lunedì 19 aprile 2010
Leggere: perchè no?
Corsi e ricorsi storici. Ma anche Corso, come Mario (“fogliamorta” Mariolino, che punizioni!) e rincorse, come balùn a rotolare in bilico sull’erba; oppure ricorsi, come tribunali, carte bollate ed intercettazioni bollenti nel marasma di Calciopoli (certe facce Moggi!): insomma il calcio è pur sempre quel meraviglioso balocco per bamboccioni troppo cresciuti che si suole appellar tifosi. O “malati” per usare un termine caro a De Giovanni. Maurizio De Giovanni, of course. Scrittore neapolitano, tifoso sfegatato, “giallumorista” sagace e dolente, l’aedo lirico in salsa azzurra ritorna sulla scena del misfatto, come epigono reale del suo melanconico Ricciardi, commissario “maledetto” dal dono imperscutabile. Eppure quel corpo staziato, tre strali mortali sul corpo stecchito della Signora in bianconero, ancor gridano vendetta: chi affondò il colpo, chi tirò al cuore? Il Ciuco. Sissignore, il ciuchino: l’asinello armò lo zoccolo e colpì, lasciando sul terreno paludoso del Comunale, una Juve più biliosa e verdognola d’uno Shrek in calzoncini smorti. “Juve-Napoli 1-3, la presa di Torino”, fu l’andata dell’86, il nove novembre, per la precisione: la disputa ferale, la summa teodicea tra il bene e il male, che vide gli angeli azzurrognoli dell’Arcangelo Maradona (e ci voleva davvero “la mano de dios”) trionfare sugli Agnelli Sacrificati, quei poveri insaccati di Tacconi, Cabrini e company; e mai presa fu più bella. Ma vogliam mettere con la ri-presa? “Miracolo a Torino, Juve-Napoli 2-3” (Edizioni Cento Autori) è il conto leggendario delle gesta gianduiotte di Lavezzi e compañeros in terra sconsacrata. Margherita, streghetta napoletana, persa nel sabbath zebrato, lassù tra le tribune spocchiose dello stadio in chiaroscuro; Massimo, sommerso dal rutilante andazzo d’ un barnum periferico, laggiù, negli studios popolari d’una emittente vesuviana, marziani azzurrognoli a far da contorno (vi dice niente “Mister Ribone”?). I loro sguardi s’ incrociano ancora, come fecero allora, quel dì lontano dell’86: lustri che passano, vite concentriche, assoli dell’anima, tiri furenti che gelan la strozza, ad un passo dal botro; nell’attimo estatico d’un goal a mezz’aria, tutto tracima, sfuma e confonde, nulla reale, forse è menzogna? Forse miracolo? E miracolo fu. De Giovanni è cronista fazioso, invero: un Soriano sapido e felino nel dipingere trame a incastro, il vezzo della pelota che segue l’estro, bizzosa al tocco, sempre indomabile. Eppur è corifeo fedele nel raccontar le gesta dei fujenti indemoniati di “Delaurentìs”, di quelli che s’infervorano giusto un po’, che gridano “E’ rigore sacrosanto!”, ma poi tirano giù i santi; che si cospargono il capo di cenere dopo aver dato fuoco all’allenatore inetto; che s’offrono in silenzio, a consolar mogli, amanti e figlie dell’arbitro bicorne (per non dir cornuto), anime prave a bruciar di passione ne “lo maggior corner de la fiamma antica”. E come sovente accade, più del nudo fatto, conta Leggenda.
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