quello marziale (come epigramma licenzioso) e mediatico. Nanoleone ha abdicato, nella posizione del di-missionario, quella più lasciva, a lui men consona, eppure appagante; un passo indietro, due di lato, mano e cabeza in sincrono, questa è la Gran Macarena del Potere. Teutoniche e serrate avanzano le truppe europeiste, euro-peste, a far le pulci al Nano ed al suo Governo di governicoli, sfuggiti all’oblio per linguacciuto e gracchiante prossenetismo; e vai col tango Sandrino-Bond, lecchino lesto e poeta maledetto (poesucole da incartar lupini, e di gran lena); avanti Brunetta, forza un salto, op-op, la poltrona di Ministro è forse alta? Uno scranno, una spanna, ed è in basso, che s’avanza Belfagor-Ignazio, che chiccheria le Maserati cingolate alla Difesa; e in cielo il ballon soufflè, il Ferrara inghirlandato, tronfio e ciccioso come non mai, che fa, s’invola?; “Ha tentato!”, Grida il Belpietro, e prima che il gallo canti, l’oca diventerà parlamentare, ma chi ha tradito il Mestìa? Desdemona-Carlucci, avrai la tua rovina! Presto, un Frattini Dry, che arsura alla gola! Ma anche accidia, lussuria, ira….e mira, la pira. Arde la fiamma, il contrappasso, Virgilio! No, son fuochi fatui, son le aste dei Bot che s’infiammano, tossiche, vanno in fumo, e presto un estintore, Ser Pelliccia!
Fanfara francofona, si rompon gli indugi, Carlà rompe le acque, e l’inondazione dei mercati di titoli tossici è compiuta. È dramma come allora? Sfiducia del Consesso, 25 luglio? Badoglio come Monti? Insomma uno sbaglio, Napolitèn, sù Vittorio, pardon Giorgio, errore fu…Può uno “Sbadoglio arginare il mare”; di debiti, di interessi, d’asset spauriti, di finanze rincretinite? E’ l’alveo, è pregno, è ottuso: tracima, singulta, s’ammassa, c’ammazza…l’inverno del nostro scontento è qui, e dai Monti che scende la brina, a briglia sciolta, ad annunciar che “L’Italia è fatta”. E il Nano è lì, ancor con le braghe calate? No, pardon, scusate, avi ed evi che s’affastellano, si fa confusione. Che non si parla, quivi, di Risorgimento, al massimo di risollavamento: di morale, di gabbasisi, di borse, indici, spread, spritz, sottomento e minigonne; animo gente, gli zombies politicanti son ancora invitti, in vita, scantonano, scandagliano, scannerizzano, si scannano, per frattaglie di poltrone, brandelli di potere, lacerti di prebende, incarichi, scarichi, e la fogna è appilata, a PIL raso; il bolo starnazza, è contrito, a metà strada: non sale e non scende, ci vuole un rigurgito o un rutto di Bossi, un ratto delle Sabine Began, un ritto sulla tolda, un retto nella bolgia, un dritto a Palazzo. E il Poeta che direbbe? Pasolini non ripete, ahimè. Ma piano col mazzo; chè le chiavi, come quello? Ah, no, e meno male: le chiavi son del regno, dello scrigno, del capitale. E ci resterà, la Capitale, o dovremmo venderla alla Totò, come quel catino di Trevi, o alla Treviri, come Marx e i suoi fratelli, collettivizzando gli utili? Adda venì Barroso! UE, UE, e sono singulti fastidiosi, moniti e vagiti, striduli nella culla: oppure rischiamo la sindrome post-natale, ma ci arriviamo a Natale? Le luci, l’albero…il treno Italia è deragliato, l’ha beccato in pieno. Capo, la stazione è giusta, oppure è solo la prima della Via Crucis?
I mercati son generali, comandano e s’agitano come in borbonica ammuina; comma 22, legge ai pazzi, pizza per tutti e pozzi di greggio a sobbollire nervosi; la mota è in moto, è la somma dei titoli che fa il totale, non il dettaglio, il consumo, la massaia di Voghera, anzi. Tutti a vogare, dal Vomero al vomere, che il popolo è sempre bue, e adesso bua, abulico, mangia; e c’è sempre chi ci mangia, e non lascia avanzi, e non paga il conto, e canta la messa, posa la quaglia, insomma ma che siamo in un film comico? E dov’è il Principe? Ci rimane solo il Menarca, l’omuncolo dalla patonza in testa, trapiantata pure quella, prigioniero del più-sess-meno-stress, di Freud, degli anni ottanta, dell’iconografia tettonica e senza placca, ancora seduto al Drive In, a risentire le vecchie barzellette, a rimirarsi nello specchio, “wilde” e maschio, crine al vento (scollatosi?) da premio, da Premier, di sicuro da Oscar? E ‘o scarrafone è bello, e Mamma Rai ringrazia, svilita, sciupata, illividita e depressa a furia di minzolini notturni, perdendo liquidi e ascolti, perdendo dignità. E le macerie, sempre in conto nostro, Cavaliere?
Frau Merkel e Sarkoz-Igor si danno di gomito, si fregan le gobbe, e “prima-vedere-cammello”, cammelliere, cavaliere, carpentiere (o forse “muratore”, massone piduista al canto di malauGelli?). S’odono spread far festa, e di festa s’apprepara il desco, ahi Serva Italia! E che almeno sparecchi, no? E se non serve, che fine fa il servo sciocco e giullare, il Pulcinella arcoriano? Fu vera, Gloria? E poi Nicole, Deborah, Daniela, Rubacuori (a tacer del portafoglio), Noemi, Naomi, Mara, Mariastella e che Letizia! Le prefìche che plaudono in coro, al capezzale del Potere, ne cullano, come Ciullo (D’Alcamo, of course) i sogni più inverecondi. Sic transit gloria immundi, per tacer del resto. Hai visto mai, a seguir Bettino si facesse la fine del Libico?
Mesdames, Messieurs forse che sia finito il tempo di farlocchi mafiosetti dalla faccia ingiallita e dalle narici bianchicce? Forse che il barnum del potere, il lascivo spettacolo delle minne a cozzare con il machismo blando e femmineo dei cardinaletti, dell'ecclesia aurea e burocratica, del potere imporporato e sotto papalina sia lasso e vacuo, e in perdurante rotta?
Basterà la cura da cavallo, da somaro, Sancho Panza vacante e Don Chisciotte a trotterellare, che il nuovo Governo s’appresterà a dare? Ai posteriori la sentenza, e ce ne servirà di fortuna. Che è cieca, mentre la sfiga…
No, no, Silvio, ho detto sfiga, con la “esse”; che è lunga, e alla lunga, stanca pure quella. A te giammai, caricato a molla; e molla l’osso che le aziende calano, i figli chiamano, pigolano, abbi Fede, che Fedele Confalonieri è già al desco. L’ernia del desco, bravo che un altro po’ ti sbracavi di brutto, perdevi roba, e addio Ruby! L’Ultima Cera. Al Mausoleo di Ardcore.
Il Mestìa è al suo centro. Allarga il sorriso, benedice l'apostolato a sua congrega, alza il calice, cala la sacra ostia: come fossero in pena, come fossero Penati, già crepati, gli apostoli rivolgon lo sguardo a favor di Berlusconi, a favor di telecamera. Fidi e fidati, che cambian la marcia, innestando la retro; e "va' de retro, Silvio! Alla malora! Oste, porta via i resti, che banchettar con carogne non compete!". Quanti ne ha visti passare il Nostro, quanti i sottopancia, i leccaculottes, gli smutandati, smandrappati, lenoni che ha allattato, che ha allevato in questo ventennio. Il Mestìa li conosce, li blandisce, li riconosce a fiuto, qualcuna al tatto, ma son figli ingrati, eppur Lui è generoso. Non li ha mai traditi, li ha solo comprati, son oggetti cari al suo modernariato da museo cerato, oramai. La Sindrome dittatorella colpisce in senescenza, "dai nemici mi guardo io, che dagli amici mi guardi Papà", avrà rimurginato l'Unto e Bisunto dal Signore (Craxi?). L'ultima cera, l'ultima gag, forse, prima di spegnersi lentamente, fulminato come da cavo di corrente: perchè l'Unto è lì, a cincischiare da sempre con parabole ed antenne, ma è vecchio ormai, troppi acciacchi e reumatismi. Non resse il vento, nè i lampi. Un problema maniacale ai lombi, e restò all'antenna, attaccato da scossa fulminante. Assurgendo finalmente nell'Etere Profondo.
Adieu, che la Terra ti sia allieva.
E che dai Monti spunti un’alba migliore, o al minimo decente; che di Tremonti cremisi così non vogliam vederne più.
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