lunedì 17 ottobre 2011
Neapoli, Via Foria, tra passato e presente
Cos’è una città? Ve lo siete mai chiesto? E’ un agglomerato di mura e mattoni, palazzi e strade, cemento e monumenti? Oppure, oltre ad essere un luogo fisico, è “anche” una costruzione metafisica al contempo? Non è forse un “corpus” unico di relazioni e passioni, tradizioni e tradimenti, sorrisi e tormenti?
Se la città è questo “unicum”, questo terreno fecondo, l’ humus primigenio da cui si generano ed accrescono le umane vicende, allora Napoli è “cosa umana” per eccellenza, è frutto prelibato e privilegiato della socialità e della cultura che ogni uomo può e deve esprimere. Napoli come ombelicus mundi delle passioni viscerali, dei tormenti e delle epifanie di un popolo complesso che da sempre si dibatte in sé stesso, avviluppato in logiche politiche e sociali che paiono sempre più marginali, ed incapaci di arginare il Mare Magnum di una indifferenza civica che rasenta ormai il qualunquismo più bieco e menefreghista. Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui i fregi delle statue e gli stucchi delle vie rilucevano al sole d’una capitale monarchica e millenaria, di matrice e stampo illuminato, di specie illuminista, in definitiva europea: c’è stato un tempo in cui questa metropoli possedeva un’anima feconda ed avanzata, tale da poter rivaleggiare con le altre gran dame d’Europa; le vesti sgargianti, il passo sicuro, incedeva maestosa nelle sale barocche del Gran Ballo della Storia, rilucente e regina, lo sguardo teso verso una gloria terrena che mai più riuscì a sfiorare. Quasi tre secoli son trascorsi da allora, il Settecento s’assise sul suo trono regale, quietando il suo spirito, assopendosi tutto, in un ozio mortale che s’impresse nel cuore e nella mente di una Napoli non più padrona del suo destino. Ed oggi? Lo sguardo della Gorgone ci ha a tal punto pietrificato? A tal punto il remo d’Ulisse s’è infisso nel tufo ambrato delle cave greche, delle mura angioine e dei palazzi nobiliari? Uno stato comatoso che si protrae nell’abbandono dei luoghi, nell’incuria delle vie, nella solitudine dei vicoli, nell’ombra marmorea delle chiese: un cupio dissolvi, horror vacui dell’anima un tempo feconda, di una città che dal mare spumoso nacque e che nei gorghi di un presente paludoso di sabbie e veleni rischia di affondare. E nessuna mano si palesa all’orizzonte, tesa nel soccorso, c’è solo la nostra ombra che s’allunga nel meriggio inquieto d’una notte tentacolare, oscura e silente come l’abisso del mare profondo. Allora, quali le speranze? Quali le soluzioni per una Napoli nobile decaduta, di antica dignità signora, e di cui s’ignorano ancora colpevolmente le potenzialità inespresse? Prenderemo ad esame un segmento topografico ben preciso, un tassello chiave per ricostruire per intero il mosaico partenopeo nella sua complessità metropolitana: la nostra analisi partirà dal celebre Museo Archeologico Nazionale, percorrendo tutta la direttiva viaria, e si concluderà nella piazza dedicata ad uno dei regnanti più amati dal popolo napoletano, Carlo III di Spagna, semplicemente Re Carlo per i Napoletani di qualche secolo orsono.
Il Museo, quel che un tempo era il Palazzo degli Studi, s’erge maestoso alla punta della via, anzi del Viale di Foria, scrigno Farnese e di classiche vestigia, voluto fortemente dai Borbone, perché Napoli rivaleggiasse con Vienna, Parigi e l’Europa tutta, senza timore reverenziale: un monumento che s’imprime nello sguardo del turista e nel quotidiano e frettoloso incedere dei napoletani d’oggi, che rincorrono il tempo senza afferrarne mai la coda. Speculare ad esso è la Galleria del Principe di Napoli, sorella minore di quella ben più salottiera (almeno nell’immaginario oleografico e da cartolina) e tagliata su misura per quell’ “Umberto”, Re Savoia della Partenope monarchica; la “Piccola”, costruita sul finire del secolo XIX, fu una dei primi edifici ad intessere una trama di vetro su un’anima di ferro, marmi e stucchi che si rispecchiano in un Liberty d’antan, che negli anni prese piede nelle vie chic e alto borghesi della città. Il progetto unitario del Viale di Foria, la cui toponomastica è da ricercarsi nei nobili casati del tempo che fu, e precipuamente in quello dei principi Caracciolo di Forino, che nella zona possedevano beni immobili e terre a coltivazione, vide la luce ai Lumi del Settecento, con l’avvento sul trono napoletano del nobile Re Carlo, che avviò un rinnovamento culturale ed urbanistico senza pari, rivoltando l’ex vicereame spagnolo come un pedalino merlettato. Sorsero dal nulla monumentali complessi rosso pomepeiani, di bugnato e tufo inghirlandati, promenades illuminate ad olio, ville e camminamenti di pubblico dominio: Napoli s’apriva al mondo europeo ed internazionale, pur conservando intatte le sue contraddizioni e i chiaroscuri così cari a viaggiatori e letterati d’Oltralpe; se ne leggono di bozzetti al riguardo, dall’americano Henry James, passando per il sarcasmo tipicamente British di Oscar Wilde, per finire al fantasioso virtuosismo barocco del francofono Dumas. Napoli da sempre ha attirato lo sguardo dei popoli come fosse una maledizione: forse l’invidia, forse l’incomprensione, fatto sta che lo straniero nei nostri confini si sente padrone di cantarcele sempre quattro, come se non fossimo da sempre bravi a cantarcele da soli! Tralasciando le beghe letterarie, continua la nostra promenade verso l’attuale Piazza Cavour (che immancabilmente, nel gergo più comune diviene “Càvour”, l’accento retrattile, come sfregio felino sulle rotondità savoiarde dell’esimio Camillo), nella quale ci si trova scissi e frastornati: alla nostra sinistra le meraviglie barocche del Seicento fruttuoso, la chiesa domenicana della Madonna del Rosario, detta del “Rosariello alle Pigne”, con la sua doppia facciata di stucchi eburnei; alla nostra sinistra, una colata di cemento armato di foggia rettangolare, un casermone frutto della rapacità imprenditoriale e del malgoverno laurino del secondo dopoguerra: l’edificio, costruito per ospitare moderne sale operatorie, strutture amministrative e logistiche dell’ospedale degli Incurabili, non servì mai all’uopo e da decenni ospita un comprensorio scolastico di vari indirizzi didattici. Il ciclope incombe maligno sull’emiciclo della piazza, oscurando i resti murari della Neapolis del V secolo a.C., e togliendo aria alla collina degli Incurabili alle sue spalle: il progetto di recupero urbanistico, che contava di ripristinare l’antica destinazione murattiana di villa e giardino pubblico, rimane lettera morta, mentre il sepolcro imbiancato ci guarda altezzoso, indifferente alla sua deformità architettonica.
Ma non è l’unica aberrazione urbanistica che incontriamo sul nostro cammino, quasi che la Dea dell’Armonia fosse vilipesa con dolo razionale da Tiresia ciechi e senza il dono della preveggenza: uomini indifferenti alla plasticità perfetta degli antichi, che l’arrivismo rampante di anni convulsi rese orbi ed arroganti. La chiesetta neoclassica di Santa Maria delle Grazie è sprofondata tra due faraglioni di cemento armato, che come due corazzieri implacabili la scortano dagli anni del dopoguerra; il complesso pare quasi soffocare, una prece silente che nessuno ascoltò mai, che non impietosì di certo i costruttori e gli affaristi del tempo. Sulla stessa direttiva s’apre l’antica Porta San Gennaro, uno degli innumerevoli portali in piperno del periodo vicereale, affrescata con perizia dal calabrese Mattia Preti, in occasione di uno dei pestilenziali flagelli che s’abbattevano con regolarità circadiana sulla sventurata Partenope; alla base dell’affresco è assiso un San Gennaro marmoreo che benedice la cittadinanza. Nello specchio della porta s’intravede lo spicchio dell’antico complesso monastico di Gesù delle Monache, con l’elegante facciata di piperno a doppio vestibolo tipico del Seicento barocco napoletano: la chiesa è un gioiello di fregi e decorazioni, al suo interno vi sono le opere delle grandi firme dell’epoca, quali il Solimena, Luca Giordano, il Vaccaro, il de Matteis; il monastero s’ allunga poi su via Settembrini, dove l’antico ed il moderno si tendono la mano, in una contiguità muraria tangibile, oltre che figurata. Il MADRE svetta signorile e compatto tra stradine che un tempo risuonavano dei canti antichi e delle urla sguaiate di un popolino signore indiscusso dei vicoli: il museo è stato inaugurato nel duemilacinque nei locali di quello che nell’Ottocento era il convento di Santa Maria di Donnaregina, e che fu in parte ridimensionato per l’ apertura della Via del Duomo, cardine principale che collegò il Settecentesco Viale di Foria con la zona portuale. Arte concettuale, Dada, Pop Art, Minimalismo, hanno trovato una casa feconda in cui svelare sé stesse ad un pubblico di cultori o semplici curiosi: numerose le opere ospitate, tutte ascrivibili ad artisti di fama internazionale ed indiscussa, quali Kounellis, Koons, Paladino, Kapoor, la Horn, eccetera. Continuando il nostro iter per il Viale, tornando per un momento all’intersezione di Via Duomo, davanti ai nostri occhi si staglierà il Palazzo dei Busti dell’architetto Schiantarelli, lo stesso cui si deve l’armonizzazione del Museo Archeologico con i dettami funzionali e decorativi dell’epoca: l’edificio, abbellito con busti in marmo di pregevole fattura, fronteggia l’ennesimo monstrum sorto dal marasma degli anni post bellici, il grattacielo Ottieri, una follia di cemento armato alta quanto un transatlantico, nel pieno centro della città. Ancora frastornati dal caleidoscopio architettonico che ci si para innanzi, e che frammenta le dinamiche urbanistiche in isole a mosaico di diversi generi e stili, sulla prosecuzione del Viale di Foria ci imbattiamo nella chiesa secentesca di San Carlo all’ Arena, con l’annesso convento circestense oggi sede di comprensori scolastici. La chiesa prende il nome dalla rena che anticamente si riversava a valle dei Vergini, nei giorni di acque torrenziali, trascinando seco argilla e masserizie d’ogni sorta, un fenomeno visibile fino agli inizi del Novecento, annoso tormento per gli abitanti dei bassi, per le matrone dei vicoli che si dannavano l’anima per tenere l’acheronte fangoso fuori dei loro usci, armate di ramazze e scopettoni di stracci. Più avanti, sulla nostra destra, si noteranno due bastioni imponenti, le Torri Aragonesi, o meglio quel che delle torri resta, nella sola base dei due maschi, che cingevano l’angolo a nord del perimetro murario ai tempi Angioini ed Aragonesi: nel Seicento le spesse mura di piperno furono inglobate nel convento dei Padri Agostiniani di San Giovanni a Carbonara, che si fregiò di aver tenuto a battesimo intellettuali ed umanisti di pregevole ingegno, quali il Pontano e Jacopo Sannazzaro.
Al principio del secolo XIX, a seguito delle nuove ordinanze napoleoniche che sopprimevano gli ordini religiosi, i frati lasciarono la costruzione, che fu riconvertita ad uso militare e paramilitare: fino alla prima metà del Novecento, il complesso ha ospitato la caserma Garibaldi, che ad oggi è la sede dei giudici di pace. Ogni mattina sciami d’avvocati calano in zona per attendere ai loro uffici, e la viabilità ordinaria ne risente, ingolfandosi e enfiandosi come un fiume in procinto di tracimare. Siamo infine giunti all’ultimo tratto del Viale di Foria; ai lati della via si stagliano, maestosi, palazzi nobiliari che sfidano l’incedere del tempo, aprendo lo sguardo ai fasti borbonici dell’Orto Botanico e del Palazzo dei Poveri, il Real Albergo voluto fortemente dalla consorte di Re Carlo, Maria Amalia di Sassonia. Alla nostra destra Palazzo Ruffo di Castelcicala, dall’elegante facciata neoclassica , tre portali che ne disvelano gli androni di spazi e di luce, le scale squadrate che s’arrampicano al cielo come in un quadro di Escher, marmi d’ un lucore accecante, stemmi e stucchi che scrutano il viandante dall’alto della loro gloria passata. All’incrocio del Viale di Foria con via Pontenuovo, gettando uno sguardo all’interno del reticolo viario si scorgerà la residenza dei Principi Caracciolo di Forino, ramo blasonatissimo della famiglia Caracciolo, che nella zona possedevano sfarzosi palazzi e financo il loro sepolcro nel convento di San Giovanni a Carbonara. Da loro infatti prenderà nome il Viale che ci onoriamo di percorrere.
Le traverse adiacenti, sempre sulla nostra destra, celano i fasti e le assi polverose di due tra i più celebri teatri di Napoli, il Totò ed il San Ferdinando: soprattutto il secondo, l’“Elicona” delle muse che ispiravano Eduardo De Filippo, monte sacro della tradizione napoletana, ha avuto un passato travagliato ed il suo futuro non appare ancora del tutto chiaro. Distrutto dai bombardamenti alleati nel settembre del ’43, il teatro fu ricostruito fedelmente, asse dopo asse, putrella dopo putrella, fino ad alzare il sipario a metà anni Cinquanta, tenuto nuovamente a battesimo dal suo vate indiscusso, quell’ Eduardo che a Napoli vide la luce e a cui di riflesso donò il cuore e l’anima, ma soprattutto la voce. Attualmente il San Ferdinando ha ripreso gli spettacoli, e fa parte del circuito del Teatro stabile comunale, assieme al Mercadante. Ed eccoci infine giunti innanzi a d un monumento storico senza pari, quell’Orto Botanico tra i primi d’Europa per la sua centralità scientifica e per lo studio delle biodiversità vegetale, fondato nel 1807 dal Re Bonaparte, su un pregresso progetto Borbonico: naturale evoluzione di quegli “Orti dei Semplici” di fattura monastica, pregevoli esempi di una scienza e d’una coscienza empirica in progressione, in cui si portavano a coltura erbe e piante medicinali d’ogni sorta, l’Orto fu voluto fortemente per innovare la ricerca medica sul campo, con lo studio della biosfera vegetale assunto come paradigma del fertile momento che le scienze tutte vissero nel Secolo dei Lumi. Non che a Napoli non vi fossero isole felici dove si coltivassero piante ed alberi da fusto, ma erano appunto insulae private, oasi fugaci e semi-clandestine in cui lo studio dei pochi si contrapponeva all’ignoranza dei più: esempi in merito furono il cosiddetto “Giardino della Montagnuola” del dotto Pinelli, sito sulla collina dei Miracoli, oppure la “Villa delle Due Porte”, sulla prospicienza del Vomero, di proprietà dell’ottimo Gian Battista della Porta, o per finire, il giardino botanico della Carbonara, del Niccolò Cirillo, avo del più famoso Domenico, scienziato e martire della furia Borbonica susseguente alla Rivoluzione del 1799. Esempi di una curiosità intellettuale a macchie, miceti sporadici che pian piano colonizzarono il fertile humus partenopeo, instillando il daimon della ricerca scientifica, pungolando le menti degli studiosi del tempo, e che diedero come frutto eccelso proprio la costruzione di un Orto Botanico Reale, dove lo scambio culturale e d’informazioni non trovasse ostacolo alcuno, ma anzi fosse un tempio laico sotto cui trovare ricetto e conforto. La progettazione architettonica dell’ Orto risente di vari influssi, ma la facciata a doppia rampa la si può con certezza ascrivere alla matita dell’ottimo Giuliano De Fazio, che realizzò anche alcuni dei viali interni del giardino; nei secoli passati l’Orto fu aperto al pubblico, e rivaleggiava con la Riviera di Chiaia e la Villa Comunale col suo stile liberty: le famiglie borghesi e gli artigiani del rione della Sanità, le popolane chiassose, del “Buvero” matrone indiscusse, si ritrovavano nella torma domenicale, perse nel cicaleccio festoso dei giorni sonnacchiosi, passeggiando a braccetto sulla Terrazza Carolina, camminamento panoramico prospiciente il Viale di Foria. La via che porta alla chiesa di Santa Maria degli Angeli alle Croci, così appellata perché anticamente v’erano infisse delle croci ai lati della stessa (simbolo di pietas e monito del Golgota), porta ancor oggi il nome del primo direttore della serra botanica, quel Michele Tenore che ne serrò le redini fino all’Unità d’Italia, contribuendo non poco alla diffusione delle scienze biologiche nel Regno di Napoli. Pochi metri più innanzi s’erge il monumento più significativo e “disgraziato” dell’intero Viale, quel Real Albergo dei Poveri che dalla sua fondazione ad oggi, ha conosciuto un destino tormentato e peregrino, e che da trionfale porta d’ingresso della città per chi discendeva dal belvedere di Poggioreale, s’è trasformata in labirinto informe, in cui il minotauro napoletano s’è smarrito, rimanendo appeso al filo della speranza, nell’attesa che un giorno la sua dimora risplenda come allora, ancora una volta.
Certo il vecchio architetto Ferdinando Fuga aveva fatto le cose per bene, non risparmiando se stesso, né lesinando energie; e lo stesso dicasi per il buon Re Carlo, che allargò i cordoni della borsa oltre misura, pur di realizzare la sua utopia popolare, dando ricovero ai diseredati e agli accattoni del Regno intero; ed il suo sogno vide finalmente la luce nel 1819, quando fu posta l’ultima pietra a compimento del monumentale sforzo urbanistico: nel momento di massima espansione demografica della città, l’Albergo arrivò ad ospitare circa duemila reietti, che furono avviati all’insegnamento di un qualsivoglia mestiere che restituisse loro dignità e rispetto. Da allora l’edificio ha ospitato ogni sorta di iniziativa didattica, laboratori artistici, associazioni polisportive, e quanto di più fantasioso abbia mai partorito mente umana. Fu il terremoto del 1980 a segnare la fine del più grande ricovero mai costruito: le scosse telluriche diedero la spallata finale ad un edificio già gravemente danneggiato dall’usura del tempo e dalle bombe a grappolo piovute dal cielo nelle notti senza luna, quando l’unico canto che s’udiva sul mare, era quello delle sirene antiaeree che preannunciavano una pioggia di fuoco dall’esito incerto.
Vi starete forse chiedendo il perché di un ‘anamnesi storica così prolissa per una inchiesta incentrata su una Via, su di un Viale, che è a tutt’oggi ben presente nella topografia partenopea, e che migliaia di persone e veicoli percorrono quotidianamente, sciamando dall’area Nord della metropoli, verso le direttive centrali e collinari di una Napoli oramai ingolfata e strangolata da una traffico aritmico e sincopato, gorgo infernale governato dalle sole leggi del caos e della necessità. Ed è proprio per rendere l’idea di quel che questa via, che questo singolo frammento di Napoli, rappresenta nell’intera economia metropolitana, che s’è voluto ripercorrerne la storia così ricca e feconda: il Viale di Foria non rappresenta soltanto un tratto viario; dalle sue mura, dai suoi palazzi, trasuda l’essenza vitale di una città che fu capitale europea, che conobbe primati scientifici e culturali in ogni campo, che si vestì dell’abito delle grandi occasioni, divenendo meta obbligata per uomini d’eccelso intelletto, un faro che illuminò l’intero continente per quasi due secoli, a partire dal Settecento. E nel Viale di Foria vi sono ancora le tracce di quei fasti antichi; le pietre, a saperle interrogare, ancora ci narrano d’un passato signorile e gentilizio, i cui monumenti s’ergono nella loro maestosità a rammentarci che la Storia, quella vergata col carattere cubitale, è passata per queste vie, lasciandoci tracce di magnificenza ad ogni piè sospinto. Cosa è rimasto oggi di quel passato? E cosa gli abitanti, i commercianti, o i semplici passanti che si trovano a percorrere la zona di Foria, conoscono di quel che si palesa loro innanzi? La Storia pare passata invano; giacchè nell’immaginario comune e litografico post bellico, Via Foria rimane scolpita nella memoria collettiva come la “via del cimitero”, quella che conduce su per il Poggio Reale al cimitero ed ai luoghi dei penati familiari: un luogo di triste passaggio, la Via Crucis del lutto e dei calessi bardati di drappi neri, immancabilmente segnato nell’iconografia popolare come topos vagamente iettatorio. Ancora riecheggiano, nelle pagine della Serao, strazianti pianti di donne precocemente vedove, madri che si strappano il crine, percuotendosi il viso ed il petto alla ricerca di una vana consolazione, quadriglie con foschi pennacchi che scalpitano sui ciottoli umidi ed impregnati dell’odore dolciastro dei fiori; un dantesco girone di anime senza ristoro, una livida processione di dannati senza catene che s’incamminavano su per la Doganella, seguendo i tornanti del poggio che andava increspandosi, come mare fremente di spuma, verso l’ultima dimora dei loro amati e cari.
Indubbiamente un quadro a tinte fosche quello ricamato dalla penna di Donna Matilde, ma che rende fedelmente o quasi, il clima che si respirava per il Viale nei giorni di lutto: come ogni aspetto della vita terrena, anche la morte per il Napoletano era uno spettacolone carnascialesco, e guai a mutarne le liturgie financo d’una virgola: il morto andava rispettato, ed una prefica in più o in meno, un petto blandamente percosso, o un cavallo emaciato e smorto, potevano significare che la processione non era ben riuscita, con la possibile nemesi del defunto, che sarebbe apparso nelle notti senza luna a far le sue rimostranze all’atterrito congiunto di turno. Dunque una Via “triste e tristemente famosa”, si diceva; eppure Foria è una zona brulicante di attività commerciali, con numerosi comprensori scolastici presenti sul territorio, e dunque anche anagraficamente “giovane”, se così può dirsi; a vederla immersa nel suo caos organizzato, sfidando ogni giorno le più elementari regole della civile convivenza, la zona par quasi un’isola sospesa, in cui il tempo scorre seguendo un flusso oscuro ai mortali, come se la realtà fosse frammentata e frullata in un caleidoscopio di umori e figure che esulano dalla umana comprensione. Una visione onirica, un serpente di lamiere a scaglie che s’agita fremente, tra tubi di gas che gorgheggiano il loro disappunto per essere stipati come sardine, nel più classico e napoletano ingorgo a croce: uncinata, a doppio braccio, quel che si vuole, ma pur sempre una croce!
Ma i napoletani a questo sono avvezzi, il dinamismo caotico delle nostre vie è ben noto, e non è bastato il maquillage ad opera dell’ architetto Gae Aulenti, che si è adoprata anche nella riprogettazione della zona dell’antico Mercatello, l’odierna Piazza Dante, per risolvere l’annosa problematica del sovraffollamento e della atavica mancanza di spazi di sosta per le autovetture. Gli interventi urbanistici, caldeggiati fortemente anche dall’Associazione “CentroForia”, hanno indubbiamente ridisegnato il volto del Viale, partendo dal Museo Nazionale, dove lo slargo di Piazza Cavour è stato asfaltato, rendendo più veloce ed agevole la circolazione, ma anche più insicuro l’attraversamento pedonale, e nel quale sono state apportate migliorie estetiche di sicuro impatto, quali il rifacimento e l’ampliamento dei camminamenti pedonali, il piantamento di filari di palme, e la ridefinizione degli spazi adibiti a parcheggio veicolare.
Ma l’ammodernamento del Viale di Foria, non si è fermato certo qui, anzi si è esteso verso l’Albergo dei Poveri, e riguarderà tutto l’emiciclo di Piazza Carlo III nei prossimi anni: pur tuttavia l’istanza di rinnovamento, con la giusta proposta di limitare il traffico di veicolare, pare essere l’unica percorribile. Solo limitando l’uso e l’abuso di automobili e motocicli si otterrà una riqualificazione globale del territorio, consentendo una maggiore fruizione delle risorse presenti in loco, incrementando proporzionalmente il commercio e l’economia: un maggiore investimento in termini di qualità della vita, comporterà una ricaduta positiva anche sui consumi e sull’espansione delle attività commerciali, attirando per osmosi ulteriori investimenti . Via Foria è una zona “ibrida”, in cui sono presenti catene di abbigliamento di fascia media, esercizi che forniscono beni commestibili e di prima necessità di ottimo livello, quali pizzerie e bar, tarallifici, pasticcerie ed un panificio che rifornisce dei suoi prodotti una clientela che va ben al di là dei confini topografici; nel tratto finale antistante l’Orto Botanico, sono inoltre presenti e ben concentrate, circa una decina di attività antiquarie e di restauro di mobili ed oggettistica antica, radicate da generazioni nel territorio, e che ben conoscono le problematiche di un quartiere che pare sottodimensionato, relegato ad un ruolo da comprimario sul palcoscenico della città. Un’area cruciale, internodo viario principale, costretta ad essere cerniera tra i mercati rionali della Sanità e del Borgo Sant’ Antonio Abate, uno spreco di risorse inimmaginabile, che si riverbera immancabilmente sulla qualità della vita di chi vi abita e lavora. Ascoltando le voci della strada, raccogliendo le testimonianze dirette di chi Via Foria la vive sulla propria pelle, di coloro che ne respirano gli umori quotidiani, emerge una frustrazione di fondo, una insoddisfazione nel vedersi abbandonati dall’amministrazione comunale ed in primis dalla persona dell’attuale Sindaco: v’è un’amarezza che incrina i toni, arrochisce la voce, diviene rabbia silente di chi sente d’esser stato abbandonato dalle istituzioni cittadine, e che non s’assopisce neanche quando viene ricordato che la riqualificazione urbana operata sulla Via ha di certo cambiato in meglio la prospettiva presente, se non quella futura. Ma “sono interventi puramente di facciata”, si dice, “un abbellimento effimero” e che non serve a nulla e nessuno, se non accompagnato “da una severa opera di recupero della zona”: istanze profonde, un malcontento diffuso e generale, in special modo tra le utenze commerciali, che lamentano la scarsità di parcheggi, l’illuminazione pubblica ancora insufficiente, una politica di sicurezza fallimentare su tutti i piani, dato che il Viale di Foria dopo la chiusura delle insegne luminose diviene un “deserto dei Tartari”, terra di nessuno, ancora preda di una criminalità che con cieco opportunismo si continua ancora a definire “micro”. Ma la soluzione per sciogliere questo nodo gordiano non deve discendere per imposizione, dall’alto; c’è bisogno d’una partecipazione informata di tutti i cittadini, di una coesione dal basso che si faccia portatrice dei bisogni e delle speranze collettive, un’unica voce polifonica che faccia sentire le ragioni dell’intelletto a chi non ha il cuore d’ascoltarle, in modo che anche il peggior sordo si veda costretto a prestare orecchio ed attenzione ad una richiesta di rinnovamento che affonda le radici nell’humus d’una collettività che, seppur frammentata, percepisce i fremiti sotterranei che la percorrono, si riconosce nell’ appartenenza e nei desideri comuni, un subconscio che s’agita inascoltato, alla continua ricerca di una risposta esaustiva che ne quieti i rovelli, fugandone i dubbi. E forse è proprio questo il ruolo di un’ Associazione collettiva, quale il CentroForia si pregia di essere, quello di incanalare le istanze propositive d’una popolazione di quartiere che pretende di migliorare fattivamente la propria qualità di vita, riempiendo gli spazi vuoti, gli alveoli spugnosi di un tessuto sociale in progressivo disfacimento, con una presenza costante, quasi “militante”sul territorio, non rintanandosi negli usci, tra focolari domestici divenuti bastioni impenetrabili dall’esterno, spiando la strada dalle finestre semichiuse: perché la strada, soprattutto quando si parla di un Viale così ricco di Storia e di storie quale quello di Foria, deve essere vissuto, deve rivivere attraverso una rinascita civile e partecipata, ma soprattutto cosciente. Ed è proprio per risvegliare le coscienze assopite che bisogna urlare il proprio sdegno per una Napoli avvilita, serva di interessi corporativi e politici di dubbia integrità, preda degli appetiti voraci d’una classe dirigente che diviene lupesca, nella sua ribalderia scialacquatoria: solo occupandosi in prima linea del proprio quartiere potrà attuarsi quella rigenerazione culturale, economica e sociale che si auspica da tempo immemore. Un nuovo Rinascimento dell’anima, ma che questa volta non si tramuti in nuovo Medioevo dei Barbari, come già avvenuto in passato: perché la città merita la sua resurrezione dopo i giorni della passione, perché i Napoletani sono stanchi di vivere in perenne attesa messianica, mentre la lava del Golgota ci brucia gli occhi e la gola, nell’eterna notte partenopea. Il recupero del Viale di Foria è solo il primo tassello sulla via di una rinascita possibile.
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