martedì 18 novembre 2014

METTI UNA SERA A TEATRO...




“Francischiello – un Amleto Re di Napoli”, di e con Carmine Borrino, dal 13 al 16 novembre al Nuovo Teatro Sancarluccio.

Napoli - “Essere o non essere”. Atavico è poi il dramma, diuturno ed imperituro, infelice soliloquio d’un Re minuto, perché sfatto, ed assai frusto, svilito, napoletano borbone d’Elsinore, da Shakespeare a Re Bomba, a compatirne testamento: lustri secolari, le gentes son catene, ombre derelitte che avvolgono gli spalti, le mura ad egida e proscenio; è sicuro, certo e di vulgata, che “c’è del marcio nelle Due Sicilie”, e Francesco-Amleto pasce, immalinconito e stracco, finchè gallo intona, triste e pallida litania, al chiarore d’una luna rosso garibaldino, mentre il tradimento è lemure che scuote le sete e gli arazzi, al freddo smorto d’un esilio marziale, sullo scoglio derelitto di Gaeta. Regno di Sicilia, 1860: “Francischiello- un Amleto Re di Napoli”, epigono vinto dei fumi e dei rovelli di quel dannato Bardo, un teschio a rimembrare tra le palme, il nesso che gli sfugge: defunse il padre, ‘o Re Bomba, Ferdinando, defunse la  sua ratio, per mano del fellone, ‘o traditore, il sabaudo Vittorio Emanuele e le sue trame, con l’ordito di Camillo Benso Conte di, fino al file rouge di Don Peppino Garibaldi, a doppio ricamo con Don Liborio Romano, per dipanamento e disinvolta pugnalata; e allora dove per il danese era inganno e malia, sarrà “scimità”, finzione e ingannamento, con Francischiello e la sua Ofelia-Maria Sofia, a vorticare nell’ hellzapoppin ciondolante di tragedia sospesa, il Gran Consiglio che abballa, i sabaudi che incalzano, Garibaldi che scalpita e i francesi che s’incazzano, e i napoletani…i napoletani dispersi nella fanghiglia mota ‘ngialluta, perché ‘a scimità del Re è velo dipinto per celare nudità e peso di corona lavica, posata sul capo non per scelta ma per destino; per dissimulare che il Regno si frange ‘ncopp’ ‘ o scuglione ‘e Gaeta, la tolda del vapore s’inabissa, ed un Reuccio, vero, tradito ed allibito in scena, batte gli animi come fossero denti, impugnando bandiera per ultimo canto di fierezza e regale baldanza, per essere libero almeno una volta. Una volta soltanto.

 “Tinto di rosso, il mattino attraversa la rugiada, che al suo suo passaggio pare sangue”: i versi del drammaturgo Heiner Muller riflettono il dramma, dell’umana ridonadanza è la nuda verità, che basta la menzogna vermiglia, una singola stilla per vendersi e comprare, a scardinare un Regno intero, e questo è quanto; Francischiello-Amleto ne farà le spese, ammainando infine la sua bandiera, uomo tra gli uomini, perdendo il trono, ma serbando la dignità, nel nome suo e di suo Padre, spettro inquieto a dilavare nell’oblio.
Perfetto Carmine Borrino nelle vesti del Re transfugo da sé stesso, circondato da ignavia e sospetto, infangato dalla Storia, perché dello sconfitto è il grave danno, del portare il doppio segno, di perdente e d’ingiuriato; perché per reggere le trame altrui devi tramare a tua volta, sguainando menzogna in luogo di durlindana, “To be or not to be”, ed è ipnotico flusso di pensieri a rincorrersi, nessuna prece per un sovrano che fallisce la vendetta, solo l’ironia di un destino che si fece beffe dell’uomo, cullandolo ebbro,a rimirare il giglio svilito dei Borboni, ricamato in petto.
Spettacolo invero da rivedersi ad libitum, Borrino innesta la marcia del cunto teatrale su quello della Storia, scorre ironica e dolente la sua drammaturgia sui fasti d’un passato che i più vorrebbero incatramato nell’impasse, sperduto nelle nebbie d’un conformismo progressista che tutto annacqua nell’indistinto: plauso sincero per un attore-autore che ha saputo innescare la scintilla del Bardo sulle polveri borboniche d’un Francischiello scarpettiano dall’umanità sofferta e dubbiosa, spirito inquieto che mai si adattò ai suoi anni menzogneri, figlio d’un tempo che non seppe capirlo, giudicandolo senza appello.

mercoledì 30 luglio 2014

ROTTAMI


“Aver sfiorato tutte le forme della decadenza, compreso il successo” (Emil Cioran).



Rottami. Scheggiati, dirupati, smembrati, ferrosi, pur sempre rottami. E allora dirottami o Musa, o Maria Elena, ‘o musso sbatte e se schianta, contro ‘o scoglione d’Italique: guitti e quanti, troppi, a cascame, a cascata, s’infrattano decadenti, ammorbano l’alveo del nostro comune dissenso, a fermentare, in rotta finale, triste e solitaria verso la rottamazione definitiva, accompagnata dalle smorfie arlecchine a calambours di Rottamattore a mezzo stampa, perso tra fatati Boschi, sbrego stampato e ghirba furbetta, di chi maramaldeggia col sacco, dopo aver preso a calci sull’osso il gatto; e s’insacca la Concordia, tenuta a bada  a stento, galleggiando a cassone nei nostri steccati, dove latrati funesti echeggiano, spiaggiati moccoli da liquefare a fiato, che l’afa gira alla larga dalle estati a Belpaese, le coste son dirupo per Capitoni Coraggiosi, slavati in rive gauche o a tribordo pencolanti a vomitare, l’anima e le pudenda, mentre Capitan Cacasotto baleneggia in quel di Ischia, molle frappa a ristorasi, in attesa che i morti riemergano a sucutarlo, secula seculorum.


E siam preda e ostaggi, e di Balena Bianca nemmanco l’ombra, orfani del nostro Ishmael, che ci resta giusto qualche epigono piccino picciò svezzato a Fortuna, inteso come Ruota della, e a brodaglia berlusconiana targata ’80, paninaro provincialotto a svacantare pitali di pinacolada e cheese-burger  a chianina maremmana, un Pittibimbo-minkia per tutte le stagioni, e allora fuori dagli armadi il chiodo, teniamoci al massimo il martello per rottamare a cazzo e buttiamo alle ortiche la falce, che qualcuno era comunista, ma non guardate me, che negli scouts  persi la bussola dell’ideologia, smarrii il nesso dell’appartenenza, tagliai la coda alle lucertole veltroniane e dalemiane, e presi un partito semi-nuovo a soli euro due, portandolo in europa a più 40%: e mo’ so’ vostri, gli scazzi.


Parca trojka, che di noi s’accontenta di scalpo, con teutonica ammuina ad ammainar bandiera blanca di cambiamento, virulento e tres chic, di più, rott-amabile, che tanto di tweets non è mai morto nessuno, ma le riforme, le riforme signora mia? E vuoi mettere con le mummificate glorie del berlusconismo d’antan, i nani trasformati in giganti da giornalotti compiacenti, poteri marci e pappegorgie molli, la mota a reflusso gasto-esofageo che monta a pannacotta, stracult per libidine distorta, che biancheggiano ormai lontani, chè il Nano arcoriano è andato, vero signora mia? No?? Il suo corpo opalescente di trasparenza epidermica ed elettorale è ancora qui tra noi mortali, spoglie morte che si spargono a mucchi,  dietro paravento senatoriale di reformatio in peius va in scena l’amplesso orgiastico di carni e cartuscelle, accordi ed affari per un Italicum che salvi le capre, e col cavolo che si rottama!


Lo sventramento dell’avito Palazzo, col dimezzamento coatto dei senatores è teatro d’ombre per special price, una riforma contingentata ed imbullonata al prezzo di due, e alla men peggio, per coito elettorale in preferenza, col Renzi e il Mestìa benedetti dall’Agnese (regal consorte in premier-sheep) e dal Vecchio sul Colle, come uomo del monte a dir sempre sì, che la scadenza è cambiale già firmata, ed una Costituzione val bene una messe di travisamenti e scempi, taglia e cuci e copia incolla, chè il cambiamento sacrifica i capri, ma lascia da parte gli Agnelli, anche questo da secula seculorum.  Ed è caos, a raccattar spiccioli, a rintuzzare fronde e frombole, tra mediazioni flambè a scottadito, che i bottoni da pigiare son in mano ai soli croupiers, e alle loro groupies,  e  al Senato sulle riforme si abballa la quadriglia del Giglio magico (ahi, concordia perduta!), mentre l’isola è in pena d’abbandono, e la penisola pure . Salta la mediazione, le facce son Verdini, tra grillini incazzosi e vendoliani spuri, o quel che ne resta, volano stracci a brandelli da ricucir bandiera tricolore, e allora aventino, viminale, quirinale e tutti i colli al seguito, che Renzi Uber Alles si gioca il suo alla ghigliottina, e non c’è Carlo Conti che tenga, che il nostro è aduso al vecchio Mike.  


Il premier carica a testa bassa, fino all’ottobre rosso, schivando i rottami, le secche, seccie e relitti a cavitare, gravitando in una maggioranza plaudente e salivante, mentre il fronte del no gli si allarga sotto al sedere, mentre il Cavalier riabilitato pensa ca va sans dire alla sua robba, mentre una Costituzione è in bilico a sua insaputa, mentre un Napolitano se fa sicco ma nun more,, e noi abulici apatici epatici, si prova a dimenticare il relitto che avanza, nell’estate del nostro scontento.


venerdì 25 aprile 2014

METTI UNA SERA A TEATRO...



“SHITZ – Pane, amore e salame:  piece sardonica e grottesca sugli appetiti degli umani all’Elicantropo di Napoli fino al 27 aprile.



Napoli - “L’inferno sono gli altri”. Un inferno sartriano scevro da riflessi vermigli, fors’ anche da vampe sanguigne di castighi danteschi, eppur dannato e osceno nel suo luciferino vezzo di “insinuarsi nell’esistente”, l’ estremità  forcuta a cingere la strozza di famigli  viepiù “captivi”, progenie lupesca del dio-padre Shitz, come pater l’istessa madre e poi la figlia, polsi uniti in cogente preghiera d’appagare egoismi luculliani, asfissiati dal peso di una società orwelliana di falsi miti borghesi distorti, che diviene Moloch ancestrale che tutto fagocita e tutto assimila, sullo sfondo d’una guerra agli umani, all’umano, perenne e sibilante come sirena a contraerea. Un Dio-cannibale dalle gengive disadorne, digrignanti, plasticamente contratte nell’assalto al panem, senza circenses, o ballon d’essay, ricchi premi e cotillones, arroccato come nudo pasto, a puntellarsi nel suo sacello d’ossuta egotimia, stravolto ululante alla luna, in un amplesso demoniaco di carne e ancora carne, una tanto al pezzo, un occhio alla libbra, un salame come daga, per abbattere mulini, rinchiusi nei propri steccati.

Famiglia-monstrum, fagocitata a brani da lutulenti fanoni sfavillanti, come fuochi fatui d’ un consumismo proteiforme, un dasein che si spersonalizza, si oggettivizza, nella sua alienante discesa agli inferi sabbiosi, nel meriggio di un yom kippur qualunque, sempre buono per l’espiazione, sempre prono all’istinto più bieco; un’odissea dentro sé stessi, nel ventre mai satollo dell’iper-umano lupesco, alla ricerca d’un segno, un solo segno che sleghi i desideri in-confessabili dai villi d’intestino: e il vello è biancolatte, da sposa, per figlia da incatenare liberandola, da portare come stigma, simbolum da mostrare, estendere al finito, in senso ferale, nel nome di una semplificazione esistenziale che diviene logo, che diviene marchio a fuoco da imprimere sulla carne, sempre e solo carne. Scrittura cerusica, singulto viscerale, barocca e rapace, Filippo Renda rilegge il testo di Hanock Levin, riscrive fame, guerra e destino alla luce siderale d’un nucleo famiglio gelido come lapide,  annulla l’essere, quantificandone il valore, uniformandone il desiderio agli stilemi del Leviatano, con pulsioni primarie che divengono ossessioni elicoidali, urticanti e loffie all’unisono.

Speculum di progenie centrifugata, il riflesso di Shitz si irradia nelle brume d’un genero affamato, amorale, cannibale, massa e mole schiacciata dal peso d’una gromma biliosa, un catrame che soffoca e ammorba, una fine annunciata e dispersa, tra sirene lontane come grani di clessidra a sfumare nel vento. Stralunata preghiera che si sgrana invereconda, un vampirismo edonistico dei bassi istinti, chiave a stella di un algoritmo viscerale eppure ferocemente ironico e grottesco, che trasmuta le maschere e le personae, le famiglie da amnios fetale a sacco scrotale, per spurgare il seme, come fosse segno storto, chiodo screziato nel ligneo ventre d’un cristo ormai condannato all’abbrutimento e all’evidenza, che nessun sacrificio vale shalom, al massimo un salame.

Famiglia come trappola per topi moderni,  bulimici ed ingordi, logorati dall’ansia del possesso; gli Shitz possiamo esser noi, e sudiam freddo ridendo a scatto, come ratti sciagurati che ballano sul cassero di una socialità in disarmo, il baratro infernale che s’apre ad un passo.
Applausi per tutti, e mazel tov a tutti noi.

mercoledì 16 aprile 2014

METTI UN SERA A TEATRO....



Al Teatro Troisi, Milena Vukotic in “C - Come  Chanel” , la belle epoque d’una donna straordinaria. Dall’ 11 al 13 aprile. 


Napoli- Donna sirena, lo sguardo en blanc et noir, sfuggente, il vezzo femminile di celarsi nella diafana luce dell’apparenza, mostrandosi nuda nell’intima essenza d’una recherche  suadente e tronfia, spettacolare; rigore e celebrità, imperscrutabile taglio nella tela dell’esistenza: Cocò Chanel, al secolo Gabrielle Bonheur Chanelle, figlia delle Moire, in perenne agnizione d’una genesi parca, viepiù misérable, charmant tranciava il file rouge del suo essere donna al principio novecento; via i puntelli aristocratici per donne da voliera, via trucchi e parrucchi, finis terrae , aldilà v’è solo il nero, o il bianco, una tela da ridisegnare; via damaschi, trame e velluti, via! Il tocco vitale di sartina semiorfana e affamata, di padre, di essenza, di tutto, la portò ad innalzare calici dove il cristallo riluceva meno della sua figura, fasciata in tubini, visioni intessute, bagnate dal tenue riflesso d’una luce avvolgente, rocchetto e filato a far da puntello; cöté espressionista, una danza di cappelli e lustrini che si fondono nel disegno, perdendosi nel flusso del “n° 5” a distillare dal fusto, tra un Picasso e un Cocteau, uno Stravinskji ed un Max Jacob; Mademoiselle era così, prendere o lasciare: bigger than life, per dirla allammericana.

Un vezzo prismatico per la contaminazione, le facce smerigliate d’una cifra stilistica languidamente divisa tra aristocratica lepidezza e pudicizia proletaria; Cocò che l’arte disfece in povertà, che s’arrese all’evenienza in tempi magri e neri di guerre in euroscope, che s’arrischiò quando il mondo che fu collassava ad ellissi, gli obici tuonavano e la moda cangiava: Milena Vukotic possiede giusta lente focale, precisa e convessa, atta ad inquadrare la figura versatile di Mademoiselle Chanel, musa del novecento, vocazione inquieta, vera icona per una Signora attrice dal percorso scenico che tocca il suo azimut  mediale tra “classiche” commedie fantozziane, dal tocco etereo e disincantato (la Pina!), teatro d’autore e sua Maestà Televisione;  perché “la moda passa, lo stile resta”,  così come sciabordano via le frotte di personaggi fumosi, tronfi, vedette da palcoscenico, “personaggini” di contorno, persi in velleità pseudo-artistiche, spesso smarriti nella lutulenza della loro evidente mediocrità, a far da sfondo senza luce alla Signorina Cocò.

La Vukotic calca il personaggio con giusta misurazione, non cede al bozzettismo cesellato che una maschera sì pregna vorrebbe assecondato; forse il testo ammanca di ritmo, risulta flemmatico e a scartamento ridotto, curva e stride con la cinica levità della Cocò terrible che la prammatica del tempo riporta,  “refugium peccatorum” per artisti, scrittori ed intelletuali spiantati e d’avanguardia, amante di rampolli benestanti e riccastri arrembanti, trompe d’oeil intimista, per elicoidale fuga in avanti d’un’anima in perenne rincorsa.  David Sebasti è contraltare maschile, mille volti per Uomo che insegue la preda e da essa viene avvinto: l’ego polimorfo d’un Padre assente, lemure infecondo, Amanti in affanno, stolidi o lungimiranti, uomini ed ominicchi che s’assisero ai piedi del suo monumento, contemplandone la fiera malizia e l’orgoglio irriducibile.
Manca il ritmo scenico s’è detto, ed è nota stonata, per una piece elegante che merita giusto plauso per la mimesis della protagonista, una Chanel costruita per sottrazione. Chapeau, Milena.

sabato 5 aprile 2014

METTI UNA SERA A TEATRO....



Mimmo Borrelli tra le Anime del Purgatorio Ad Arco con “Chianta e Schianta”, performance tratta da ‘A Sciaveca, per la rassegna “Anime in Transizione” .


 Napoli - Mater, come alma indecente e derelitta; Terra come madre, possente e posseduta, seme e genesi, e rinascita, cordone placentare.Un  alveus invaginato, per antiche novene di sibille fumose, tra Bacoli, Baia e Torregaveta, reflussi d’acheronte, lande sez’aucielli, di borborigmi infernali, conto inebriante e pestilenziale, malapianta per malaciorta: d’esser nati affondano le mani nell’humus antico di declinazioni semiotiche, come segno ancestrale, verbo illanguidito ed umorale, che assorbe il vezzo, ed il puzzo, di terre stantie, di cave frastagliate da cui tracima la vita, seme che diviene senso. E Trascendenza. Una danza, tra l’io marinaro e l’ego sotterraneo, tra Madre-Sibilla e figli seminati, cosparsi di preci strascicate e violente, sono piezze 'e sfaccimma partoriti tra schiuma e jastemme , perchè tali sono, i nostri vecchi, schegge umorali d’un tempo abortito, isole circumnavigate macchiate di peccato originale; perchè la terra non è mai lieve, per i figli del Mare. Il vello non è mai d'oro, è un vulnus; l'esser appendice di mitopoiesi immaginifica e rurale, reale, non copre né nasconde, bensì rivela, e Borrelli è degno anfitrione, la sua opera è endecasillabo disciolto per litanie teatrali, riti liturgici per ascensione a metà; inebriante tocco, retrattile come onda, il mare è marcio, è fiele e scimunisce, evaporando in mummarelle svacantate, dove la pietas non è ricetto, tutt'al più sconforto, trascinate le anime nella Sciaveca del peccato a rimorso.

Mimmo Borrelli è vena autoriale scoperta, ferale e pulsante, vulcanico estro; s'ammischia il verbo, il seme dialettico diviene dialetto semantico, vis flegrea che dispiega il nesso tra la terra e il mare; nella sua intera opera la sua, pregna, terra solforosa diviene tela ingiallita, itterica su cui ricamare, incidendo il solco: è 'Nzularchia, canto errante di camurrìa per Pater assente, Figlio sacrificato, canto tragico e clautrofobico; è Sciaveca (per l’appunto) di salsedine incrostata, con tritoni d'inumana forza ad issare la trama, rete avviluppata per anime naufraghe da pescare. E’ carotaggio interiore, nella mota e nel fango, fertile e blasfemo, perchè vivo e reale; come ferita a raggrumare, a scorrere silente. Bradisismo d'anime all’abbisogna. E’ Malacrescita, il cunto derelitto di Sibilla euripidea, flegrea, bacolese; una Niobe senza lacrime. E sono cunti di fratelli distorti, padri violenti, madri euripidee, figli gemelli, parto destruens, sperma avvinazzato, corrotto dagli eventi, ad imporporare la terra; sangue e vino, chè di latteo e virginale, resta la macula sul grembo, e nulla più. Mimmo Borrelli, ispida la barba che incupisce il volto, nazareno criptico e dionisiaco, è corpo cavernoso che trasmuta in eco polimorfo, strascicata risacca e lugubre, come funereo ristoro: ma di pace non v'è traccia, notturne lamentazioni di uomini abbrutiti e gravi, carichi di pesi e colpa illividita, tracimate dagli avi a trascinare nel gorgo, anime un tempo innocenti e adesso rotte.

Febbrile, catartico ballo di sfessania, che spossa e stracqua, denuda e trasforma, mai rassicura. Borrelli trasfigura sé stesso nel suo teatro carsico, sedimentato nella tradizione che scorre in ipogeo, come in ecclesia in Purgatorio (e mai luogo fu più consono); e son lampi flogistici, di fucine infere, abbacinanti e sottili come aghi nella carne. Una carne straziata, aperta, viva; senza requie o cura o redenzione: tessuto morente, bagnato da lacrima asciutte, d'una Matrigna Terra che non nutre, non riscalda, né consola. Un orfeo apocalittico, cantore eretico d'una lingua sconosciuta ai più, retaggio d'una terra che non conobbe il rimorso, perchè mai lo cercò. Plauso convinto, l'arte della mimesis ha trovato un degno cantore. Notevole.

lunedì 31 marzo 2014

IL FUTURO E' VOLONTARIO




“Vi sono dei limiti oltre i quali l'idiozia dovrebbe essere controllata”. (Heinrich Böll)


Sindaco per voluntas populi dal giugno 2011, un tempo “il più amato degli italiani” (classifica redatta dalla Scavolini, immaginiamo) in lizza per la copertina di ’Uomo-Vago” degli Amministratori “très charmant”, il Nostro Arancio-cremisi, con lungimiranza e “bonapartenopeismo” di stampo zapatista, tentò di tutto e la qualunque, pur di rimanere fermamente in groppa al vento del cambiamento; ma nulla potè la sua maschia voluptas nonché voluntade, contro il pressapochismo politico et amministrativo scodellato sul campo in questi tre anni di inter-Regno parte napoletano e partenopeo: ahimè, sfiorì il sogno cocozza dell’imago internacional di Neapoli, il contrabbandiere di speranza di stanza a Palazzo, nulla potè contro la sindrome fantozziana che gli pervade l’ animo e le pudenda.

E allora, quale idea sfolgorante et iusta, che si nomini il ciambellano reale, il marketing s’adda rifà ‘o trucco; et voilà! Ecco a voi, noi, sudditi il nuovo prodotto ri-vo-lu-zio-na-rio!, un acquisto a metà prezzo, offerta very special by “Quelli di San James Palace”,che coi punti del latte rancido ed ammuffito, ci hanno impacchettato l’ennesimo paccodoppiopaccoecontropaccotto media-politicante: Monia Aliberti il nuovo assessore alla “comunicazione e marketing, immagine e promozione della città, eventi, “made in Naples”, identità, tradizioni e futuro della città”, è giunta solare al sacrificium, per rimpinguare la pletora d’assessori assassinati (politicamente ca va sans dire) dalla Fredegonda Imbandanata, il Maschio Alfa e Omega dominante, il Giggino Murat che grandi e piccini, tutti spaventa (perfino i suoi alleati per mancanza d’alternative, il Piddini piccini picciò all’ombra del Vesuvio).
Urge sincretica domanda: ma la nostra Partenope descamisada non aveva di già il suo assessore occulto all’immagine azzurro-arancio-arcobaleno della Cittade, perdipiù aggratisse, perché di Volontario quivi cianciamo? E’ dall’ election day del germano maggiore che il suo Hermano Menor, il Divin Claudio,  soldatino di chiummo instancabile, si spende in segreteria sindacale, al telefono, “spandendo” il nome, acquisendo concretezza e sicumera come factotum umbratile della città (“Largoooo!”); mille le maschere e mille i volti, per Claudio De Magistris, Volontario, quasi-staffista, un tempo co.co.co. per la buonanima di don Tonino Di Pietro e della sua IDV, braccio sinistramente destro del fratellone a Sindaco, impresario, gran comunicatore (sebbene di poche parole), neuronale ganglio di pubblico legame, seppur privato, perchè pur sempre di un di "Volontario" trattiamo: uno, nessuno e centomila. E che il nostro Claudascione, dopo inchieste, scandali e titoloni di giornlae, ancora aleggi nelle aule del Comune è cosa nota, “chiedete a Claudio” era la novena diuturna a cantilena che si respirava a Palazzo fino a pochi mesi orsono.
Per la sua permanenza nell’avito Palazzo fu sfornato financo il documento giusto ad hoc: un decreto sindacale a firma di Tommasino Sodano, siglato unilateralmente in data 15 novembre 2011, con il quale si dava ingresso trionfale al nostro Claudascione, ex impresario nel campo del organizzazione “comunicazione e marketing, immagine e promozione della città, eventi, “made in Naples”, identità, tradizioni”, più o meno tutto l’ambaradan parolaio ad imbottire il portfolio della nuova “assessora” Alberti, negli ultimi cinque anni nel board dell'«Accor Hospitality» di Palazzo Caracciolo, prima come responsabile delle risorse umane, poi come responsabile degli eventi: e allora “Salga a board, cazzo!”, che lo scoglio ci ha scoglionati, la zattera s’è sfrantummata, la scialuppa s’è sciupata, ed il legno s’è ‘nfracetato, e qui rischiamo che ce lo tirino pure appresso, o peggio, che lo usino come albero maldestro per impiccarci i nostri sogni di “revenge gauche” murattiana in salsa De Magistris.
L’Alberti non dorma sonni tranquilli, che non essendo parente stretta, la nostra neo-assessora è pur sempre revocabile dal solerte Imbandanato, chè nel Comune famiglio nessuno è indispensabile, e men che meno chi sfugge al legame sanguigno; del resto almeno uno straccio di contratto, alla nostra Assistita, medium politicante ad evocar futuro sibillino, l’avran fatto, mentre Il Divino come lemure, “Aleggia sempre, intriso di fatal desio, alla ricerca della requie e del ristoro, volontario puro, libero come aquilotto implume, né staffista, né real-volontario, ibrido chimerico, astrazione di pensiero”: ABUSIVO, e così sia.
E allora, rovello smargiasso e pulcinellesco, si affaccia prosaica domanda: ma come campa il Claudascione? Luciferini rispondiamo: forse che a San Giacomo abbiano capito che il volontariato in pubblica piazza non vale la candela, e lo stoppino di tal fatta resta pur sempre in mano al povero germano? E allora come prender piccioni con singola fava? Magari spartendo una poltrona per due, smezzando stipendio e assessorato? La nostra è solo umile opinione, non la si prenda in serio conto, è più balocco per libere menti, liberamente tratto in acconto: e’ dunque una protoforma di spending review all’aranciona? Ragù di vongole in cui sguazzare, bacile anarcoide d’amministrazione all’acqua pazza, realpolitik mediale per l’Ammiraglio Cocozza, fraterno et amicale, che rese servigio al Fratellino, senza che fosse costretto a chieder la questua nei giardini antistanti il Palazzo, imbandanato in standardo cremisi, stracquo e senza posa.
“E’ la somma che fa il totale”, diceva Qualcuno, ed uno stipendio fratto due è pur sempre meglio che fare ‘o Volontario, ca va sans dire.  N'est-ce-pas?


 


domenica 30 marzo 2014

METTI UNA SERA A TEATRO....



All’Elicantropo, dal 28 al 30 marzo, “Sputa la Gomma!”, di e con Pierpaolo Palladino, piece ironica e disincantata sull’incontro-scontro tra scuola e teatro.


 Napoli - Forse che l’uomo, attore per celia e un po’ per non morire, ritorni bambino, ad ogni legno calpestato? Forse che non scalpiti di nuovo, e ancora, come alunno ex cattedra, coi lemuri d’un tempo a ballargli nella testa, come sonetti popolari, come fossero del Belli, Gioacchino, mordaci strali? E allora “Sputa la gomma!” Pierpaolo Palladino, alias Lorenzo, che il lunario non aspetta, da sbarcare ci sono i captivi discenti, tutti infraquattrodicenni, prigionieri di scuola matrigna e  periferie lunari, viepiù romane, pasolinianamente epigoni della Strada che fu; ma Fellini è lontano, il nastro è strada d’acciao e cemento, come latta a medaglia, da appuntarti al petto se il lavoro andrà in scena, in porto e senza scuffiar, che a sbuffare ci pensano i puledrini instancabili, i diavoletti in divenire che ti cuociono a fuoco lento, in pentolone scrostato, come aule nostrane, all’abbisogna.

Forse che il tuo spirto emozionale e lucido e ben saldo abbasti ad ammansirne i singulti con sicumera e baldanza? No di certo, che dell’adolescente, o quasi, i rovelli son celati, e notturni e prepuberali, e vallo a  spiegare a professori, direttori, bidelli, genitori e alla buonanima del Belli, che lì all’adiaccio d’una palestra sbrindellata, con campioncini di bigbabol  a ciancicare sgommando, ci sei finito per sbaglio, per abbaglio, per raglio asinino d’un compare da soap che ti giocò mancino tiro, e tu di riflesso gli assesteresti volentieri un destro a giro; ma vallo a spiegare a loro, Pierpaolo, che sei solo attonito spettatore di umili bamboccetti affastellati e in rincorsa iniziale, già in debito, e quanto. E su, “Sputa la gomma!” Rosi, Tyron, Pamela, etc. etc., folletti indomiti e scornosi, tignosi animaletti da palco, pischelli in fuga concentrica, omuncoli già induriti da pieces esistenziali, slabbrate eppure dannatamente vitali, ardenti; nessuna rinuncia, che la barcaccia è da attraccare in porto, per un conto che cresce alla distanza, sviluppandosi dall’amniotico onfalos d’un precario docente in affanno, giunto per caso e dissonanza sulla zattera di mocciosi scalcagnati, fino all’onda più alta, che spariglia e atterrisce, oppure smalizia e “ammatura”.

Mai luogo fu più adatto d’un palchetto improvvisato, palestra reale d’una scuola frustra, svilita e stracqua, per disvelare l’epifania d’un uomo compiutasi nella regia di suggestioni e rimembranze calate sulle alucce spiumate e ferocemente innocenti, di giamburrasca romanacci commoventi, racconto d’un riscatto possibile per adulti in formazione e ragazzini già cresciuti, lontano per una volta dal silenzio assordante delle periferie distoniche, senza baricentro, in equilibrio precario e  costante disillusione.
Palladino è attore compiuto, il seme virale d’una lingua contaminata, a commistione, è ben fecondo; la regia è giustamente scarna, come linoleum a pavimentazione che mestamente ricordiamo, lavagna e sipario che divengono copione per sonetti urticanti ed irrisori; s’aprono le danze e si schiude il palco, e i diavoletti angelicamente all’unisono gridano: “Merda!”. E fu teatro, nonostante tutto.
Si spera, e si consiglia, caldamente il bis.

PUNTI DI VISTA


"EL CALCIO, CAPRON!"





  
“Ci sono fantasmi di ogni genere: quello dello Spazio, quello di Amleto, quello dell’Opera, quello del Comunismo che s’aggira per l’Europa e anche quelli che inventiamo per nascondere la nostra debolezza” (Osvaldo Soriano).

“El calcio, capron!”. Il calcio, già. Una parola descamisada, nuda e dura come un campo di schizzi,  fango o cemento amato, sterrati di polvere, cicche e sputi impastati e acido lattico: la palla, el balòn, ‘o pallone;  per qualcuno è “dubbio costante e decisione rapida” , per altri tronfio caduceo per processioni a turibolo di “ ventidue imbecilli a sconocchiar dietro ad una palla”:  l’attesa condensa e strepita, e vallo a spiegare che c’è stato un tempo che i capricci del campo scatenavano cannoni e contraerea, mustang  e corsair , tra Honduras e El Salvador ; la Guerra de Futbòl, ed era il ’69, a scapicollarsi dal caldo ’68, verso lo stadio Azteca del Messico ’70, e per lo mezzo generali argentini, dittature, Allende col mitra in una mano, desaparecidos e Plaza de Mayo, caldo, zanzare, cicche spente sulla pelle e calci, tanti, troppi: al pallone, al costato…e poi ancora Messico, nell’ ’86, la gloria d’una mano de dios che si rivela al mondo ed uno sberleffo da far impallidire la perfida Albione, e fosse stato ancora vivo, da far mangiare il sigaro a Sir Winston, tra una Malvinas e l’altra, tra bombe allo stadio e fucili in caserma. Ecco, appunto. Maradona.

Il pibe de oro, Oro di Napoli, scugnizzo e gordo, matador, tra una pista bianca su verde sfondo, un fantasma evocato ad ogni piè sospinto, la nostra dannazione aulica e dionisiaca, altarino lisergico tra vicoli a lanugine, vita matta a colori, mai bianco e nero, men che meno bianconero: il colore del “paròn”, d’ ‘o padrone, degli Agnelli da sacrificare in campo, che in fabbrica sono altre le bestie alla catena; anni ’80, bionde e scafi blu, Santa Lucia sempre luntana, Napoli stracciona, pizza & mandolino connection, Cutolo e nuova camurria, “Lovgino” e l’invincibile Armando, nero come una cozza in ammollo, botte e ferri corti, ‘o kalashnikov che faceva il suo ingresso nelle mattanze quotidiane, e però machisenefotte, che ‘a dummeneca è tempo di paste, da servire belle calde alla Signora, sul Platinì d’argento, alla vecchia maniera, colpi di tacco e un colpo a Tacconi, a la guerre comme a la guerre, Ma-Gi-Ca e così sia.

Ammèn Faccia ‘Ngialluta, lascia perdere la Smorfia di Troisi, il Santo adesso è un altro, trovati un’altra pietra tufacea su cui posare il capo. ‘O Capo, ‘o boss ci sta già, perché tutti volevamo essere Maradona, guizzo d’estro che diviene cunto e leggenda, mitopoiesi da strada, collante per trame sociali avvilite e sfilacciate; tutti argentini negli anni ’80, col San Paolo che stemperava nel verdognolo d’una fazenda, nella sterpaglia della pampas, a guardare undici campesinos armati di falcetto che matavano ‘A Signora,  a colpi di tango, tattica e Ferlaino; un contagio virulento che segna come stimmate o scrofole la faccia di un popolo che da sempre s’innamora del suo mito, del suo Re taumaturgo, chè il vitello d’oro qua lo scolpiamo nell’intimo, ‘o pallone è il nostro elisir per bamboccioni, gonzi assiepati sulla piazza medievale davanti al carrozzone del Dottor Sottile di turno, e tant’è, la pellicola è sgranata, come il sagrato, l’acciottolato stanco e divelto dalle pallonate scugnizze che nessuno ha saputo mai ricucire.

Erano gli anni ’80, dove i sogni si cotonavano in acconciature improbabili, Rocky abbatteva i Russi a cazzotti, gli Ammerikani ingozzavano di armi i mujahidin, il thatcherismo trionfava, la classe operaia andava in paradiso per mancanza d’alternative, e in Europa, tra una Uefa ed una Coppa Campioni si scioglievano i nodi muscolari d’un catenaccismo italico alla spagnola, contralto speculare alla spregiudicatezza tangentista craxiana; ‘o pallone  rimbalzava sul Muro, aspettando che le frontiere crollassero, che gli oriundi sparissero e la Bosman sparigliasse le carte sul Mercato Unico: e Napoli era quella di Bellavista, sempre più luntana, come Santa Lucia accecata dalle lacrime napulitane d’un Maradona in fuga da tutti e da sé stesso.

Il classico film in bianconero visto alla tv, prima del Biscione politicante, quando da Segrate e Milano 2 si limitava a rincoglionirci di spot e telenovelas, drogando il fatturato, spossando il mercato, pompando caproni in guisa di campeones e gonfiando la pelota a colpi di mercato e sovrafatturazione: do you remember Lentini, Cavaliere? Il Milan “operaio” fu stellare, el cul de Sacchi era per le Coppe da serbare, ma un Maradona non l’ebbe mai, ca va sans dire, Nanoleone s’è dovuto accontentare d’una cafuncella napoletana verace, una ventenne algida come un calippo da gustare; ma questa è un’altra storia, che la Messi non è finita (la Pulce, un roteiro milionario ca incanta il circo, coi suoi numeri da funambolo senza rete è spettacolo che vale il biglietto).

Domenica il film si riavvolge per l’ennesima replica, la pellicola la gira De Laurentìs adesso, è cine-colombone per curve e tribune, il tango a due Higuain-Tevez dovrà attendere (l’Apache è fuori per somma di cartelli), il tram-a-muro di Benitez sale e scende in classifica tra alti e bassi, la cresta di Marechiaro s’è mezz’ammosciata, il toupet di Conte è sempre in testa è vero, a rischio di refoli a ribalta: eppure la classicissima Napoli-Juve non incanta più come ai tempi dello sfavillio in vetta: passati gli anni Moggi, le serie cadette, le squalifiche, le coppe avite, qualcuna vinta, gli scudetti in campo e quelli a mente, el futbòl divide come sempre le Alpi dal Vesevo, gli juventini gobbi dai partenopei cupputi, eppure il tifoso napoletano, pur mantenendo la sua costipata fede di “malato”,  non gode come pria dello spettacolo. Diciamo ‘a verità: il pianeta eupalla ha assunto ormai i tratti delle lande apollinee- lunari (Mar della Tranquillità, più che Cime Tempestose): gli arbitri son sempre cornuti nevvero, ma semi-deserti in genere gli stadi, lugubre e senza genius il gioco, immobile ed impantanato il carrozzone, non rimane che rimirare le paludate coppetelle al muro ed il glorioso passato che fu (la Champions, le italiane l'hanno vinta 12 volte, una in meno della Spagna primatista, mentre nessuno ha fatto meglio di noi in Uefa: 9 trionfi, 2 più della special one Spagna), perché un tempo ‘o pallone qua era una fede, il catenaccio lo si metteva alla bacheca dei trofei, ed i torelli smutandati da scrollare in campo la domenica li si allevava in casa e con maggior cura. Aspettando il Mondiale sambeiro, domenica a Fuorigrotta ci giochiamo il nostro classico mundialito.

“La Juventus produce successo, quindi invidia”, Beppe Viola docet. E all’ombra del San Paolo, “gli uocchi sicche so’ peggio d’ ‘e scuppettate”.
La Signora è avvisata.

mercoledì 26 marzo 2014

METTI UNA SERA A TEATRO...



Al Théâtre De Poche, nel cuore tufaceo di Via Tommasi, “IL CONFESSORE” di Giovanni Meola con Aldo Rapè.


   Napoli - “Il male è prodotto dell’abilità degli uomini”, Sartre docet, luciferino ammonisce.

 L’attesa, nuda si flette, nell’attimo d’un raggio sospeso nella diafana ribalta d’una sacrestia, sacello misterico; snervante, in bilico perenne: un uomo, solo, di nero vestito, in scena. E’ il “parrino”, Il Confessore, a riempire, avvolgente, l’horror vacui d’una quinta scarna, cassetti divelti e storti, pensieri in disuso da lucidare e ricalibrare, una sedia lignea, un volto sferico, palla di stracci, da prendere a calci come impure estistenze scalcignate di rivoli pietosi mai tramutatisi in acque: un fiume carsico, una dolente scissione ex voto, d’un singolo fujente che volle, fortissimamente volle, la rivolta, indossando i paramenti d’uno stillicidio annunciato, contro i tagli sconnessi d’un tessuto ormai lacerto, a battersi il petto di padre senza prole, segnato da croce, come unica mission per affermare identità e senso in terre desolate come carburatori catramosi e spenti, a spurgare pece come fosse humus, di mafia e camurria dove c’è vita, e radici, e linfa nonostante tutto.   

E il confessore, dalle terre scarne di cunti e conti da saldare a ferro e mitraglie, A Ciascuno il Suo e un Dio inchiodato, inchiavardato per tutti, extrema ratio, extrema unzione per anime prave, è il perno mobile del racconto; chiuso nel ventre ossuto d’una chiesa di periferia, offre la sua storia all’uditorio, rielabora in camera oscura, in attesa dello scatto, del riscatto a sacrificio, a rammendare esistenze slabbrate, un martirio più che laico e rituale, da vivere al rallentatore. Aldo Rapè, sciamano errante, gnommero semantico a ruciuliare per rue linguistiche a metà via tra gramlot e spurio seme, impasta siculo e parlesia, napoletano e “camillerese”, prestando il volto e le movenze ad uomo votato al corpoessanguediCristo, alla specularità maieutica di rincalzo alla pia banalità del male, ferino e pulsante, radicato in terra sconsacrata, di uomini persi o quasi, parrini a loro volta, di parole a sentenza, esiziali; eppure non è martire, non vuole esserlo Il Confessore, ma contnua a misurare lento pede‘a vocca d’ ‘o riavulo”, a sezionarne la lingua, così vicina, tanto da sentirne l’orrendo effluvio 
e puzzo di morte.


Vive l’attesa: dell’ennesimo bersaglio, dell’ennesimo morto ammazzato, tra scampoli di pietas come brani al desco della solitudine; d’anime e sangue, richiamo avito di peccati scostumati, consumati al lume d’una catarsi irredenta, impossibile, alla fioca luce d’un altarino ascoso, quasi invisibile, che perimetra il limen d’un confine già segnato: confessione e pentimento, nella trama un filo torto; che uno, dopo una vita passata a perdonare per dovere gli sgarri altrui, sarà sempre un “signato”, dazio e obolo da versare mirando una croce, come fosse eterna eucarestia. Bravo e convincente Rapè, il testo è semplice nella sua essenzialità, non scantona, mantiene i margini, forse osa poco, o troppo è il calpestio su trame già lise perché troppo rappresentate: mafia e camorra son pane quotidiano, per chi quelle terre vive e respira, giorno dopo giorno.

Morto dopo morto.