venerdì 14 settembre 2012

CITTA' DI AMARE CONCOMITANZE














Città di Mare con Abitanti (caro vecchio Compagnone), Napoli e le sue paillettes arrossate, la sua plebea pudicizia, i suoi posticci a raggiera; i Napoletani, e le loro impudicizie ad inganno, quel candore androgino, smerigliato e puntuto, d'una popolazione eterogenea e complessa. Complicata. Emerge, canto dolente, tenebroso, come “‘ cupa o rua o vicariello", una città immacolata e mai monda, pura di cunto ed essenza, eppure prosaica e insozzata, nell’amnios fetale d’un teatro periferico, polifonico, mai provinciale, come onfalos di gusci tufacei in disfacimento, con plessi ed architravi industriali, come masserizie scheletriche, ad indicare un futuro svacantato e svuotato di senso. Senso ottuso, ovattato, d’una maieutica minimalista, d’exempla in soffio di labbra, del far popolo, dell'esser tessuto sociale, e compenetrarsene; il Palazzo come antica camiceria, per vesti ben cucite, calate addosso a docenti/politicanti e cittadini/discenti che tendono ad ellisse, a circoscrivere una pluri-decennale attività, una “radio-attività”, che permea il terriccio, adattandone l’humus, e scavandone in costanza, e coscienza, fiumi di carsica politeia da rive gauche, da fumisterie cabarettistiche para-berlusconidi mai illuminate, e d’immenso, raro talento, per brezze politiche d'essenza sfumata e troppo esile al tocco. Sindacatura, come sciassa a tre colori per animalità da palco. Da fermentare, sobbollire, montare, di linfe e derive demagogiche e novelle, smussando gli angoli di boiseries sinistrorse da pianeta radical chic ed intellettualoide, da paraninfi/stagisti imbellettati, a sminuzzare il senso ermetico d’una piece da ribalta mediatica gaglioffa, fino all’ultimo pezzo, fino all’estremo lacerto da strappare come applauso. Linfa plebea; e qual miglior fiera da mostrare, esotico e drammatico vezzo, da belletti di scena pieni di finzioni sovrastrutturali, che quel nostro Sindaco, calato sullo scranno dal basso, anima alla deriva per un partenopeismo da rinnovare, partogenesi pensata malino (e venuta su alla men peggio), grotesque, vivida e comunque "incendiaria"; potere sospeso sulle miserie dei basoli, mutazioni simbiotiche d’identità lazzare irredente, tra un femmineo machismo avviluppato nelle trame amministrative fumiganti e vaporose, di più, vacue ed ampollose; posticci incartonati a far da pendant ad istituzioni in agnizone perenne (“Don Antonio" prima, adesso "don Giggino"), per la progettazione periferica d'una metropoli una volta regina d'Europa. Ed ecco il novello efebo-alfadominante tricoricciuto, Candide luciferino, spirto del tempo fosco, a recidere il capo d’un meridionalismo tendente al borbonico e defunto, e forse mai seppellito (spoglie mortali, annacquate, che smottano nel deliquio): Ferdinando, o Giggino, un Goodot proditoriamente mal-rivelatosi; e facce da schiaffi, da palco, Marzia, Sarah, Maria, Alessio, Alessandro, Claudio, il "Divin Claudio", pastorielli d'un presepe dirigista approntato sul desco dei soliti, quelli noti, quelli dal panciotto ridente e ruspante. Ma è carne tremula, disseccata, solcata da trucchi di scena e canti erranti, quella di Partenope: divine muse del Populismo politicante, cedono di schianto, come per colpo esploso e ferraginoso, per trame discinte e "perversismo" borghese, paludate vesti al corpus aggrovigliate, d’un membro in testa, capo e Primus simil-virile e mai ascoso, l’incedere dello Zeitgeist a pane e puparuoli dietro di sé, ingordo e folle nelle foie adolescenziali di Reuccio Murattiano, scazzamauriello famiglio e consociativista al di là dei proclami, "gabbatore" che in gabbia mise una città, ghettizzandola ed appiedandola senza ritegno e buon senso alcuno, alla recherche dell' unico culto perduto: il suo. Si sazia della sua verità, tracannando in alto il calice di abulici e laceri miti rivoluzionari che son più corrotti delle fiabe antiche, come se fosse di Perrucci la Cantata, trasfigurati da cantori stracciati in nobili preci litaniche, verba di popolo abbacinato, per una Parola disvelata, che rimbomba del suo verbo mediatico e storpio. Giggino sradica la fenomenologia della sua personale ribalderia voyeuristica, si scontra con la realtà delle sue rappresentazioni immaginifiche, il Falso Lume a fugare le surrettizie celebrazioni di una Neapoli - la Sua Napoli - dedita ad un’autorappresentazione blanda e sovente stucchevole, perché s-personalizzata, in guisa di costume, a prescindere dalla teatralità sociale d’un palcoscenico a barnum, adagiato sulle lepidezze d’una opposizione farlocca, interessata e comunque sempre più diafana. Canto del cigno, per una Politica ritualizzata ad libitum, sfruttata come corpo e merce, kitsch artefatto per travestitismo rituale, ormai di facciata; al pulsare ritmico d’un neon ideologico, che si riversa, lunare, sul lume (non eterno, semmai etereo) ad olio d’un decadentismo borghese piccolo-piccolo e ormai solo e soltanto scenico. E semmai osceno, perché non più autentico. Eppure la lengua del Potere s'accontenta d'esistere e nulla più, raccatta i lacerti, e s’ addobba delle “moderne” radici bene-comuniste, perpetuando il rito, impervio, d’una vaghezza conforme alla moda del momento, che s’adombra e rischiara ad uroboro, all’umido della sua muffa . Merito e plauso comunque al taglio mediatico, questo sì, barocco e arlecchino, della regia e delle scenografie di San Giacomo, che mantiene la livella sempre alticcia per delineare i contorni di nuove drammaturgie, con testi non sempre all'altezza, ma pur sempre fantasiosi, seppur poco incidenti. E come tali da maneggiare con formalismo vacuo, e senza la dovuta attenzione e cura.

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