sabato 5 novembre 2011

Racconto in regalo (ci sono i saldi)



MAGIC NAPLES

Le stupefacenti avventure
di Mago Genny



































A tutte le comparse di questa vita menzognera










































Cocaina: alcaloide che si ottiene dalle foglie
della Erythroxylon coca, pianta del Sudamerica,
largamente coltivata in Perù e Bolivia. A volte Messico.
(Wikipedia)


«Se solo mi ricordassi cosa viene dopo “abra”,
farei sparire l’intero pubblico».
(Harry Houdini)


«Signorina, se squilla il telefono non risponda!
Potrebbero aver sbagliato numero».
(Groucho Marx)




















«Mago Genny, allora mia figlia si sposa o no?».

La voce all’altro capo della cornetta sobbolliva nervosa. Una punta d’acidula apprensione non bastava a tradire le origini nazionalpopolari di quell’epigona vogherese in salsa verace. Lo spirito di Partenope ne pervadeva la frenesia verbosa, arrampicandosi su tonalità catarrose e gutturali da quatrana d’alto bordo. E mentre aspirava ampie volute di ragù fermentato, riformulava a cantilena la fatidica domanda: quello splendido sconciglio di figlia che aveva partorito a calci e preghiere ben quarantacinque anni prima avrebbe mai trovato un vruoccolo scafesso da impalmare?

L’uomo rimuginava bovino, non sapendo che cartuccia sparare; doveva generare una bobina di minchiate, sollevare l’argano e dare energia a quel mostro di balla che stava per partorire in diretta telefonica.

«Signo’, la verità? Nelle carte c’è confusione, il futuro è nebuloso, ci ho l’Appeso che non mi promette buono, ma la Temperanza, eh, la Temperanza! Vediamo che cosa mi esce. Qua le carte devono essere interpretate, sennò il responso non è chiaro».
«Mago Genny, ma è grave ’a Temperatura?».
«La temperatu…? Signora, questa è la Temperanza, una carta dei Tarocchi assai importante: le carte so’ precise, signora mia, ma non vi preoccupate, che la giovane troverà presto l’amore. Tempo al tempo, vedrete che non di amore piccolo si sta cianciando, qua ci sta in ballo l’Amore grande, quello con la lettera maiuscola! Secondo le carte la ragazza va sposa entro quest’anno».
«Uh, che mi dite! Mago Genny, ma siete sicuro? Mia figlia non tiene l’uomo, è femmena sconzolata, manco uno che se la sia guardata a questa povera anima in pena!».
«Signora, qua le carte mi dicono che l’avvenimento è imminente. Scusate la domanda indiscreta: vostra figlia è vergine?».
«Adesso non mi ricordo il segno, comunque è nata a marzo…».
«No, non avete capito. Dicevo: ’a guagliona è vergine? Cioè, tiene confidenza con le cose intime?».
«No, io delle intimazioni di mia figlia non saccio niente. Ma poi a voi che v’interessa? Fatevi i fatti vostri!».
«Signo’ – tagliò corto il Mago, che si stava leggermente rompendo i coglioni –, quali intimazioni e intimazioni?! Qua le carte parlano, il destino vi sta chiamando, voi che vi credete? Io mica sto qua a prendervi per il cu… cioè, ve lo dico col cuore in mano!».
«Sì, ma io…».
«E allora scusate, qua la mano degli Arcani l’abbiamo avuta, mo’ ce vo’ solo ’a mano d’ ’a Maronna! Le carte hanno parlato: la ragazza se è vergine troverà prima l’amore, sennò ammèn! E poi queste sono argomentazioni da sessuologo, io sono solo un ciarlata… un umile scrutatore del futuro. Sissignore, io sono un mago serio, signora mia, non come tanti buffoni tutti paillettes e stelle filanti che vi danno ’na fregatura, v’intortano di chiacchiere, e voi spendete soldi a palate con quelle linee per sporcaccioni zozzi! Che poi si sanno ’ste cose: chi vi risponde sta alle isole tropicali a grattarsi il pacco… di banconote fregato dalle tasche di quei poveretti come voi che telefonano come fessi, sperando in chissà quale miracolo, pregando in un aiuto che solo il cielo sa…».

Era partito. E quando partiva era un treno in fregola: condensava tutte le cazzate che mente umana potesse concepire, e senza pagar dazio o pedaggio ai lobi prefrontali, puntava alla cieca il bersaglio, premeva il grilletto e sparava a mitraglia.

«Sì, Mago, ho capito, ma mia figlia…».
«Signo’, non m’interrompete. Io lo dico a favore vostro, che vi fate fregare dai buffoni col mantello alla Mago Zurlì… Che poi, tra parentesi, io potrei pure farveli i nomi di questi approfittatori, ma non li faccio, non ve li dico perché sono un signore. Adesso saluti, mia bella signora, e non vi dimenticate che se volete l’amuleto di Mago Genny potete chiamare pure all’altro numero che vedete qua alla mia sinistra, o alla mia destra o dove cacchio sta scritto. Il talismano di Mago Genny, ricordate: l’unico e solo che previene il malocchio, tiene lontani i malefici e vi fa bollire l’acqua sul fuoco. E se sul medesimo fuoco scarfate ’sti sassi, questi perfetti manufatti della scienza tarocca, vi fanno passare financo i dolori alle ossa. Sì, amiche mie, avete capito bene, pure i reumatismi vi faccio passare!».
«Vabbè, Mago Genny, io vado, che si sta attaccando ’o sugo…».

Tu, tu, tu…

«Signora, signo’? Come dicevo, se volete parlare in privato, più tardi attacchiamo la linea privè, così non fate sapere i casi vostri alla gente, che poi è maligna, che ve lo dico a fare. La linea è qua in sovraimpressione: solo due euri al minuto, io so’ economico. Lineee libereee!».

Il Mago Genny, noto ai mortali col nome terreno di Gennaro Pellecchia, di napoletanissimi natali e neanche sì nobili, non era quello che l’estetica dominante avrebbe classificato come bell’uomo. Lontano anni-luce dalle copertine patinate di Uomo Vogue che quella troglodita di sua moglie comprava a scadenza fissa e con inutile sperpero danaroso, sotto la sua faccia da triglia, la panza da commenda e il petto villoso da lupo marsicano era arduo scorgere una pur minima traccia d’umanoide di razza caucasica: lo spettacolo era quello d’una larva bozzolosa ed enfia, entrata a forza in un sacco rosé a pelo corto e coi pendenti molli al seguito. Un perfetto incrocio tra un molosside ripieno dalla pelle grinzosa e uno a caso dei Cugini di Campagna (esclusa la checca isterica biondiccia). Oddio, non che la sua signora fosse un fiore: il tempo l’aveva scalpellata a dovere, e la Madonna con puttini s’era trasformata in un involtino primavera scotto a puntino, un cespo misto di rughe, unghie laccate e crine biondo-cenere-un tempo-castano che le pendeva floscio dal capo bombato, come lo sbuffo indolente d’una balena cotta in una zuppa d’agosto. E nemmeno cinquemilaseicentocinquantavirgolaventi euro di tette rifatte (il che faceva più o meno duemilaottocentoepassa euro a tetta), posate nelle mani lisce d’alabastro del noto chirurgo plastico Eugenio Filiberto Leonardi Strozzi, dell’antica stirpe de Lumi Mannari della Medicina, avevano reso più appetibile la femmina, ormai sulla soglia dei cinquanta, in menopausa attiva e con picchi ormonali tali che neanche un novello Messner avrebbe osato scalare. Adesso rassomigliava vagamente a un trumò con gli airbag; un incidente di percorso cui la donna stava già pensando di porre rimedio, ma che a Gennaro Pellecchia non dispiaceva affatto: ora che la moglie pareva un giulianoferrara sgusciato e senza pipino, non sentiva più il peso del dovere coniugale né di quell’estro virile che un tempo gli animava le pudenda. Fin qui tutto bene, ma alla signora la cosa non andava giù. «Ecchecazzo, io mi faccio ’ste pere spaziali e quello stronzo neanche mi guarda? No, eh, così non va!». E questo era il motivo della presenza in casa Pellecchia, in quel preciso istante e momento, del “Dott. Girovazzi Adelmo, commercialista e affini”, il quale oltre a ripassare i conti del Mago, si ripassava paonazzo la di lui consorte, con evidente soddisfazione soprattutto della fedifraga, sicura e conscia da sempre che quell’affini comprendesse prestazioni extra, più da letto a due piazze che da scrivania. Dopotutto, le pere non a tutti piacciono col formaggio.

Uno squillo prolungato e impertinente interruppe il flusso celebrale del Mago: era dalla mattina che un tarlo gli rodeva, una pulce lo pungeva e il deretano gli prudeva. Aveva minuscole stalattiti scongelate a rigargli la fronte, un estuario di rivoli setosi sfilacciati da un’ansia febbrile. Guardò verso il basso. Questa volta la roba era decisamente troppa.

«Pronto, è il tuo Mago della serenità e della fortuna che ti parla. Chi sei, amico caro?».
«Mago Genny, ciao, mi chiamo Bruno. Gli amici mi chiamano Brunello perché sono bassino. Scusa, sono emozionato, non ho chiamato per l’altezza, ma per la bassezza di quella sottospecie di mia moglie… Sono un paio di mesi che quella stronza mi nasconde qualcosa, è strana, credo che non mi ami più come prima. Qua ci vuole la mano tua, vedi le carte che dicono».
«Eh, sento dal tono di voce la tua sfiducia, ma non appaurarti che per soli, e dico soli, due euri al minuto, ti risolvo tutti i dubbi del mondo, perché lo sai che sono un paraculomagoefattucchiere di modesta pretesa ma dai grandi poteri. Il mio occhio non mente! Del resto al giorno d’oggi le donne non sono più quelle di una volta, e meno male. Ma dimmi, non voglio farti perdere tempo perché sicuramente sarai sulle spine, dico bene?».
«Infatti…».
«Ecco, appunto, non vorrei che si pensasse che una persona onesta come me, l’unico Mago Genny degno di questo nome, abusi del vostro tempo. Allora dimmi, Antonio».
«Bruno, mi chiamo Bruno!».
«Bruno, appunto. Vediamo, di che segno sei?».
«Mi pare Ariete».
«Ariete. Bel segno, un segno forte, di fuoco. E tua moglie?».
«Toro».
«Toro! Ah, e questo non è buono. Voi vi state scornando perché, perché…».
«Dimmelo tu: perché?».

E adesso che cazzo s’inventava? Tabula rasa, la capa come una landa africana arroventata. Nulla, nada, zero. Roteò la testa, inarcò sbuffando le narici e puntò come un torello i suoi occhi sanguigni in quelli di Ernesto, l’unico cristiano che aveva accettato di lavorare per lui, eccezion fatta per la sua assistente molto personale; ma quella era un’altra storia. Ernesto, un cubo di Rubik di centotrenta chili, lo guardò inebetito, la pupilla acquosa, e mentre con una mano porcina si detergeva la cascata sudoripara sottoascellare, con l’altra disegnò la parabola invereconda di un paio di corna taurine, sventolandole alte e fiere, come un vessillo medievale.
«Mago, ci sei ancora? Pronto?».
«…perché tieni le corna!».
Gli uscì tutto d’un fiato.
«Lo sapevo, chella stronza! Quella sono mesi che non mi guarda più in faccia, che non fa più l’amore con me… Manco s’inventa più ’e male ’e capa come prima, nooo! Me lo dice senza fronzoli, papale papale: “Mi fai schifo, io vicino a te non mi ci strofino più!”».
«Eh, so’ finiti i pruriti!».
«Mago, quella la sera esce, dice che va a trovare le amiche o che va dalla madre. Io la chiamo ma il telefonino è spento, dice che ha problemi di campo… Ma se continua così saranno problemi di camposanto!».

Non era il momento d’improvvisarsi consulente matrimoniale, il tempo macinava sbilenco i suoi grani frettolosi. Antonio, Bruno o come cavolo si chiamava il cornutone, doveva essere liquidato.

«Antonio, il disegno degli arcani mi si è svelato nella sua pienezza: le carte nella loro saggezza astrale mi dicono che vi siete scambiati i segni».
«Cioè?».
«Perdona la franchezza, ma il toro sei tu, e mugliereta è ’na zoccola! Ma non disperare che… Pronto?».

Tu, tu, tu…

«È caduta la linea. Speriamo che Antonio non faccia sciocchezze. L’amore dà, l’amore toglie. A volte la vita fa strani scherzi, ma il vostro Mago Genny vi può aiutare, chiamate con fiducia. Il numero sta qua sotto, sono solo due euri: manco ’o cafè ci pigliate più! Lineee libereee!».

«Gesù, Gesù, un buffone di questo calibro! Ma come si fa al giorno d’oggi a perdere tempo appresso a ’sti maghetti da strapazzo? Io a questo lo arresterei solo per la faccia che si ritrova!».

Il maresciallo Stanassi, dei Carabinieri del raggruppamento “Puteoli”, teneva gli occhi incollati allo schermo di un piccolo monitor a colori che rimandava la faccia sorniona del Pellecchia. Dentro il camioncino si soffocava, l’inferno s’era liquefatto in nuvole di vapore liquoroso, miste a olezzi di sudore pungente e dopobarba dozzinale. L’appostamento era durato anche troppo.

«Minchia, la divisa! Col caldo è peggio d’un sudario… Ridi, ridi, stronzo, che fra poco ti cancello il sorriso insieme a tutti i denti! Mangerai solo pastine in brodo».

Nello schermo luccicava il sorriso luciferino del Mago. La sua voce catramosa di fumo risuonava nelle cuffie del carramba.
«Sai che risate si farà il pubblico ministero, quando si sente ’sta robba! Cuccurullo, ma tu lo vedi a ’sto volpone?».
Il giovane Cuccurullo, da poco nella Benemerita, sfatto e appiccicoso come un beduino in una sauna turca, si avvicinò al superiore inforcando la cuffia. L’ombra di un sorriso si affacciò sul suo volto ben sbarbato.

Le indagini sul conto del Pellecchia andavano avanti da due mesi e mezzo. Il suo curriculum era degno di un arseniolupin rubagalline armato di scacciacani, ma in provincia questo bastava e avanzava per piazzarsi in pole e fare punti malavita: evadeva sistematicamente le tasse, truffava senza remora alcuna, emetteva assegni a vuoto come neanche Cecchi Gori, e non contento del suo limpido cursus honorum, era indagato pure per spaccio di coca et similia. Il che lo rendeva una rotellina molto utile nell’ingranaggio dei clan locali, implicati in truffe, droga e rock’n’roll, più baldracche compiacenti e pizzo al seguito.
«Questa volta ’sto stronzo lo becchiamo. Altro che evasione fiscale! Cuccurullo, la pattuglia di rinforzo?».
«Arriva a minuti, maresciallo».
«Ok, pronti ad intervenire».

Intanto Pellecchia, staccate le linee, sbattuto il telefono in faccia ai babbei, s’era attaccato alle mammarelle della predetta assistente muy personal. Nel suo studio orale, a una poppata intervallava una sniffata, rapida e precisa. Sul tavolino, in evidenza, quattro lunghe strisce di coca, pronte all’attraversamento nasale in surplace. Giusy Parente era in estasi preamplesso, e senza neanche aver toccato la bianca col suo nasino da bambolina cinese: quell’errypotter posseduto sapeva come ripagarle gli straordinari, anche se la sua virtude guerresca, laggiù nei bassifondi, era tutto fuorché extra ordinem. Ma dove non puote natura, puote costanza.
Il povero diavolo sbuffava a mantice in piena sindrome preinfartuale, paonazzo di viso e di cappella. Si udì uno squillo a manca. E mancava effettivamente poco al coitus, meno ancora all’ictus, quando i militi noti pensarono bene di fiondarsi a grappolo nello studio, senza preavviso a garanzia del decoro, bastante il solo avviso di garanzia, al grido crucifero di: «Alt, Carabinieri, non vi muovete o vi rompiamo il culo!».
Il cervello strafatto dell’uomo elaborò due o tre rapidi pensieri. Nell’ordine:
1. «Sono fottuto»;
2. «Non si scopa più»;
3. «Due o tre piste di polvere non sono un problema».
Problema che, inverecondo, si poneva per l’involucro dabbasso, d’un biancore allucinante, processualmente aggravante certa, che di colombiana pura e granulosa ne conteneva due chiletti e passa o giù di lì, la qual cosa non mancò di corrucciare il Mago, che da rubizzo divenne smorto. O direttamente morto, dato che quella coca era del ras di stanza orientale, la zona più losca dell’hinterland, detto ’O Monacone perché da giovinetto aveva strozzato un parrino a mani nude. Del resto, per abbracciare Dio si deve pur passare da un prete, no? La fraterna amicizia dimostrata dal Pellecchia al Monacone per celare la sostanza in cambio di quattrini stava per mutar segno nonché misura, attestandosi sul metro e settantacinque, centimetropiùcentimetromeno, bastevole di sicuro per una cassa in radica di noce a nome suo.
«Merda!», proruppe il tapino, ancora imbrigliato nel reggipoppe della donna, la quale arrancava stranita sulle di lui vergogne: pigolava come un’oca starnazzante, fioca la luce dell’intelletto, turgidi i seni, non arrestava il suo carnale andazzo, tutta presa dal maghetto e dal suo ballo indemoniato. Il Pellecchia s’inarcò come un orso imbizzarrito, catapultando la donzella all’altro capo della stanza. Allungò le zampacce sulla busta, mugghiò, si rivoltò come un’otaria, ma nulla: la busta di neve non si squagliava, non scioglieva e non coagulava.
Ci voleva un’idea. E l’idea venne, seppur a strappo: volteggiò grifagna posandosi su di un ramo periferico della sua capoccia di Homo Poco Sapiens, schiantandosi come fava colpita da piccione. Nell’angolo, un lembo turchese dell’alcova disfatta lasciava intravedere una superficie bombata e circolare: ma sì, la palla! Il globo oculare delle Graie, la sfera da strapazzo, scenografica e fasulla, di tutti i silvan smandrappati, compagna fedelissima dei maghetti galbusera scaduti e indigesti: se ne stava lì, immobile ed opaca, a fissarlo.
L’uomo ne afferrò la base strappandone a morsi il doppio fondo, ci ficcò dentro la roba a cazzotti e richiuse il tutto, stabilendo il nuovo record mondiale di occultamento coca. E fu così che il maresciallo Stanassi lo trovò, massa irsuta a contemplare la palla, uno sferisteo opaco tra le cosce, carezzata con mano amorevole e paterna. L’altra, invero, aveva un gran daffare: strizzava il culo alla biondona con malcelata nonchalance. La tipa sembrava stranamente euforica: se ne stava seminuda sul pavimento, rideva di gusto ed emetteva trilli a ripetizione, come un campanellino sbatacchiato dal vento.
«I pinguini, so’ arrivati i pinguini!», ripeteva inebetita, indicando i militari nel loro scafandro scuro.


Due anni e mezzo dopo…

Pioveva.
Novembre, un mattino abulico con goccioloni umidi a scheggiar finestre, nuvolaglia striata all’orizzonte. Gennaro Pellecchia, alias ’O Mago ’e Poggioreale, si lasciò dietro alle spalle smagrite i battenti ferrosi del carcere partenopeo. Umore nero, vestito a righe color kaki, macchie e polvere.
Dal gabbio era uscito smunto e incazzato, la zazzera ingrigita, arruffato come un cucciolo in una pozzanghera: il filo gli era sfuggito, gli eventi precipitati e la vita gli aveva presentato il conto. Salato, maledettamente salato. Poco più di due annetti ed era stato ripulito come un casinò. Solo che lì, in quel mondo in chiaroscuro, non c’era nessun georgefacciadafigoclooney ad aspettarlo col motore acceso. Unica compagna, un’ossessione a chiocciola, che s’arrovellava su sé stessa, variabile impazzita da cui dipendeva il suo futuro. E che volete che sia: una chiazza melmosa, uno sputo e via, il futuro di un ex galeotto è grama cosa, è un casellario annerito. Anzi bianco. Come la neve, come la coca. Un pacco di bianca, per la precisione.
Pazza idea: recuperare la sfera dei desideri, piazzarla per bene, e fanculo al mondo, benvenuto a El Paso! Aveva un cugino in Texas, un certo Bill Pecuraro o qualcosa del genere, amico fraterno, sposo degenere. Uno yankee tutto patria e famiglia: aveva menato la mogliettina per venti anni consecutivi con l’asta della bandiera. Quando si dice un amore combattuto. Poi lei aveva perso il match e l’aveva piantato coi marmocchi.
Ma questa è un’altra storia. La sua era appena iniziata.

Una voce pastosa, da sbornia atomica post prediale, rispose infine al telefono: «Chicazzeeè?».
Così, tuttattaccato. Era lui, senza dubbio: Tony Permaflèx. Il nickname lo doveva alla sua attività di facciata: per la legge degli uomini era il probo titolare d’una azienda che sfornava molle per materassi; sì, quegli involucri soffici per il riposo del corpo, anonimi bozzoli per culi flaccidi e tette alla zuava. Solo che i materassi erano strafatti: tolta la merinos, di lana ne rimaneva ben poca, e quel che fruttava era la coca. La schiena ne soffriva, ma in compenso te li potevi pippare. Senza esagerare, altrimenti il riposo diventava eterno.
I due compañeros avevano un comune passato. Addirittura biblico: s’erano scrutati guardinghi il grugno una prima volta mentre si facevano massaggiare le membra da solerti geishe in perizoma nel centro benessere “L’Eden Terrestre”, paradiso d’orge posticcio, harem per infoiate a pagamento, perfetta agorà per scopare e fare affari. Si veniva al sodo passando per le sode. Il tutto con garanzia: erano troie certificate e non v’era pericolo che giungesse qualcuno a interrompere l’idillio perverso. A parte la Polizia.

«Tonino? Sono Genny Pellecchia. Devi darmi una mano…».
Un’ora e venti minuti dopo i due se la stringevano.
«Figlio d’una cagna allupata… E quindi presa ’sta cazzo di palla te la squagli, eh?».
L’amico lo guardava di sottecchi, gli occhi ridotti a uno scippo felino.
«Il piano è semplice ma rischioso. Magari ’o Monacone la sta cercando ancora, cazzo ne so? Giro la ruota e spero che la pallina si fermi sul mio numero. Come la vedi?».
«Meglio che giocare alla roulette o finire sotto i ponti in roulotte… Facciamo che mi dai qualche giorno e ti rimedio la palla magica. Sputami in faccia se non sono amico tuo!».
«In faccia dovrei sputarmi da solo: in villeggiatura ci son finito come un pivello qualunque. Erano mesi che mi seguivano con quel cazzo di furgone, bastava sollevare il muso dalla sottana di Giusy per sentire puzza di sbirri, e invece…».
Giusy! A quel nome gli occhi ebbero uno sbalzo di tensione, illuminandosi a giorno.
«Ehi, che t’è preso? E adesso perché cazzo ridi?».
Pellecchia era estatico. Sulla faccia da galera si stampò lo sbrego stregato d’un Gatto del Cheshire; fissava l’amico con le pupille dilatate, sobriamente sbronzo senza aver toccato il doppio strato di Jack Daniel’s nemmeno di striscio. Lanciò la mancia al ragazzotto in livrea, centrando il bicchiere con un sordo tintinnio: dopotutto era pur sempre whiskey da due soldi, il piscio paglierino del vecchio Jack. Tonino lo vide allontanarsi in una nuvola di salatini; fissava ancora l’orlo del tavolo, mentre l’amico s’era già liquefatto. Una figura sfocata, persa tra la chiorma della via, il bavero rialzato a nascondere un sogghigno.

Ombre dolenti ad avvolgere corpi e cose si allungavano sul profilo cremisi del vulcano, mentre la sera avviluppava i vicoli a raggiera col suo manto artificiale: l’andazzo giornaliero andava scemando, la risacca cittadina schiumava verso casa. Sguardi tufacei di persone distratte, pallide lune storte e assorte, maratoneti stanchi di rincorrere la vita. Tutto scivolava via come inchiostro catramoso. Gennaro non ricordava l’odore del crepuscolo; era sfumato anch’esso, era un vago sentore di umori passati, distillato d’una vita affastellata, ingolfata alla partenza. O forse era solo il puzzo dell’olio motore di quella Ritmo ridotta a simulacro, ricetto momentaneo dal pungente incedere della tramontana. Febbrile, non mollava la presa, lo sguardo inchiodato a un portone dagli alamari lucenti, frenesia e paura a disegnargli un solco in piena fronte. Sulle colline a ponente la notte arriva prima, riversandosi sui serragli alto-borghesi, colmando i vuoti con assordante silenzio, ricoprendone serica le vergogne. Al sesto mozzicone gettato via con stizza, finalmente scorse una figura familiare uscire dal maniero, salutando frettolosa un capoccione a cespuglio che sbirciava dall’alto, affacciato sul fossato di begonie. Una donna. Una bella bionda.
Camminava svelta, sculettando, i glutei ben fasciati e sinuosi, altezzosi nella brezza della sera, il guizzo femmineo di chi è conscia di virtù. Sola, un profumo arabescato a cingerle la chioma, prese le chiavi dalla pochette arcobaleno, avviandosi alla macchina in divieto, incurante del tramestio roboante dei suoi tacchi a stiletto, pronti ad infilzare basoli e selciato.
Era proprio lei.
«Sei sempre ’na bella femmena», proruppe improvvida una voce.
Oddio, il solito maniaco guardone in crisi asmatica. La donna piroettò di scatto, le unghie smerigliate a graffiare l’aria, in posa per la pugna: l’artefatta baldanza della preda che si vede perduta.
«Chi è? Se t’avvicini te lo stacco a muozzeche, hai capito?! Ma… Uggesù, Gennnaro?! Sei scappato di galera, sei un evasore!».
L’uomo provò ad aprir bocca, almeno per correggere quell’obbrobrio lessicale, ma non fu abbastanza lesto: un effluvio al sandalo e spezie di Sumatra lo stordì, avvoltandolo in un trionfo naive di ricchipremi e cotillons.

L’ordito del tempo s’era sfilacciato, un imbuto nero aveva assorbito le vane esistenze di quei due derelitti: l’ultima volta che il Mago le aveva guardato l’ampio petto prosperoso, le mammelle pendule e grosse come cantalupi settembrini, una banda di psicolabili in assetto da guerra s’era fiondata nel suo studio, sancta sanctorum di vizi morbosi e private virtù, strappandogli dalle mani a ventosa le suddette cioccie polpose. Le strade degli uomini sovente divergono; quando poi c’è di mezzo la palizzata triplo strato di un carcere infernale, i legami marciscono, ammuffendo d’un tratto. Marcescenza sfiorita, ricordi sfumati e astinenza forzata portarono i due ad aggrovigliare i corpi come rollè ripieni nell’angustia della Smart amaranto di Giusy, alcova mignon per ammortizzare l’amplesso.
«Credo di avere le stigmate sulla schiena, per non parlare degli incisivi scheggiati sul volante!», esordì il mandrillo nella requie post-olimpica del coitus.
Questa volta almeno non era stato interruptus all’acme dello sforzo.
«Stronzo! – si risentì quella, massaggiandosi due vertebre annichilite e compresse –. E allora, come mai ancora tra i piedi? Cos’è, voglia di scopare via il passato con due colpetti di reni?».
«Mi offendi: cosa credi che sia, una sanguisuga succhiasangue?».
La smorfia della bionda gelò quel sofficino rachitico che gli deformava la mascella.
«E va bene, hai vinto, non sono qui per una sveltina, ho bisogno di un aiuto. Tu puoi essere la chiave di volta, mia cara. E dando una mano a me, risollevi pure il tuo bel culetto dai bassifondi. Non vorrai mica spupazzarti a vita quel babbeo con la capa alla bobbemarlei?».
La donna gettò un’occhiata distratta nell’oscurità, laddove s’intravedeva l’antro sibillino che l’aveva vomitata qualche ora prima.
«Ok, andiamo a casa mia. Ma se mi accorgo che mi vuoi fottere ancora, giuro che te lo stacco sul serio!».

Nevica. Nei sogni nevica. Bianca soffice impalpabile granulosa effimera pura. COCAINA. Quintali, spumose vette di finissima coca da scalare e discendere a nari piene, da farci palle di nevischio, da bordeggiare risalendone il verso, pippando a pieni polmoni, naso all’ingiù, come idrovora felice. E su tutto, un’enorme, titanica, pantagruelica, iperbolica sfera roteante ed eburnea ad eclissare il sole, a gravitare attorno.
Gennaro si destò di colpo, zuppo: il sonno della ragione genera foschi, iettatori presagi. La palla di neve alla fine lo travolgeva, Sisifo veniva disfatto. Rischiarava, e il piccolo rifugio di Giusy appariva ancor più striminzito alla luce lunare dell’alba incipiente. A passo incerto trovò il bagno, un velo sospeso di condensa s’aprì al suo passaggio: riflesso in uno specchio appannato, un volto stanco chiedeva riscatto. Ce l’avrebbe mai fatta?
«Che c’è, troppo duro il mio divano?».
Una mano ben curata gli scompigliò i pensieri.
«Cazzo, Giusy, ho un chiodo conficcato nel midollo. Manco un fachiro ci dormirebbe su quella branda da campo».
«Ti va bene se ti opero qui, con il coltello da roast beef?».
La mano divenne d’arpia, conficcandogli le unghie retrattili in profondità, come raspa a solcargli il cervello, aggrappandosi ai ciuffi sale e pepe per avere maggior appiglio.
«Ma porca putta…».
«Senti, cazzetto moscio, ascoltami bene: adesso mi spari fuori tutte le rane obese che ti gozzovigliano in gola, capito? Spero che la dormita ti abbia schiarito la nebbia in quella testa da orango rincoglionito! Non voglio neanche immaginare di ritrovarmi in una situazione minimamente simile a quella di due anni fa, con la Polizia che mi fissa le tette mentre ti cavalco strafatta…».
«Sssantagata… Giuseppe Santagata – biascicò Pellecchia, mentre tentava un salto fosbury per liberarsi dalla stretta –. Questo è il nome del destino. Permaflèx ha richiamato, è riuscito a rintracciare la mia roba, le stelle, gli arazzi… E la palla, quella fottutissima palla…».
«E questo Santagata che mi rappresenta?», disse quella, mollando la presa.
«Uno stronzo, una mezza tacca con qualche quattrino da buttare. S’è improvvisato imprenditore de’ noantri reinvestendo denari a perdere in un network più sfigato del nostro, la Tele Felix Canal Plus, un carrozzone di giro con nani e ballerine. E per allestire uno spazio di magia da pataccaro di provincia, ha preso a prezzo stracciato tutto quello che mi apparteneva. Il mio passato scontato della metà, bell’affare!».
«E io che dovrei fare in questa sceneggiata? Fartelo fuori?».
Pragmatica, formosa, tremenda Fredegonda!
«No, ma se vuoi potresti affogarlo tra gli airbags… Santagata me lo devi tenere lontano il tempo necessario a recuperare la coca. Questo babbeo manco s’immagina su cosa ha messo le mani: due chili, porcaputtana, due chili e passa di cocaina purissima!».
Le iridi riaccesero la dinamo, il cuore pompava indemoniato, l’istinto predatorio rullava la grancassa: era tempo d’agire.
«Voglio una parte, Genny. Qualche scopata tra noi non t’assolve mica, devi impegnarti di più se vuoi che ti pari il posteriore. Finisco dritta in cella, stavolta, e senza neanche passare dal via. Quindi patti chiari: voglio la metà della somma che ricaveremo dalla coca. Altrimenti fatti crescere le tette e seducitelo da te, ’sto sfasulato di Santagata!».
«Che grandissima figlia di… Ok, qua la mano, socia!».

C’era un sole amorfo. La Smart color ecchimosi di Giusy conteneva a stento la frenesia del Mago, il muso lupesco puntato sottovento, a fiutare il viavai di auto e persone sotto gli studi di Tele Felix. Che nome del cazzo: una sigla pomposa a celare le miserie di un barnum diroccato: più che una mano di vernice, a quel posto occorreva una mano santa.
«Allora, si può sapere come è fatto ’sto fesso di Santagata?».
La bionda principiava a dar segni d’impazienza. Oltretutto, aveva anche sbagliato l’abbinamento delle calze magenta con la minigonna ascellare pitonata. Un vero peccato.
«Esattamente come quel tipo là».

Santagata, intabarrato in uno spolverino grigio-topesco che aveva conosciuto tempi più augusti, s’era impalato sotto i suoi “Studios” come una faina in cerca di carogna, pronta all’agguato. Almeno quella era l’impressione che dava. In realtà era semplicemente alle prese con una sigaretta neghittosa alla vampa.

«Santagata?».
Da vicino l’impressione era anche peggiore. Il trench liso, con macchie catramose di nicotina che s’allargavano a sbuffo sul colletto, galleggiava in un arcipelago di grigiore, calzando a pennello su quella figura annodata, gli occhietti vispi a scrutare le forme sinuose della donna che gli stava di fronte. L’omuncolo pareva sorpreso. Si lisciò il codino unto come un’acciuga sott’olio e puntò le pupille spilliformi su quella coppia da avanspettacolo. La Bona e la Bestia.
«Sì, in persona. Che volete?».

La Bona s’illuminò d’immenso e allentò le briglie del reggipetto. Il seno si espanse libero, rispondendo soffice al bianchissimo sorriso del nosferatu oleoso, cui l’operazione non sfuggì di un millimetro: da diversi secondi era intento a farle un’accurata mammografia a scansione ottica, allargando di riflesso la sua tagliola al curaro. La puzza di sorcio ristagnava sospesa, il Pellecchia ne aveva fiutato la scia da un chilometro, mentre l’altro, quasi ne percepisse il ripulso, arricciò gli occhietti per inquadrarlo meglio controsole, mantenendo sempre quel sorriso freddo come la lama di un coltello puntato al fegato.
«Scusi l’assalto, signor Santagata. Sono Giusy Del Buono, giornalista di Tele Astroni Napoli, la televisione sui fatti e per i fatti. Vorrei proporle un’intervista veloce veloce, abbiamo saputo che i programmi della sua emittente stanno riscuotendo un grande successo. Specialmente con quello nuovo, Amicaunamaca?, pare che stiate facendo mangiare la polvere a tutti. Ci tengo a farle il servizio prima di altri, in questo mondo ne coviamo di serpi in seno».
«Ehm, sì, il programma temo si chiami Amicamaga, è una linea di preveggenza a pagamento, ma mi faccia pure il servizio», ammiccò quello, incrociando lo sguardo da triglia negli occhi senza fondo di Gennaro. Con quel grugno lì, un cazzotto in pieno viso avrebbe di sicuro riequilibrato la sventura che gli era toccata. Il toporagno si lisciò i baffetti, agitando la codina con sudicia compostezza.
Il sole s’era annacquato, c’era puzza di pioggia.

Gli studi, ciclopica struttura dal maestoso ingombro, almeno stando al verboso vaneggiamento di Santagata, si dimostrarono una prosaica accozzaglia di cianfrusaglie, balocchi deformi e cenciose pezze alla rinfusa: una vetusta e vulgare silloge, ben magro tempio per l’arrembante sbrilluccichio dello showbiz moderno. Stanze ingombre e corridoi labirintici, attrezzature sceniche, luci, trucco e parrucco: era tutto un magma ribollente di vacuo e ipertrofico nichilismo reificato. In parole povere, lì dentro non c’era un cazzo, nulla che valesse la pena di rubare. Al primo sguardo la libido precipitava, al secondo ci s’immalinconiva a depressione. Quell’odore di gomma strinata, disinfettante ospedaliero e linoleum consunto aveva riportato il nostro Mago ai fasti del suo passato mediatico, quando starnazzava beato tra le gracchianti frequenze a onde corte del suo circo da teleimbonitore. Era dai tempi del suo Magic Naples che non avvertiva quel brivido famiglio lungo la colonna; il caos disadorno, quelle rovine decadenti, erano per lui suadente richiamo. Ulisse era tornato ad Itaca.
«Si lavora freneticamente, il tempo è risicato e non abbiam potuto sgombrare il campo… Vogliate scusare l’incomodo, del resto è il minimo, no?», s’autoassolse Santagata.
Lo studio, seppur ingombro di ciarpame, era desolatamente vuoto quanto a presenze umane.
«Ma si figuri, mi crede se le dico che pensavo peggio?», ridacchiò Gennaro.
Una gomitata dritta e nervosa al costato ne arrestò la risata.
«Accomodiamoci pure, giusto il tempo di rilassarci. Oh, ecco, questa è la mia personale assistente, Adelaina. Cara, ci porti pure un thermos intero del suo prezioso nettare, quel caffè ormai celebre nel mondo! Ho da fare un’intervista con questi squisiti signori», chiosò mickeymouse.
La suddetta Adelaina, a chi (Gennaro) s’aspettava concupiscente una sventolona ergonomica di fabbricazione svedese, lasciò recisamente il fiele in bocca: la valchiria tornita con lo stacco da giraffa e il crine frondoso da leonessa in caccia lasciò beffardamente il posto a un goblin irsuto e sdentato, asciutto come prugna senza nocciolo, che s’estendeva stentoreo in tutto il suo metro e quaranta, il quale, spalancati due fanali grinzosi sul gruppetto, sputacchiò: «’A machinetta s’è scassata, ’o cafè è asciuto afore tutto quanto. L’aggia fa’ ’n’ata vota? Pecché po’ ’o cafè se po’ ’ncarzapella’, ’nce vo’ ’a mano ’e Ddio pe’ ne fa’ ’n’ato! Avite capito bbuono?!».
Il grammofono quietò il cicaleccio per un istante, il che permise al terzetto di riprender fiato. Santagata, scuro in viso come un pulcinella incarognito, ebbe un sussulto impercettibile, ma si ricompose subito, torcendosi il codino ribelle, quel baffo indisponente sfuggito alla scriminatura ben laccata, come il tentacolo d’un calamaro dalla friggitrice. Punto sul vivo, digrignò gli incisivi, sibilando un’antica prece di malaugurio in uzbeko misto aramaico: «Aaaadelaina! È pagata anche per questo. E adesso ci lasci, che dobbiamo parlare di lavoro!».
La vecchiaccia, non adusa al comando deciso, si azzittì. Poi, come demoniaco feticcio a molla, scattò serpentesca, sciamana ipnotica e funesta. La faccia di cuoio rinsecchito s’apriva come una bocca dell’inferno. Lanciato un anatema sul consesso miscredente, la megera si girò, avviandosi lentamente per il corridoio, mentre la sommessa nenia sfumava nelle nebbie dell’incubo: «’O cafè!». E l’eco rimbombava, perdendosi tra le mura mezzo ammuffite.
«Scusate, è anziana, spero capiate i disagi che l’età comporta. Allora sparate pure, il vostro Santagata è pronto a rispondere».
«Oh, purtroppo spariamo solo a salve…», caricò il Pellecchia.
L’ennesima gomitata sottoascellare lo mise a tacere. Fedele al memento che a pensiero segue l’azione, Giusy scoprì la contraerea: le tette a espansione puntarono come torpedini il bersaglio e Gennaro fu libero di snocciolare insulse domande, cui l’ingrifato diede risposte ancora più vacue.
«Cosa vuol dire essere editore al giorno d’oggi?».
«Scartoffie, mio caro, solo cartacce da timbrare e firmare, dati e cifre… Si tratta pur sempre di far quadrare i conti, prevedendo le perdite e sperando in un’abbondante dose di fortuna per quel che riguarda i guadagni. Siamo una piccola emittente, è vero, ma siamo agguerriti, su questo non ci piove».
Il fragore d’un tuono novembrino informò i presenti che invece pioveva. Almeno fuori, perché dentro l’ambiente sublimava, la condensa galleggiava a mezz’aria e il pollo era pronto per la cottura. Giusy lo stava ammaliando con sguardo lascivo, o forse bastavan le cosce sode da porcellana, vallo a sapere.
«Un’idea davvero brillante quella del programma magico, mi creda. E com’è che si chiama? Amicamagia?».
Genny sorrideva a latere, godendosi il momento.
«Le sue seno, ehm… sono domande interessanti. Come ha detto di chiamarsi? Signor…».
«Passalacqua. Gennaro, per gli amici. Ma non mi sembra questo il caso…».
E tre. La quarta gomitata s’era già prenotata, Giusy lo stava battendo come un polipo.
«Iniziamo dagli sponsor: chi vi ha appoggiato in questo vostro delirio?».
Poker! Ormai le costole erano diventate blu cobalto.
«De… delirio, dice? Beh, effettivamente è stato azzardato. Il progetto, dico. Capitali ingenti, investimenti coraggiosi e margini di guadagno sempre a rischio. Le sponsorizzazioni ci sono state fornite dalla nota azienda Pane, salame e… dei fratelli Mazzincapa, ditta celebre nel mondo degli insaccati bovini, suini ed affini. Devo poi ricordare le Carrozzerie Cascella, esempio fulgido di imprenditoria con valori saldamente radicati nel territorio e nelle saldature, perché proprio di questo si occupano. E poi come dimenticare gli autori, i tecnici e la nostra primadonna, la “Signora”, e mai termine fu più esatto, Francesca Bufalini, gloria indiscussa del teatro di prosa napoletano, un curriculum pazzesco, direi leggendario. Insomma, non ci siamo fatti mancare niente».
«Siamo davvero colpiti. Quindi sono questi gli ingredienti per un programma di successo?».
«Vede caro amico, il successo è un miscuglio indefinito, forse indefinibile, che ognuno crede di…».
Era giunto all’apice dell’umana sopportazione, doveva emergere da quel pantano di cazzate in cui Santagata lo stava trascinando, un minuto di più e non avrebbe risposto di sé, un ebete del genere non lo incontrava da tempo immemore. Da almeno… due anni. Anni che però lo avevano scolpito, intagliandogli un briciolo di amor proprio nella coriacea scorza truffaldina. Vergognandosi d’aver riconosciuto in quell’opossum che gli sedeva innanzi il Pellecchia d’un tempo, si alzò di scatto, interrompendo sul più bello quel fiume d’ormoni alla johnwayne.
«Io vi lascerei un momento soli. Impellenze urologiche, la prego di scusarmi».
Santagata con un grugnito espressivo gli indicò l’uscita, o forse direttamente il cesso.

Mago Genny aveva l’aspetto d’una belva notturna, eppure quel dannato tremolio alle giunture gli azzannava i muscoli, paralizzandogli il morso. Presa la roba, se la sarebbe svignata, era deciso. Peccato per Giusy, ma non era il caso di dividere il premio per due. E poi la ragazza poteva sempre diventare l’amante di Santagata: mollava il capoccione e si prendeva il topastro. Santagata la trasformava in soubrette, magari.

Ripercorreva le orme riflesse nel dedalo budelloso, in cerca d’una traccia che potesse istradarlo, sperando di incrociare il sentiero della sua palla sfuggente. E per poco non incrociò davvero qualcosa. Adelaina si aggirava come un automa per il corridoio in chiaroscuro, gli occhi due mirini stroboscopici, laser a infrarossi puntati in ogni direzione.
Il minotauro era in caccia, e lui non aveva daghe, specchi ustori o unguenti prodigiosi al seguito. Tornò indietro, fino alla tana dei due amanti focosi. S’accostò curioso, origliando compiaciuto. Il vetro smerigliato rimandava ombre danzanti, al di là della caverna: s’udivano carezzevoli sospiri e piacevoli lamentazioni, la miglior paccottiglia pornosoft a solleticargli le orecchie. La moanalisa dall’altra parte stava invero superando sé stessa.
Avanzò a tentoni controvento, ritrovandosi in campo aperto, l’emiciclo d’uno stanzone circolare s’apriva a ventaglio, ingombro com’era di cavi elettrici e luci fulminate. C’erano due tipacci intenti a sistemar bobine e scatoloni, meglio non dare nell’occhio.
Una porta semichiusa attirò la sua attenzione. Sulla targhetta campeggiava un SALA TRUCCO a lettere sbiadite. Buio pesto dentro, al terzo tentativo beccò l’interruttore.

Click.

Déjà vu. Davanti a lui, messe in bella evidenza come in una fiera campionaria, c’erano quelle che alla prima occhiata riconobbe come la sua pezzottatissima roba: il tavolino traballante, la scenografia di cartongesso, il mantello da supersfigato, il turbante azzurrino… E la palla? Dove cazzo era finita quella maledetta?
Eccola! Era in un angolo, raggomitolata su sé stessa, perlacea nella sua nuda essenza. La raccolse con mano tremante, il cuore a manetta: e se la coca s’era ammuffita? E se la Polizia l’aveva poi trovata? E se Santagata se l’era pippata? E se…
Forzò il fondo, sfiorando qualcosa: la droga era ancora lì, le sue preghiere avevano trovato ascolto. Il dio dei pusher aveva fatto il miracolo.
«Sono un fottuto genio, sono un fottu…».
«E voi chi siete, che ci fate nel mio camerino?».
Una voce roca aveva interrotto la sua danza maori.
‹‹Sono fottuto!››. Gennaro si girò di scatto verso la fonte di quel ruggito da ungulato, che scoprì essere un donnone scuro, truccato come una bagascia in tiro. L’orso baloo lo stava osservando con aria assorta, perdipiù minacciosa.
«Che ci fate qua dentro? È proprietà privata, dovete uscire, questo è il camerino di una signora!».
Era il bufalo. Cioè la Bufalini. L’Amicamaga in carne, fin troppa, ed ossa.
«Neh, ma chi siete? Io non vi ho mai visto prima. E che state facendo da tre ore co’ ’sta palla in mano?».
Situazione idilliaca: lui, la coca e la balena. Oltretutto, il mostro s’era impuntato; a gambe larghe e nerborute gli sbarrava il passo, bloccando la fuga.
«Signora Bufala, non si preoccupi, sono Peppe, mi hanno assunto da poco».
Il donnone ebbe un sobbalzo, e Gennaro pareva un goffo pollicino al cospetto dell’orco.
«Al ladro! Fermo là che adesso t’aggiusto io! Massimooo, aiutoooo!».
La Bufalini fece per rotolar via, ma l’uomo le afferrò il braccio nel disperato tentativo di trattenerla. Guardandola indifeso negli occhi spiritati, provò a giocare l’ultima carta.
«No, aspetti, dove va? Ecco, io mi vergogno un poco… ma la stavo cercando, sono un suo grande ammiratore, sa? Potrebbe farmi un autografo? La prego…».
«Tutto ’sto casino per un autografo? E che problema c’è? Venite qua, dettate! Allora: “Al mio amico Peppe – che bel nome, pure mio padre si chiamava così – con affetto, la balena bia…?”. Neh, ma siete impaz…».
La frase le morì a fior di labbra, dato che il suo “amico” le aveva appena calato come un maglio micidiale la palla di coca sul testone: nel trambusto gli si era incollata alla mano, trasformandogli il braccio nell’arma del destino. La mazzata mandò la donna giù lunga per terra, kappaò al primo round, mentre la sfera esplose spargendo frammenti scintillanti per tutta la stanza.
«Merda! E adesso?».

Già, e adesso? Guardava la Bufalini tramortita – e se invece l’aveva fatta fuori? – mentre il panico prendeva possesso delle sue meningi obnubilate. Ci mancò poco che cacciasse un urlo. Era stato un attimo, aveva agito d’istinto, come quando al luna-park sparava ai peluche per la figlia; solo che allora l’elefante rosa non lo beccava mai, neanche a pagarlo, mentre adesso l’aveva centrato in pieno e al primo colpo.
La cicciona doveva sparire.
Provò a tirare il moloch per le braccia con sincero spirito olimpico, ma fu tutta fatica sprecata: sarebbe servito uno spalaneve per spostare quella valanga imparruccata.
Cambiò angolazione, tirando calci al flaccidume immobile, quando si udirono dei colpi in successione. Era l’aiuto-balena.
«’Onna France’, tutto bene? M’avete chiamato? Fra dieci minuti iniziamo a registrare. Lo sapete, no?».
Imitando il vocione rauco della femmina, Gennaro si lanciò in corsa: «Sì, caro, adesso arrivo. Un’ultima ritoccata al trucco… Voi intanto preparate tutto, ok? ».
«Va buono. Noi siamo pronti, quando volete».
Il piano s’era complicato, la cicciona non rientrava nel risiko prestabilito.
Pensa, Gennaro, pensa. Cosa fare quando il nemico ti fotte con le spalle al muro? Cavallo di Troia! Anzi un intero ippopotamo per fregare gli Dei. Spogliò la Bufalini del vestito extralarge, provò a indossarlo, ma anni di sbobba da galera l’avevano prosciugato e nell’abito ci sguazzava. Ergo, abbrancò dei cuscini a puff legandoseli al busto; vuotò di uno l’imbottitura, ficcandoci la busta polverosa. In questo modo non avrebbe più rischiato di perdersela, almeno. Afferrò una parrucca riccia color carota e si guardò allo specchio, trattenendo a stento un conato di vomito. Mancava il tocco di classe: uno spesso strato di belletto e nessuno avrebbe notato la differenza col bigfoot svenuto, caduto, morto. Scavalcò d’un balzo il corpo del reato, ingoiando la chiave della porta. Le luci della ribalta lo attendevano.

Un tuffo nel passato. La scenografia che gli parò innanzi era di un trash avanguardistico: tavolino sbilenco da seduta spiritica, microfoni ad imbuto, luci technicolor e una quinta cartonata sullo sfondo. Il classico set da supertrucidi cafardoni senza inventiva, l’Uomo e Dio che si tendevan l’uno verso l’altro, sfiorandosi con le dita, davanti ai suoi occhi di miscredente travestito. Se l’avesse visto Michelangelo, si sarebbe impiccato ai ponteggi della Sistina. Il dito onnipotente lo scrutava, lo puntava indagatore, e per un istante il Mago trasalì. Era solo autosuggestione, o almeno lo sperava.
«Donna France’, che faccia che avete! Ma state bene?».
«Sì, sì, l’aria dello studio è fredda…».
«Fredda? Ma qua si schiatta dal caldo, con ’ste luci! Secondo me tenete la febbre, pure la voce mi pare più bassa… Dopo vi do ’na pasticca per il virùs. Lo sapete, quello ’o virùs tiene la faccia cattiva».
Cercò d’immaginare il ghigno mefistofelico del virùs, ma proprio non ci riuscì.
«Grazie, caro, non vi preoccupate… Allora cominciamo?».
Era finito in una gabbia di matti. Cullandosi il ventre, si avvicinò al tavolino a balzelloni.
«Scusate, signo’ – era ancora quel rimbambito –, niente palla magica oggi? Mo’ ve la vado a prendere in camerino...».
«No! – quasi gridò l’homme travestì, tre ottave sopra la media –. Non vi preoccupate, oggi ne faccio a meno. Per essere maga bastano il fluido, le carte e le telefonate dei cretini che chiamano in studio».
«Se lo dite voi… Franco, attacca ’o telefono!».

Era teso come pelle di bue. Un Pellecchia-kamikaze pronto ad esplodere. Il passato davanti agli occhi, il futuro celato sotto quelle vesti sgargianti.
«Pronto, Amicamaga? Sono Antonietta».
«Qui è la tua Amicamaga. Dimmi il tuo problema e dammi il tuo cuore… Come ti chiami?».
«L’ho già detto: Antonietta!».
«Sì, scusami, amica mia, Mago Gen… generalmente la tua maga sta sempre attenta, ma oggi mi sento debole, sarà il virùs dell’influenza… E a proposito di influenza, vediamo come le carte interpretano il tuo piano astrale».
«Nooo, io voglio sapere del piano di sopra, casomai. Quello Gaetano sono sicuro che se la intende con quella vajassa del terzo piano. Chella zoccola! Allora, ’o ’nnammurato mio tornerà da me?».
«Adesso vedo nelle carte. Il futuro sta nel dubbio, e solo noi maghi possiamo vederlo, ricordate. Adesso vado a spaccare il mazzo di carte e vediamo che…».

La frase rimase appesa nell’aria perché un grido belluino echeggiò nello studio, raggelando gli astanti: nell’incavo della porta si stagliavano due figure fuggite dal Tartaro, o quantomeno partorite dalla follia tenebrosa di uno scrittore in overdose.
Era la donna cannone, accompagnata da Igor-Adelaina. Gli occhi di bracia erano due tizzoni ardenti nella penombra.
«’Stu scurnacchiato, mo’ t’ ’o spacco io, ’o mazzo!».
L’eco battagliero della Bufalini risuonò tronfio colpendo in pieno petto l’impostore che l’aveva accoppata, usurpandole il trono. Evidentemente era riuscita a liberarsi attirando l’attenzione della racchia che le stava al fianco, uggiolante come un cerbero ammaestrato. In mutandoni e reggimeloni, nella sua oscena nudità era entrata di corsa danzando, in un tripudio di ciccia ballonzolante.
Sembravano appena scappate da una cattedrale neogotica: il golem gigantesco e il gargoyle nanesco.
«Porca puttana!», proruppe Gennaro, e furono le parole più sensate che riuscì a pronunciare.

Un vortice di fuoco, accadde tutto in un momento.
Come un rugbista folle, il Pellecchia si gettò nella mischia: rovesciò il tavolino sulle spoglie del povero Massimo, rifilò una gomitata alla vecchia sdentata, staccandole di netto l’ultimo incisivo, e con una spallata spinse via la grassona desnuda, che rovinò sulla scenografia michelangiolesca. Tra quel Botero urlante e il Michelangelo di cartone non ci fu partita: la donna travolse il cartonato che si andò a schiantare su due tecnici che nella baraonda generale cercavano di capire chi doveva menare chi.
«Pronto?! Pronto?! Ma che succede? Amicamaga, mi sentite?».
Nessuno che se la filasse di striscio, e la povera Antonietta, affranta da cotale indifferenza, mise giù il ricevitore, non prima di aver mandato tutti affanculo.
«Dove cazzo sta l’uscita?», ansimava Gennaro, disperato come un criceto in gabbia e con un pezzo di groviera da qualche milionata nascosto nella gualdrappa kitch. Finalmente una luce in fondo al tunnel. Spinse il maniglione della porta e si catapultò fuori.

L’appuntato Di Renzo non credeva ai suoi occhi.
Stava fermo al posto di blocco, inchiodato dallo stupore, con la paletta stretta in mano a mò di scettro, non sapendo a cosa imputare quella processione schizzata di maschere carnevalesche rotolata fin lì. Rio de Janeiro non era mai stata così vicina.
Una donna. No: a guardare meglio, era un uomo vestito da donna, e correva come se avesse il pepe al culo, inseguito da un corteo indemoniato di figuri vagamente incazzati.
«Ispetto’, ma oggi è Carnevale?».
Il viceispettore Tommaso Esposito, detto Tommy Seduto per la peculiarità di dormire più ore nell’autopattuglia che nell’alveo smollato del suo baldacchino, sbadigliò cavernoso, con gli occhi cisposi e mezzo incollati. Il sonno dei frusti.
«Di Renzo, ma sei scemo? Stiamo a novembre, come fa ad essere Carnevale?».
«Ecco, appunto, ispetto’. Allora mi sa che dobbiamo intervenire. Ho appena visto un uomo correre via, tutto vestito da femmina, inseguito da una folla invasata e minacciosa».
«Ma minacciosa quanto?».
«Abbastanza da scuoiarlo vivo, credo».

Fiato corto, vista lattiginosa, un martellamento alla carotide, Gennaro era un maratoneta scadente: sudava come un tacchino nel microonde, il trucco da battona stava raggrumando sulla ghirba, catrame bavoso che gocciolava giù, alla base del collo. Quegli assatanati non lo mollavano, rosicavano polvere e cemento ad ogni piè sospinto. Gettò palandrana e panza finta alle ortiche, scartando di lato, sperando che un tir travolgesse quel carrozzone al seguito. La coca se la teneva stretta, non sarebbe stato saggio liberarsene.
Finalmente il gruppo d’inseguitori mollò la scia. Sfinito, con un ultimo scatto s’eclissò in un vicolo anonimo, panni ben in fila agli usci bassi, facce biliose alle finestre. Ce l’aveva fatta davvero: d’ora in poi solo mare, sabbia, donne belle come sirene! Già, una sirena. Blu lampeggiante. Il suo canto straziante. E si stava avvicinando. Gennaro si girò come un’istrice, stralunato e sfinito: una fottutissima volante della Polizia lo stava inseguendo. Tentò l’ultimo allungo, il balzo estremo, ma non ci fu tempo per rifiatare: l’auto si fiondò in picchiata e un solerte figlio di madama lo raggelò con una sportellata al basso ventre.
«Stai fermo, stronzo – urlò quello, puntandogli la pistola a un centimetro dalla faccia –. Non fare un passo!».
«Bella mossa, bravo Di Renzo!».
«Grazie, ispetto’. L’ho visto fare una volta in Miami Vice, non mi perdevo una puntata».

Muoversi? E come faceva? Quel bastardo lo aveva menomato, le palle ridotte a colibrì, un ronzio in sottofondo, sangue copioso a fiottare dalla proboscide. Fuori discussione una fuga alla Papillon, faceva fatica a respirare, figuriamoci a reggersi sulle gambe. La stazione eretta era l’ultima fermata disponibile. Forse stava per partorire. Forse s’era semplicemente pisciato addosso. Cercò di afferrare la cocaina sottovuoto, ma le mani arrancavano, stringendo bolle d’aria. La neve s’era sciolta per davvero.
«Coca… coca…», vaneggiava, annaspando per terra.
«Di Renzo, secondo me l’hai colpito troppo forte, questo s’è scimunito proprio».
«Eh, ho esagerato, ispetto’, ma quando mi ricapitava un’occasione così?».
L’appuntato stava per ammanettarlo, quando un ufo sparato da un discobolo attirò l’attenzione dei due, atterrando sulla pantera sotto la sirena: sul cofano della macchina c’era un guanciale.
«Cazz’è? Ispetto’, ma è vostro ’sto cuscino?».
«Di Renzo, ma ti sei bevuto ’o cervello? Secondo te quando sto in servizio mi metto a dormire?».
«Lasciamo perdere, ispetto’…».
Di Renzo mollò la presa, e il Pellecchia s’afflosciò. Dal cuscino si sfilò la federa e la coca biancheggiò nel sole: nonostante il volo non aveva subito danni. Quando si dice la fortuna.
«Uh Maronna, ma questa è droga! E qua ce ne stanno almeno tre chili! Questo stronzo sarà un trafficante internazionale. Saremo famosi, ispetto’, ci premieranno a tutti e due. Avanzamento di carriera per merito speciale!».
«Hai ragione, Di Renzo. Ammanettiamolo, che questo sarà pure ricercato. Magari è colombiano. Guarda che faccia da sudamericano! Che a me mi stanno pure sul cazzo dai tempi di Maradona!».
«Ma perché non tifavate Napoli?».
«Di Re’, ma qua’ Napoli, vuoi mettere con la mitica Spal di Dell’Omodarme e Massei? Figlio mio, e che vuoi capire tu di pallone?».
Il giovane poliziotto scrutò l’omologo in divisa, ma non riuscì a ribattere nulla perché Gennaro gli sfilò la pistola con una zampata.
«Fermi, non fate cazzate e ne uscirete vivi!».
«Stai calmo, non t’agitare, cerchiamo di non fare stronzate. Mica vuoi peggiorare la situazione? Da bravo, dai la pistola al mio collega. Di Renzo, adesso il signore ti dà la pistola, non è vero?».
«A Di Renzo al massimo do questo – disse Gennaro, mollandogli un calcio sugli attributi –. Ecco, così siamo pari. Tu come ti chiami?».
«Sono l’ispettore Esposito. Ti consiglio di non…».
«Muto, panzone! Passami la busta di coca e non fare il coglione, che se no vi faccio un buco in più a tutti e due. Magari a te fa pure comodo un bucherello per la cintura, così non ti stringe troppo, eh? Facciamo un bel gioco: voi adesso vi inchiodate a questo palo qua, io me ne vado tranquillo con la mia roba e nessuno ci rimette niente, ok?».

Tono risoluto, da pistolero cazzuto, la voce che non tradiva la minima emozione. Mantenendo il sangue freddo, Mago Genny li ammanettò entrambi come salamelle.
«Non volevate finire sui giornali? E state sicuri che una bella foto di voi due abbracciati qualcuno la pubblicherà, diventerete famosi… Mi fermerei volentieri a fare altre due chiacchiere ma è meglio andare, non è sicuro camminare con tutta questa roba in mano, potrebbe arrivare la Polizia».
Detto questo, si allontanò di gran carriera, mentre una risata beffarda s’allargava tra le brecce dei vicoli, sfumando in dissolvenza.

«Di Renzo, come stai?».
«Eh, male, male assai, ma sta passando… Ispetto’, e mo’ come la spieghiamo questa figura di merda?».
«Nun ce penza’, figlio mio, nun ce penza’. Piuttosto, ce la fai ad allungarti e prendere il cuscino?».
«Penso di sì, ma ormai la droga se l’è portata via, a che vi serve?».
«Me fa male ’o culo, me lo voglio mettere sotto, così sto più comodo…».
«Ispetto’…».
«Che c’è?».
«Fatemi una cortesia…».
«Eh, quale?».
«Andatevene affanculo!».

Strada deserta, tutto quel frastuono nella testa, e il suo sogno ancora intatto: l’adrenalina pompava sangue al limite, le arterie erano sifoni intasati, era morto e risorto, e tutto nell’arco di dieci minuti. Come minimo gli davano una ventina d’anni per il giochetto tirato a quei due. L’avrebbero lasciato in cella a macerare nella sua stessa lordura per il resto della vita. O forse no.

Il segnale dava libero.
«Pronto! Ma chi è?».
«Il Mago Zurlì… Tonino, sono io, Gennaro. Sentimi bene: sono riuscito a recuperare la cosa… Adesso non ti posso dire quello che ho passato, ma devi salvarmi il culo. Vienimi a prendere!».
«Ok. Stai calmo e non dare nell’occhio».

La Tempra a targhe false sfilava grigia, e l’amico non faceva domande. Macinavano chilometri, la meta non aveva importanza. Gennaro cominciò a rilassarsi. Di Polizia in giro neanche l’ombra. E del resto cosa doveva temere? Era al sicuro, protetto dall’anonimo reticolato viario dell’hinterland metropolitano.
«Permaflèx, pensavo che non arrivassi più. Roma è lontana per un pellegrinaggio a piedi».
«Roma?».
«Ho pensato di nascondermi nella capitale per qualche giorno, aspettare che si calmino le acque, per piazzare la coca in un posto meno caldo. E poi i voli internazionali partono tutti dall’Urbe, no?».
L’amico sorrise, guardando fisso Gennaro, la testa deforme nelle lenti scure. Occhi poco amichevoli i suoi.
«Buona idea. Magari potresti fermarti a Napoli, però, potrei aiutarti io con la droga. A proposito, dove l’hai messa?».
«Al sicuro, nel santuario della mia virilità».
«Dove?!».
«Nelle mutande, Toni’, nelle mutande!».
Cacciò la busta dai pantaloni, ancora intatta. Era così morbida che veniva voglia di dormirci sopra.
«Porca vacca! Non mi ricordavo che fosse così tanta. Eh, ma a questo punto sorge un problema…».
«Che problema?».
«Beh, vedi, il tuo piano è buono, può funzionare, ma credo che il nostro sia meglio».
«Cazzo vuoi dire? Nostro di chi?».
«Mio. E della mia amica Beretta».

Quel bastardo d’uno Iago non scherzava. Impugnava ben stretta la pistola, tenendola premuta sul torace ansimante di Gennaro. Un colpo da quella distanza e il suo piccolo cuoricino avrebbe preso il volo, scagliato in orbita e senza speranza di rientro alla base.
«Vedi, maghetto, è vero che ci conosciamo da un po’, ma se devo scegliere tra te e un mucchio di soldi, io non ho dubbi. Sarò un sentimentale, ma scelgo i quattrini».
«Non scherzare, Toni’… Aspetta, cerchiamo un accordo, ci deve essere per forza una via d’uscita, no? Siamo pur sempre due persone ragionevoli, cazzo!».
«E hai ragione. La soluzione è semplice, senti come fila il ragionamento: io ti sparo, tu muori. La tua via d’uscita è anche la più facile da percorrere. Non volevi sparire per sempre?».
«Non mi sembra la soluzione migliore per la mia salute. E se facessimo a metà? Piazzandola bene, ci ricaviamo almeno un centomila euro a cranio, forse anche di più!».
«Ma non lo sai che c’è l’inflazione da euro? E che ci facciamo con quattro spiccioli a testa? Ci cambio la macchina, e poi? Spiacente, ma per il mio bene tu devi tirare le cuoia. Addio, cazzaro!».
«Attento, la Polizia!».
«Merda!…».

L’attimo d’incertezza fu fatale all’altro: il Pellecchia con un pugno a molla gli fratturò il setto, deviandogli il colpo. Il proiettile sibilò accanto, frantumando il finestrino alla sua destra. I frammenti impazziti accecarono Tonino, e l’auto saltò tre uscite di fila con un salto carpiato. L’urto fu violento, la Tempra decollò sfondando il guardrail. Un folle rally che finì la curva a gomito in uno sterrato fangoso, piantando il muso dell’auto contro un platano secolare. Ma non prima di aver travolto una baracca di lamiere che doveva fungere da pollaio, almeno a giudicare dal fatto che i due uomini si ritrovarono in compagnia di una mezza dozzina di gallinacei starnazzanti. Anche i pennuti parteciparono alla disfatta, avvolti in un polverone ovattato di cocaina purissima. E se prima Mago Genny aspirava a un futuro migliore, adesso se lo stava pippando. Se non altro non sentiva alcun dolore, con tutta quella droga in corpo.
Rumori indistinti, suoni lontani, voci di donne e bambini. Il battito forse stava accelerando ma non ne era sicuro. Non era più sicuro di niente. Sentiva il sangue colargli sugli occhi, era come un bovino nella plaza de toros, aspettava il matador che menasse il fendente final. Poi il suo corpo divenne leggerissimo, si librò in aria, come novello Cristo in ascensione, mille mani a sostenerlo, una luce che avvolgeva tutto, calda e autunnale.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare, scivolando nel buio.


Una settimana dopo…

Il terminal era spettrale, i neon faticavano a carburare. Dopotutto erano solo le cinque e venti, prima mattina. O meglio, primera mañana. Oramai coi travestimenti ci aveva preso gusto, adesso sotto una cascata di capelli spioventi e corvini e due baffoni a setola di cinghiale s’intravedeva il profilo spagnoleggiante di Alfonso Pelechia de Tortillas. Nome di merda, in effetti, ma non l’aveva scelto lui. Tutto sommato, poteva andargli peggio.
La stessa cosa non poteva dirsi per l’amico Permaflèx. Il volo del calabrone era stato fatale: adesso era cibo per i vermi, l’avevano seppellito con tutta la macchina, tre metri sotto terra, le budella vermiglie a scaldare il metallo della cassa.
La vita da emigrante non era il massimo, ma sicuramente meglio di quella cimiteriale.
Lo schermo ultrapiatto proiettava immagini catatoniche a getto continuo. Il volo per Cancun era prossimo al decollo. Gennaro buttò uno sguardo distratto alla sua faccia riflessa. Miseria, con tutte quelle lampade pareva una camilla annerita. Nervoso, accese una sigaretta, lo sguardo sulla pista: il cicognone di metallo era lì ad attenderlo. Poi l’Atlantico e infine il Messico soleggiato ed arso. Una vita da gringo.
«Non lo sai che il fumo uccide?».
Il freddo mortale d’una canna mozza alla schiena lo strappò ai suoi pensieri, precipitandolo nell’orrore. Merda, ’o Monacone l’aveva trovato! E come cazzo glielo spiegava a quello psicopatico che la coca era concime per polli?
«Monaco’, aspetta, ti spiego tutto. Tu però tranquillo, eh?».
La sagoma incappucciata gli fiatava sul collo. Un odore pungente, forte. La morte s’era messa in ghingheri. Un profumo corposo, vagamente orientale. E femminile. Giusy! La donna liberò la chioma fatale, scoprendosi il volto. Che paracula.
«Genna’, ma un rossetto alla schiena fa ’st’effetto? Ammazza che figo, pari il sergente Garcia!».
La faccia a betacarotene era tirata come un mocassino, il cuore stava ancora al piano di sopra, martellandogli la strozza.
«Ma che cazzo, Giusy! Ancora un po’ e mi pisciavo addosso. Ma come sapevi che io…».
«La puzza di cialtrone non te la lavi mai via, e poi sei bravo solo a scappare, qua dovevi capitare. Per non parlare di un caro amico alla security che teneva d’occhio tutti i voli per il Sudamerica. Anzi salutalo: è quello alto e pelato laggiù».
Un omone con la faccia da Costanzo ebete lo salutava con la manina, ridendo a ganascia.
«Stronza… E adesso che pensi di fare, venire in Messico pure tu, a fare la fame?».
«Beh, in Messico di sicuro, ma il pezzente come ruolo riesce meglio a te. Se poi non vuoi aiutarmi a piazzare un po’ di questa polvere magica, fatti tuoi».
Detto ciò, si scoprì la scollatura: tra i seni gonfi e sodi galleggiava una busta bianca. Sui promontori era caduta la neve.
«Maronna mia! Ma questa è cocai…».
Uno schiaffo a rovescio lo riportò nei ranghi.
«Zitto, coglione! Cosa credevi, che mi limitassi a pipparla soltanto, la tua polvere? Una striscia a me e un’altra la conservavo, una a te e un’altra al fondo pensione… M’hai sempre sottovalutato, io ero quella buona a scopare e basta».
«No, sono io quello inutile, hai ragione… Non ho combinato mai una mazza nella vita. Solo imbrogliare, solo fottere!».
«Smettila, scimunito. E comunque a fottere non sei niente male – gli strizzò l’occhio lei –. E adesso prendi il trolley e muovi il culo, che non voglio perdere l’aereo».
La voce della donna incominciò a rimbombargli nella testa: la sentiva amplificata, lontana. La testa non accennava a star ferma; girava, girava e girava come una trottola impazzita. Vedeva il suo passato in bianconero, una cartolina sgranata tra le mani, quella chioccia della moglie, Tonino abbracciato al Monacone, e poi un enorme bufalo con una vecchia rancida a cavallo, un topo bisunto e una palla bianca a rotolar veloce, come per magia. E su tutto un sedere zebrato a sculettargli davanti, in perfetta sintonia col trolley tigrato.
«Arrivati in Messico le comprerò un cazzo di vestito», pensò il Mago, cingendole i fianchi corposi.
Il sole era sorto, finalmente. Uno spicchio indisponente a velare l’infinito.
Primera mañana.




Fine

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