Soscia ‘o viento
Cazzo. Ci mancava solo ‘sto cazzo di terremoto. E poi brucia da morire, anche se a vederlo non sembrerebbe. Tutto liscio, gloria e denaro. E invece. ‘O Terremoto! Fanculo al terremoto.
E poi…dove… sono…finito? Buio. Dissolvenza. Sogno.
Nei film americani…Rambo, no? Grugno in cemento armato, muscoli scolpiti col martello pneumatico, mitraglia a mano, incazzato come un bufalo indiano. Sparato, accoltellato, mille, cento, infinite dannatissime volte. E lui sempre in piedi. Sempre lì, accanto alla bandiera stelle e strisce, come se niente fosse. Voglio una parte anch’io. Mi spetta. Nel film, nella vita.
Bigliettiprego. Cartavincecartaperde. Guagliò, addo’ vaie, chi si’, che vuo’?
E a me era bastato uno sparo. Solo. Striminzito. Un solo fottutissimo buco in petto. E che cazzo di film di merda, allora! Eppure.
Eppure doveva essere una fesseria, Sasà così diceva, ma quello era sempre stato ‘nu strunz, nu chiachiello.
Lo sapevo questo, l’ho sempre saputo. Assieme a quel coglione avrei fatto prima o poi la fine della zoccola arricettata.
Cazzo come brucia. E che caldo. La testa nel forno. Mammà s’incazzava quando ce la mettevo.
Fa caldo in questo sogno di mezza estate. Rovente, ti entra dentro e ti fa evaporare il sangue. O era febbre? Una febbre nervosa, fredda. Brividi per tutto il corpo, la fronte imperlata che luccicava, colpita da un lungo raggio che s’era fatto strada a spallate. Sole incrostato, luce appannata.
“Presto! Facite ampressa! Ccà ‘nce sta’ nu guaglione!”. La voce di un uomo. Lontana, vicina. Un vociare come onda, come brusio.
Alzo gli occhi, verso il nulla: nebbia, calcinacci, munnezza e acqua a perdere. Acqua storta.
Ma siamo a Napoli o in Egitto? E le piramidi addò stanno?
“Guagliò! Nun durmì, mò arrivamme. Mo’ te sarvammo!”
Sì, sì. Sto bene…ho solo caldo…caldo da morire. Sto…bene...
Bene, male? Guarda. Guardala! La ferita al fianco destro era un piccolo strappo, lercia di sangue, un rivolo costante. Un rubinetto di catrame rosso, a perdere, un taglio slabbrato al becco di Paperino: Paolino, Giggino o come cazzo si chiamava quel papero sfigato, sempre senza un quattrino, sempre a tentare di spiccare il volo con quelle tozze alette da gallina. Perciò si diceva “senza il becco d’un quattrino”, perché da povero sei solo un poveraccio, un papero senza mutanda pure tu, non hai le ali per volare, puoi solo arrampicarti sulla vita. Con le unghie, a morsi, sputando denti e bestemmiando. Senza tregua, senza garanzia. Una delle sue magliette preferite, puttana. Adesso era da buttare.
Ci tengo la mano sopra, premo e pizzico, che fa meno male. Pure Rambo fa così, il cemento qualche volta si crepa. Già, a volte si crepa.
Buonoecattivo: nei film è facile, nei film i buoni non muoiono mai, un carnevale di proiettili ed esplosioni vaganti, e nessuno che si decida a morire per davvero. Eroi immortali, ed io voglio essere come loro. No. Meglio cattivo. Meglio che mi sparano, che così la smetto, troppi sputi sulla tomba di mia madre, troppi scippi su quella faccia di marmo bianco e pallido. Tanto solo scippi potevo, fare, chi cazzo…me l’ha fatto…fare?
E i Buoni mi hanno sparato. Bucato il fianco, puntura di spillo. Bucato la faccia stupita di questo papero di merda. Una puntura di spillo insistente, fiaccante. Da perderci il fiato, ed il sonno.
“Guagliò, nun durmi’!”.
Il dolore. Se non respiro lo sento urlare. Prende le costole, s’aggrappa al braccio, m’invade il cervello. Piangere. Voglio solo piangere: adesso raccolgo le forze, tutto me stesso, e piango. Scorro via come ‘ste dannate lacrime. Che l’unica che scorre, è l’acqua delle condutture. Tic-tac-tic. Una goccia alla volta. Una goccia ancora.
Doveva andare tutto liscio, eh Sasà? Era solo ‘na camminata? E che chiavica di passeggiata, Sasà! Ma con chi sto parlando? Adesso dove cazzo stai? Ragazzino, muschillo, merdillo, cazzo d’un Sasà! Sei steso a terra, ti vedo. Coperto dal tuo sudario bianco, l’oscenità della morte innocente, quella che non si può, non si deve vedere, che va celata agli occhi degli uomini, perché nessuno vuol vedere il futuro riverso sul marciapiede, una pozza di sangue ad affogarne le speranze.
Nessuno vuole vedere davvero.
E tu sei morto, la tua vita periferica è morta. Schizzata via. Tumulata. Crocesopra. E il terremoto ci ha finito di seppellire, ha mondato i tuoi peccati, assieme ai tuoi sogni di quindicenne. Eroe per poco, pure tu, per meno di duecento euro.
E’ quanto vale una vita?
E quanto vale?
Duecento euro del cazzo.
Ma tu nun rispunne, le risposte quando mai le hai conosciute. Mica le conoscevi? Perso come me, come tutti, dietro il frastuono di una ruota che gira, all’ infinito. Una vita di latta, come una scatoletta per cani. Cani e pidocchi. Con quel poco che ti offrono. E devi pure scodinzolare per ringraziarli. Per ingraziarteli.
Cazzo, mi hanno sparato!
Suoni, musica, granelli di polvere. La terra che trema? No, è musica adesso. La sento. S’arrampica e discende, segue il gorgoglìo di questi tubi ferrosi. Lontana, indistinta. “Jesce sole…saglie ‘a temperatura…cu ll’onna de lu mare…alluntana ‘sti janare…”. Esci sole, esci. Illumina e distogli, scaccia queste ombre, le janare che girano attorno. Neri corvi avvoltoi. Fanculo! Le posso afferrare. Se mi concentro, le posso fermare.
Respiro. Puntura. Attendo. Riparto: respiro-puntura, sempre uguale. Il disco è rotto. Mille aghi di pino conficcati nella carne: aghi sottili e pungenti come quelli di un abete di Natale. Piccolo abete aguzzo come denti di topo. E chi ce l’ ha mai avuto un albero di Natale vero, di quelli che perdono le punte? Solo plastica, solo paccottiglia “made in china”; le stigmate dello sfigato cucite addosso, brillano come labaro in petto, filate da bambini sporchi a mandorla, in rincorsa inutilmente. Perennemente indietro.
Sedici anni. Sono quelli che posso permettermi.
Il Natale. E poi perchè Natale, che siamo a Ferragosto? Eh, Gegè? Gegè!
“Guagliò nun durmi’!”.
Svegliati, ragazzo, non puoi addormentarti. Pensa. Pensa, pensa, pensa…A tua madre, a tua sorella. Giulia. E’ sola adesso. Io? Moriròvivrò? Cazzo ne so! No, tu sei giovane ragazzo, tu si’ nu piccerillo ancora, sei ancora un bambino. E sei forte. Vedi che all’ ospedale ti dicono che è solo un graffio, come quella volta che cadesti dalla bicicletta e tua madre volle portarti a forza al pronto soccorso, anche se tu continuavi a dirle che no, non li volevi i punti sulla gamba, che poi ti avrebbero chiamato sfrigiato, che non ce n’era bisogno. E oggi? Quanti punti ti metteranno? Abbastanza. Sì, fanculo, abbastanza! Da passare dal via e ritirare un bonus per una nuova vita.
Ci provo…ancora…una volta.
“ …quanno schiare juorno, fa’ spari’ chisti taluorne…” Musica. Che segue la luce. E la terra che vomita, ne vomita ancora, mille note, mille e poi mille. Tarantolata, come danza di morte. Vieni e abbracciami, portami nel fuoco e nelle ceneri, nell’inferno e nell’oblio. Portami via da qui.
Non lo senti il cuore che batte? E’ veloce il tum tum, sempre più veloce…
Ma tu non vuoi che si fermi. Preghi. Una musica silente, a fior di labbra violacee.
Trema la terra.
Tremi anche tu.
E’ buio. “Astrigneme ‘a mano”. Perché non me la tieni nelle tue, perché? Mamma.
Piango. Ed ero l’uomo di casa. Piango. Che omme si’? Ed è giusto, giusto così.
Mamma. Non ti devi preoccupare più. Ci penso io a te adesso. La polvere di un ricordo.
Spazzato dal vento maligno di una terra nera.
“Tranquillo, guagliò. Stiamo arrivando. Ci penso io a te, adesso!”.
Padre. Padre invisibile, padre inesistente. “Questa è la preghiera dei carcerati…”.
Fuori, dentro. Dentro, fuori. Poggioreale era la tana del lupo, io ci portavo le mie mani giunte in preghiera, la mia faccia spaurita da preda in fuga. Il lupo lo conoscevo, avevo i suoi stessi occhi. Padre camorrista. Ed io, suo figlio. Un corridoio a scacchi. Angoli muti, spigoli ciechi. Un altro corridoio. E poi sbarre, sbarre a volontà, sbarre a strafottere! Ma io lì dentro non ci sarei mai finito. Un topo i muri li crea e li distrugge, le gabbie le rosica via. La zoccola in trappola se magna a muozzeche. Zoccola kamikaze.
Il carcere è per i perdenti, così mi hanno detto, così è sempre stato. Gli eroi mica ci finivano, in carcere. Ed anche se qualche volta la gabbia s’apriva, era sempre per poco. Ci vuole la chiave. Con la chiave giusta…io ce l’ho, l’ho sempre avuta. Si trova sempre un modo per fottere la vita. Sennò fotte lei te. Papà. Cazzo. Gli eroi, loro, uscivano sempre, scappavano via , lo trovavano sempre un modo per metterglielo nel culo, ai poliziotti. E tu l’ hai fottuto a chillo ca t’ha sparato?
“ Si, io t’ aggio fottuto! So’ scappato, strunz!” .
Quel coglione di Sasà. “Gegè, il colpo è semplice. A questo qua gli dobbiamo fare il cavallo di ritorno. Chille vo’ ‘o motorino, e nuie ce pigliammo ‘e sorde, quale è ‘o problema? E pure se ci pigliano, nuie simme minorenni, Gegè, non ci possono fare niente…nuie c’ ‘a futtimme ‘a polizia!” Sasà…e l’hai fottuta la polizia?
Tutto bene, tutto liscio. Avevamo preso pure i soldi. Il tipo sudava, la faccia stravolta. Stava là, con le banconote strette nel pugno e tremava tutto, sembrava posseduto, in preda ad una crisi isterica.
Non mollava, la mano serrata in un pugno. E poi.
“Strunz! Lasce ‘e sorde ca si no te scass’ ‘a capa!”. Sasà. I soldi.
Mi compravo un telefonino nuovo, quello che fa anche le foto, così ci mettevo quelle di Sara. Io e lei che ci abbracciamo sulla spiaggia, così levavo pure lo sfondo con la capa di Maradona, che quello era un panzone strafatto a coca oramai.
Tutto liscio. Poi quello stronzo esce fuori e dice che ci ha fregato lui, che ha chiamato la polizia, che così ci fottiamo noi, e tutti i nostri bei propositi del cazzo. In un minuto luci, tuoni, un casino di freni e ruote che sgommano, due lampeggianti che ci puntano: è finita Sasà, scappiamo. Pigliamo il motorino e scappiamo, quelli stanno con la macchina, vedi che non ci pigliano in mezzo ai vicoli. “No Gegè, io a questo pezzo di merda gli sparo, e sparo pure a chilli sfaccimma in divisa. Vincimme nuie Gegè, vincono sempre i migliori!”.
E dove l’ hai presa la pistola, Sasà? Dove cazzo la tenevi, che quando ti stringevo i fianchi sul mezzo, mentre m’aggrappavo a te per non rotolare via, non l’ ho sentita?
“Sasà, nun fa strunzate, quelli so’ poliziotti, s’ impressionano, facimme ‘na brutta fine…Sasà!”.
Moviola in campo lungo. Fuochi fatui, che vorticano nell’aria. La macchina da presa vacilla, freme, tremula: la strada s’apre come terracotta, urla e lividi, brecce e disperazione. L’ombra dei palazzi oscilla, “fujtevenne, fujte…o Terremoooto!” . E alla fine il sipario cade, assieme al teatro.
E sparano.
Sparano prima loro, Sasà. Puntano le ombre, ma la canna è storta, il tamburo gira, e pesca il nostro numero. Bum! Hai perso, mi spiace. Nei film sbagliano sempre, non ti colpiscono mai, paiono comparse cieche che tentano la sorte: ma a Napoli la sorte non te la scegli, te la regala sempre qualcuno. Qua la ruota gira al contrario, la pallina si ferma sempre sul numero sbagliato. E quando esce sei fottuto. E allora spara, spara anche tu amico mio, spara al cielo e alla nostra miseria!
Tanto la pistola è finta, va a vuoto, come te, come me. E’ solo un’ imitazione, “made in china” pure questa, l’ennesima di una vita menzognera. I nostri son colpi d’aria, leggeri, carezzevoli, inutili. Bolle di sapone. E con le pistole finte s’ammazzano solo i sogni, non lo sapevi?
Siente comme soscia ‘o viento, siente…
Cazzo, il dolore. Stordito dal calore dolciastro di questa estate a brandelli pareva assopito, cullato da queste mani che scavano sanguinanti, dalle voci impastate di calcinacci e dalle sirene ovattate. E poi la musica. Ancora… la… musica.
“…fernesce ‘a malaciorta, e caccia fore ‘a morte…cielo nun chiovere…jesce, jesce sole…”.
Basta. Portatemi via, che da solo non voglio restare. Tempo. Troppo ne è passato, che ore sono? Ho caldo, poi. Che cazzo di ore sono, che pare di affogare nel Vesuvio con tutto ‘sto calore? Quanto tempo è scivolato via, dalle mie mani, dalla nostra pelle scarnificata e bruciata da questo sole gelido ed implacabile? Gli spari, le grida, io, tu, i lampeggianti… ‘O Terremoto!.
“Buttala a terra, buttalaaterra, butta…la..aterra…”.
T’aggio fottuto io…io…ho… freddo. Sasà adesso sento tutto il freddo dell’inverno più lungo, e poi è notte, è sempre stata notte, amico mio.
Adesso dormo.
“Guagliò, nun durmì! Stai sveglio, siamo arrivati! Presto, la barella, è ferito…facite ampressa!” .
No, io…è solo un graffio, sono caduto, la colpa non è mia…è stato…è stato Sasà, è sua…la colpa. Ma la colpa di chi era? Mia, tua, nostra o collettiva, che differenza fa?
La scena madre. Me la sono sempre immaginata così, Rambo. Sei ferito, ma hai ancora un colpo in canna: vedi le pale dell’elicottero che ti volteggiano sulla testa, ti sta aspettando, come un condor la sua carogna, vuole godersi la fine. In prima fila, in prima linea. Le senti le urla, Rambo?
Il caos attorno al tuo corpo schiantato, ebbro di dolore, il sangue che ti scorre davanti agli occhi, un filtro rubino davanti alla tua vita nuda, data in pasto alle belve furiose che t’agitano le budella. E i dollari. Una montagna di fruscianti banconote con lo stemma dello Zio Sam stampigliato sopra, affogato nel verde oleoso dell’inchiostro, il sangue del capitalismo americano che ti ricopre come un tappeto di petali setosi.
E tu sei steso per terra, finito, della fine che volevi. La tua apoteosi, il tuo personale crepuscolo degli dei. Quella morte vista mille volte in uno schermo screziato d’azzurro, finalmente vera. Tremendamente reale.
“Uggesù, ma chest’ e’ sanghe! Guagliò nun murì!”.
La ferita. Pulsa senza requie. Poca forza nelle mie mani, sento che fugge via, come il mare in risacca. Quel mare tra le dita, quando sfrecciavo in motorino per il lungomare, Sara dietro di me, aggrappata alla maglietta leggera con le sue unghie fasulle, uno smalto bianco, d’una pallida luna mangiata a metà. Le dita della morte, le dita dell’amore.
Una mano mi preme sul forellino, cercando di tamponare la vita che mi sfugge via, da questo petto senza peli, da questo cuore che batte lentolento. Sempre più piano.
La faccia di Paperino è stupita, pare allucinata, fiaccata da questa estate sciropposa, senza via d’uscita. O forse è solo spaventata.
Il sangue cola copioso dal becco ferito, adesso lo vedo. Rosso, come vino sulla tovaglia. Che strano, i fumetti non sanguinano, non provano dolore, non vivono e non muoiono. Eppure io…io… sto morendo.
Le forze lo abbandonarono. Il corpo del ragazzo scivolò giù, come risucchiato da una forza invisibile che lo attraeva a sé, con grazia, senza un gemito. Era stordito, Gegè, le gambe inchiodate, le braccia che formicolavano.
“Ma’, fammi dormire, lasciami chiudere gli occhi…il sonno non mente, non può ferirmi…famme durmì”.
Le voci gli furono sopra, lo circondarono. Poliziotti? Lo avevano preso, allora.
Si sentì sollevare, piuma senz’alito, corpo senza carne: un piccolo Cristo senza la sua croce, issato sulla folla ondeggiante e lamentosa.
“Maronna mia, facce ‘sta grazia! Sarva ‘o piccerillo, sarva ‘stu guaglione!”
“Ho paura…ho solo… paura”.
Una donna lo coprì.
Madre: ma non è il tuo volto.
Madre: perdona se puoi.
Madre: ho freddo. Ma è luglio.
Ho freddo e non c’è fuoco che mi possa scaldare…ho freddo per tutto quello che ho perso, e che non ho mai conosciuto…ho freddo…ed è un freddo mortale.
Chiuse gli occhi, senza versare una lacrima. La ferita adesso era una rosa vermiglia che gli inzuppava la maglietta, un fuoco spento che gli ardeva in petto.
Paperino, con occhi sbarrati fissava un cielo torbido, opaco e senza luce. Stupito, lui che era immortale, d’esser morto davvero, come un uomo qualunque.
Come un sogno interrotto da una pallida alba, in una città vera e dolente, dove anche i bambini potevano morire.
“…Jesce…jesce…jesce sole…”.
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