"Cos’è una città? Ve lo siete mai chiesto? E’ un agglomerato di mura e mattoni, palazzi e strade, cemento e monumenti? Oppure, oltre ad essere un luogo fisico, è “anche” una costruzione metafisica al contempo? Non è forse un “corpus” unico di relazioni e passioni, tradizioni e tradimenti, sorrisi e tormenti?
Se la città è questo “unicum”, questo terreno fecondo, l’ humus primigenio da cui si generano ed accrescono le umane vicende, allora Napoli è “cosa umana” per eccellenza, è frutto prelibato e privilegiato della socialità e della cultura che ogni uomo può e deve esprimere. Napoli come ombelicus mundi delle passioni viscerali, dei tormenti e delle epifanie di un popolo complesso che da sempre si dibatte in sé stesso, avviluppato in logiche politiche e sociali che paiono sempre più marginali, ed incapaci di arginare il Mare Magnum di una indifferenza civica che rasenta ormai il qualunquismo più bieco e menefreghista. Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui i fregi delle statue e gli stucchi delle vie rilucevano al sole d’una capitale monarchica e millenaria, di matrice e stampo illuminato, di specie illuminista, in definitiva europea: c’è stato un tempo in cui questa metropoli possedeva un’anima feconda ed avanzata, tale da poter rivaleggiare con le altre gran dame d’Europa; le vesti sgargianti, il passo sicuro, incedeva maestosa nelle sale barocche del Gran Ballo della Storia, rilucente e regina, lo sguardo teso verso una gloria terrena che mai più riuscì a sfiorare. Quasi tre secoli son trascorsi da allora, il Settecento s’assise sul suo trono regale, quietando il suo spirito, assopendosi tutto, in un ozio mortale che s’impresse nel cuore e nella mente di una Napoli non più padrona del suo destino. Ed oggi? Lo sguardo della Gorgone ci ha a tal punto pietrificato? A tal punto il remo d’Ulisse s’è infisso nel tufo ambrato delle cave greche, delle mura angioine e dei palazzi nobiliari? Uno stato comatoso che si protrae nell’abbandono dei luoghi, nell’incuria delle vie, nella solitudine dei vicoli, nell’ombra marmorea delle chiese: un cupio dissolvi, horror vacui dell’anima un tempo feconda, di una città che dal mare spumoso nacque e che nei gorghi di un presente paludoso di sabbie e veleni rischia di affondare. E nessuna mano si palesa all’orizzonte, tesa nel soccorso, c’è solo la nostra ombra che s’allunga nel meriggio inquieto d’una notte tentacolare, oscura e silente come l’abisso del mare profondo. Allora, quali le speranze? Quali le soluzioni per una Napoli nobile decaduta, di antica dignità signora, e di cui s’ignorano ancora colpevolmente le potenzialità inespresse? Prenderemo ad esame un segmento topografico ben preciso, un tassello chiave per ricostruire per intero il mosaico partenopeo nella sua complessità metropolitana: la nostra analisi partirà dal celebre Museo Archeologico Nazionale, percorrendo tutta la direttiva viaria, e si concluderà nella piazza dedicata ad uno dei regnanti più amati dal popolo napoletano, Carlo III di Spagna, semplicemente Re Carlo per i Napoletani di qualche secolo orsono.
Il Museo, quel che un tempo era il Palazzo degli Studi, s’erge maestoso alla punta della via, anzi del Viale di Foria, scrigno Farnese e di classiche vestigia, voluto fortemente dai Borbone, perché Napoli rivaleggiasse con Vienna, Parigi e l’Europa tutta, senza timore reverenziale: un monumento che s’imprime nello sguardo del turista e nel quotidiano e frettoloso incedere dei napoletani d’oggi, che rincorrono il tempo senza afferrarne mai la coda. Speculare ad esso è la Galleria del Principe di Napoli, sorella minore di quella ben più salottiera (almeno nell’immaginario oleografico e da cartolina) e tagliata su misura per quell’ “Umberto”, Re Savoia della Partenope monarchica; la “Piccola”, costruita sul finire del secolo XIX, fu una dei primi edifici ad intessere una trama di vetro su un’anima di ferro, marmi e stucchi che si rispecchiano in un Liberty d’antan, che negli anni prese piede nelle vie chic e alto borghesi della città. Il progetto unitario del Viale di Foria, la cui toponomastica è da ricercarsi nei nobili casati del tempo che fu, e precipuamente in quello dei principi Caracciolo di Forino, che nella zona possedevano beni immobili e terre a coltivazione, vide la luce ai Lumi del Settecento, con l’avvento sul trono napoletano del nobile Re Carlo, che avviò un rinnovamento culturale ed urbanistico senza pari, rivoltando l’ex vicereame spagnolo come un pedalino merlettato. Sorsero dal nulla monumentali complessi rosso pompeiani, di bugnato e tufo inghirlandati, promenades illuminate ad olio, ville e camminamenti di pubblico dominio: Napoli s’apriva al mondo europeo ed internazionale, pur conservando intatte le sue contraddizioni e i chiaroscuri così cari a viaggiatori e letterati d’Oltralpe; se ne leggono di bozzetti al riguardo, dall’americano Henry James, passando per il sarcasmo tipicamente British di Oscar Wilde, per finire al fantasioso virtuosismo barocco del francofono Dumas. Napoli da sempre ha attirato lo sguardo dei popoli come fosse una maledizione: forse l’invidia, forse l’incomprensione, fatto sta che lo straniero nei nostri confini si sente padrone di cantarcele sempre quattro, come se non fossimo da sempre bravi a cantarcele da soli! Tralasciando le beghe letterarie, continua la nostra promenade verso l’attuale Piazza Cavour (che immancabilmente, nel gergo più comune diviene “Càvour”, l’accento retrattile, come sfregio felino sulle rotondità savoiarde dell’esimio Camillo), nella quale ci si trova scissi e frastornati: alla nostra sinistra le meraviglie barocche del Seicento fruttuoso, la chiesa domenicana della Madonna del Rosario, detta del “Rosariello alle Pigne”, con la sua doppia facciata di stucchi eburnei; alla nostra sinistra, una colata di cemento armato di foggia rettangolare, un casermone frutto della rapacità imprenditoriale e del malgoverno laurino del secondo dopoguerra: l’edificio, costruito per ospitare moderne sale operatorie, strutture amministrative e logistiche dell’ospedale degli Incurabili, non servì mai all’uopo e da decenni ospita un comprensorio scolastico di vari indirizzi didattici. Il ciclope incombe maligno sull’emiciclo della piazza, oscurando i resti murari della Neapolis del V secolo a.C., e togliendo aria alla collina degli Incurabili alle sue spalle: il progetto di recupero urbanistico, che contava di ripristinare l’antica destinazione murattiana di villa e giardino pubblico, rimane lettera morta, mentre il sepolcro imbiancato ci guarda altezzoso, indifferente alla sua deformità architettonica.
Ma non è l’unica aberrazione urbanistica che incontriamo sul nostro cammino, quasi che la Dea dell’Armonia fosse vilipesa con dolo razionale da Tiresia ciechi e senza il dono della preveggenza: uomini indifferenti alla plasticità perfetta degli antichi, che l’arrivismo rampante di anni convulsi rese orbi ed arroganti. La chiesetta neoclassica di Santa Maria delle Grazie è sprofondata tra due faraglioni di cemento armato, che come due corazzieri implacabili la scortano dagli anni del dopoguerra; il complesso pare quasi soffocare, una prece silente che nessuno ascoltò mai, che non impietosì di certo i costruttori e gli affaristi del tempo. Sulla stessa direttiva s’apre l’antica Porta San Gennaro, uno degli innumerevoli portali in piperno del periodo vicereale, affrescata con perizia dal calabrese Mattia Preti, in occasione di uno dei pestilenziali flagelli che s’abbattevano con regolarità circadiana sulla sventurata Partenope; alla base dell’affresco è assiso un San Gennaro marmoreo che benedice la cittadinanza. Nello specchio della porta s’intravede lo spicchio dell’antico complesso monastico di Gesù delle Monache, con l’elegante facciata di piperno a doppio vestibolo tipico del Seicento barocco napoletano: la chiesa è un gioiello di fregi e decorazioni, al suo interno vi sono le opere delle grandi firme dell’epoca, quali il Solimena, Luca Giordano, il Vaccaro, il de Matteis; il monastero s’ allunga poi su via Settembrini, dove l’antico ed il moderno si tendono la mano, in una contiguità muraria tangibile, oltre che figurata. Il MADRE svetta signorile e compatto tra stradine che un tempo risuonavano dei canti antichi e delle urla sguaiate di un popolino signore indiscusso dei vicoli: il museo è stato inaugurato nel duemilacinque nei locali di quello che nell’Ottocento era il convento di Santa Maria di Donnaregina, e che fu in parte ridimensionato per l’ apertura della Via del Duomo, cardine principale che collegò il Settecentesco Viale di Foria con la zona portuale. Arte concettuale, Dada, Pop Art, Minimalismo, hanno trovato una casa feconda in cui svelare sé stesse ad un pubblico di cultori o semplici curiosi: numerose le opere ospitate, tutte ascrivibili ad artisti di fama internazionale ed indiscussa, quali Kounellis, Koons, Paladino, Kapoor, la Horn, eccetera. Continuando il nostro iter per il Viale, tornando per un momento all’intersezione di Via Duomo, davanti ai nostri occhi si staglierà il Palazzo dei Busti dell’architetto Schiantarelli, lo stesso cui si deve l’armonizzazione del Museo Archeologico con i dettami funzionali e decorativi dell’epoca: l’edificio, abbellito con busti in marmo di pregevole fattura, fronteggia l’ennesimo monstrum sorto dal marasma degli anni post bellici, il grattacielo Ottieri, una follia di cemento armato alta quanto un transatlantico, nel pieno centro della città. Ancora frastornati dal caleidoscopio architettonico che ci si para innanzi, e che frammenta le dinamiche urbanistiche in isole a mosaico di diversi generi e stili, sulla prosecuzione del Viale di Foria ci imbattiamo nella chiesa secentesca di San Carlo all’ Arena, con l’annesso convento circestense oggi sede di comprensori scolastici. La chiesa prende il nome dalla rena che anticamente si riversava a valle dei Vergini, nei giorni di acque torrenziali, trascinando seco argilla e masserizie d’ogni sorta, un fenomeno visibile fino agli inizi del Novecento, annoso tormento per gli abitanti dei bassi, per le matrone dei vicoli che si dannavano l’anima per tenere l’acheronte fangoso fuori dei loro usci, armate di ramazze e scopettoni di stracci. Più avanti, sulla nostra destra, si noteranno due bastioni imponenti, le Torri Aragonesi, o meglio quel che delle torri resta, nella sola base dei due maschi, che cingevano l’angolo a nord del perimetro murario ai tempi Angioini ed Aragonesi: nel Seicento le spesse mura di piperno furono inglobate nel convento dei Padri Agostiniani di San Giovanni a Carbonara, che si fregiò di aver tenuto a battesimo intellettuali ed umanisti di pregevole ingegno, quali il Pontano e Jacopo Sannazzaro. Al principio del secolo XIX, a seguito delle nuove ordinanze napoleoniche che sopprimevano gli ordini religiosi, i frati lasciarono la costruzione, che fu riconvertita ad uso militare e paramilitare: fino alla prima metà del Novecento, il complesso ha ospitato la caserma Garibaldi, che ad oggi è la sede dei giudici di pace. Ogni mattina sciami d’avvocati calano in zona per attendere ai loro uffici, e la viabilità ordinaria ne risente, ingolfandosi e enfiandosi come un fiume in procinto di tracimare. Siamo infine giunti all’ultimo tratto del Viale di Foria; ai lati della via si stagliano, maestosi, palazzi nobiliari che sfidano l’incedere del tempo, aprendo lo sguardo ai fasti borbonici dell’Orto Botanico e del Palazzo dei Poveri, il Real Albergo voluto fortemente dalla consorte di Re Carlo, Maria Amalia di Sassonia. Alla nostra destra Palazzo Ruffo di Castelcicala, dall’elegante facciata neoclassica , tre portali che ne disvelano gli androni di spazi e di luce, le scale squadrate che s’arrampicano al cielo come in un quadro di Escher, marmi d’ un lucore accecante, stemmi e stucchi che scrutano il viandante dall’alto della loro gloria passata. All’incrocio del Viale di Foria con via Pontenuovo, gettando uno sguardo all’interno del reticolo viario si scorgerà la residenza dei Principi Caracciolo di Forino, ramo blasonatissimo della famiglia Caracciolo, che nella zona possedevano sfarzosi palazzi e financo il loro sepolcro nel convento di San Giovanni a Carbonara. Da loro infatti prenderà nome il Viale che ci onoriamo di percorrere. Le traverse adiacenti, sempre sulla nostra destra, celano i fasti e le assi polverose di due tra i più celebri teatri di Napoli, il Totò ed il San Ferdinando: soprattutto il secondo, l’“Elicona” delle muse che ispiravano Eduardo De Filippo, monte sacro della tradizione napoletana, ha avuto un passato travagliato ed il suo futuro non appare ancora del tutto chiaro. Distrutto dai bombardamenti alleati nel settembre del ’43, il teatro fu ricostruito fedelmente, asse dopo asse, putrella dopo putrella, fino ad alzare il sipario a metà anni Cinquanta, tenuto nuovamente a battesimo dal suo vate indiscusso, quell’ Eduardo che a Napoli vide la luce e a cui di riflesso donò il cuore e l’anima, ma soprattutto la voce. Attualmente il San Ferdinando ha ripreso gli spettacoli, e fa parte del circuito del Teatro stabile comunale, assieme al Mercadante. Ed eccoci infine giunti innanzi a d un monumento storico senza pari, quell’Orto Botanico tra i primi d’Europa per la sua centralità scientifica e per lo studio delle biodiversità vegetale, fondato nel 1807 dal Re Bonaparte, su un pregresso progetto Borbonico: naturale evoluzione di quegli “Orti dei Semplici” di fattura monastica, pregevoli esempi di una scienza e d’una coscienza empirica in progressione, in cui si portavano a coltura erbe e piante medicinali d’ogni sorta, l’Orto fu voluto fortemente per innovare la ricerca medica sul campo, con lo studio della biosfera vegetale assunto come paradigma del fertile momento che le scienze tutte vissero nel Secolo dei Lumi. Non che a Napoli non vi fossero isole felici dove si coltivassero piante ed alberi da fusto, ma erano appunto insulae private, oasi fugaci e semi-clandestine in cui lo studio dei pochi si contrapponeva all’ignoranza dei più: esempi in merito furono il cosiddetto “Giardino della Montagnuola” del dotto Pinelli, sito sulla collina dei Miracoli, oppure la “Villa delle Due Porte”, sulla prospicienza del Vomero, di proprietà dell’ottimo Gian Battista della Porta, o per finire, il giardino botanico della Carbonara, del Niccolò Cirillo, avo del più famoso Domenico, scienziato e martire della furia Borbonica susseguente alla Rivoluzione del 1799. Esempi di una curiosità intellettuale a macchie, miceti sporadici che pian piano colonizzarono il fertile humus partenopeo, instillando il daimon della ricerca scientifica, pungolando le menti degli studiosi del tempo, e che diedero come frutto eccelso proprio la costruzione di un Orto Botanico Reale, dove lo scambio culturale e d’informazioni non trovasse ostacolo alcuno, ma anzi fosse un tempio laico sotto cui trovare ricetto e conforto. La progettazione architettonica dell’ Orto risente di vari influssi, ma la facciata a doppia rampa la si può con certezza ascrivere alla matita dell’ottimo Giuliano De Fazio, che realizzò anche alcuni dei viali interni del giardino; nei secoli passati l’Orto fu aperto al pubblico, e rivaleggiava con la Riviera di Chiaia e la Villa Comunale col suo stile liberty: le famiglie borghesi e gli artigiani del rione della Sanità, le popolane chiassose, del “Buvero” matrone indiscusse, si ritrovavano nella torma domenicale, perse nel cicaleccio festoso dei giorni sonnacchiosi, passeggiando a braccetto sulla Terrazza Carolina, camminamento panoramico prospiciente il Viale di Foria. La via che porta alla chiesa di Santa Maria degli Angeli alle Croci, così appellata perché anticamente v’erano infisse delle croci ai lati della stessa (simbolo di pietas e monito del Golgota), porta ancor oggi il nome del primo direttore della serra botanica, quel Michele Tenore che ne serrò le redini fino all’Unità d’Italia, contribuendo non poco alla diffusione delle scienze biologiche nel Regno di Napoli. Pochi metri più innanzi s’erge il monumento più significativo e “disgraziato” dell’intero Viale, quel Real Albergo dei Poveri che dalla sua fondazione ad oggi, ha conosciuto un destino tormentato e peregrino, e che da trionfale porta d’ingresso della città per chi discendeva dal belvedere di Poggioreale, s’è trasformata in labirinto informe, in cui il minotauro napoletano s’è smarrito, rimanendo appeso al filo della speranza, nell’attesa che un giorno la sua dimora risplenda come allora, ancora una volta.
Certo il vecchio architetto Ferdinando Fuga aveva fatto le cose per bene, non risparmiando se stesso, né lesinando energie; e lo stesso dicasi per il buon Re Carlo, che allargò i cordoni della borsa oltre misura, pur di realizzare la sua utopia popolare, dando ricovero ai diseredati e agli accattoni del Regno intero; ed il suo sogno vide finalmente la luce nel 1819, quando fu posta l’ultima pietra a compimento del monumentale sforzo urbanistico: nel momento di massima espansione demografica della città, l’Albergo arrivò ad ospitare circa duemila reietti, che furono avviati all’insegnamento di un qualsivoglia mestiere che restituisse loro dignità e rispetto. Da allora l’edificio ha ospitato ogni sorta di iniziativa didattica, laboratori artistici, associazioni polisportive, e quanto di più fantasioso abbia mai partorito mente umana. Fu il terremoto del 1980 a segnare la fine del più grande ricovero mai costruito: le scosse telluriche diedero la spallata finale ad un edificio già gravemente danneggiato dall’usura del tempo e dalle bombe a grappolo piovute dal cielo nelle notti senza luna, quando l’unico canto che s’udiva sul mare, era quello delle sirene antiaeree che preannunciavano una pioggia di fuoco dall’esito incerto".
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