venerdì 19 ottobre 2012

Ritratto sfiziosetto per Dioscuri Napoletani.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Siamo tutti esuli dal nostro passato”.
A citar Dostoevskij, siam tutti transfughi d’una landa solcata da marosi e tempeste, figli d’un passato che tormenta nel deliquio o ristora nel conforto, pellegrini d’un culto vizioso, da concupire o blandire con preci e soliloqui.

Ma tant’è; la bruma è coltre da fugare, o velo al nerofumo da stralciare, in bilico tra ricordanze leopardiane, o concordanze mannare per homines lupoidi, che radono il pelo, per celar il vizio: vezzo immaginifico di coprire o descovrire le carte d’un passato che si scala o si rimira, o si teme come suocera sull’uscio.


Prodromi di Lari dis-persi nel focolaio d’un ricordo, sfuggente come sensale d’illeciti guizzi, scazzi ipocondriaci per germani, fraterne figure del nostro immaginario quotidiano; due figure, due retaggi.


Luigi, Giggino, ben insediatosi nel ruolo di arruffapopolo per poteri forti e disincantati, manolete opportunista, ma non scaltrissimo, lesto di muleta e banderillas ma troppo ondivago per esser coerente, sgravato d’amblais nel paludato mondo dei politicanti professionisti, lui integerrimo ed agguerrito ministero, del pubblico paladino, ertosi forse con malagrazia, ma di certo con enfasi ed impatto, fino allo smottamento emotivo delle masse plaudenti, che gli concessero fiducia, voto e poltroncina, per poi esser sedotte & abbandonate nell'arco d'un terzo di lustro, o giù di lì.


L'altro, Claudio, ottimo consigliori, nell'ombra ma rilucente alquanto, sobrio, si silente sicumera, radici che affondano in frasi sussurrate, memoria smezzata di chi nella vita organizza e-venti, strambando all'abbisogna per sbarcare il lunario, secondando le maree con furbizia e certa grazia, mai mettendo prora di traverso.


Il passato è terra straniera, brandelli di identità artefatte, per apolidi che gettano moneta nel pozzo, osservandone il tintinnio, esprimendo il desiderio della vita, per quel che si vuole essere (o almeno apparire); Giggino & Claudio "sempreinsieme" , che s’arenano sulla battigia lignea d’una zattera di fortuna (e che fortuna) in quel di Palazzo, remando in controsenso, aggirando le zone a traffico limitato d'un piano estemporaneo e confusionario alquanto.


L’uno, irriverente, arrogante, piacione che pungola e seduce (qualcuno ancora c'è); l’altro, avviluppato alla discrezione, non vedi nelle sue mani il timone, ma la terra l'avvista sempre prima, un passo sempre indietro ma la punta è mezzo giro avanti, sonda il terreno e detta i tempi: e quando s'è dissodato il terreno, nello spazio lancia il germano reale, perchè quello abbisogna di spazio, per il suo ego a dismisura.


Certezza e rimozione: ci vorrebbe sovente un repulisti spurgante, una negazione dell'egotimia a scomparsa, per salvare almeno una scheggia, un chiodino, della zattera movimentista ormai ai marosi. Giggino e Claudio sfidano la sorte, il rendez-vous è giostra per parate e affondi, schermaglie ad orologeria con l'amministrazione della città porosa ad attendere sullo sfondo, quando lo sguardo è già più alto, altrove, chissà; il tempo è scandito da sguardi felini al lazo, valzer di sedie di comando scambiate come vesti, al minimo, pelle; che divengono dioscuri impudenti quando solcano il limite della loro baldanza, scadendo nel ridicolo e nella tronfia ridondanza.


Palazzo come refugium peccatorum per anime infanti, fortezze Bastiani con muraglie di carta, ordinanze e decreti che generano fumosi veli a ricoprire l'emergenza continua dell'esser sulla breccia, comunque e ad ogni costo.

Giggino rappresenta bene o male sé stesso, è lupoide alfa-dominante, che del nesso causale tra l'aver lo scettro ed il comando, ha fatto brani; l’arena politica è inganno, a sua volta passpartout per “ingannare” fanatici e critici dall'occhio accigliato, masse più o meno amplie che dipendono dagli umori del più altro in grado (ma sarà poi in grado?).

Claudio, insinuatosi nel ganglio, cela l’intermezzo con scambio fraudolento, competenza personale spacciata sottobanco, perchè la rivoluzione non è pranzo di gala, ed un coperto lo si deve pur pagare, ed il conto tocca a noi, è presto detto. Giggino l'eletto, Cluadio il suo cicero; si riconosca il torto, e tosto, chè la pena non è scontata, perchè un fratello è monade famiglia, di nulla (in pubblica piazza) meritevole, di nulla e così sia.


E cosa resta, del passato straniero, divenuto presente collettivo?

Polvere, bandane, manifesti per la via. E macerie, a solo un anno di distanza, ed un piccolo gingillo ad occupare i Dioscuri, un Palazzo in centro ad aspirarne frustrazioni e velleità. Il passato lo si polverizza, ma la cenere s’accumula negli interstizi più minuti.

I Diosuri, indivisibili, dalla culla al trionfo; dall'alveo al tramonto.

Fossero pure invisibili a tutti, non lo sarebbero giammai a loro stessi.
E così sia.

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