lunedì 19 ottobre 2009
Leggere: perchè no?
“L’orrore”. Quale epitaffio di “apocalypsiche” schegge strappate al tessuto d’una guerra tenebrosa, dal cuore nero, diviene arroganza oscena che sublima, trasmutando in voluttà di potenza, tracimando in livide pozze di umori aciduli, vomito urticante come bolo lavico: nuda parvenza, egida superflua per uomini inermi di fronte all’istinto. Perché l’orrore ha un volto, e bisogna farsi amico l’orrore se si vuol sopravvivere al maelstom cannibalesco, di uomini come fiere, regrediti ai primordi, ragione come simulacro, le vestigia del Pensiero screziate dal bianchiccio riverbero di albe allucinate, le angosce di un’anima illividita ad azzannarti la gola, come erinni in fiamme. Judith Thompson ce ne restituisce intatto il senso, l’afrore morboso, ritagliandone i contorni: l’orrore nella sua forma più pura. “Palace of the End” (NEO Edizioni) racchiude tre monologhi della drammaturga canadese, e sono tre stille d’inferno che trasudano dalla pelle e dagli occhi di vittime e carnefici, ad infrangere lo specchio dannato d’un’Alice demoniaca, a segnare il confine, il limen budelloso di una guerra carnascialesca di maschere inumane, spettacolo perverso il cui riverbero disgusta ed ammalia, fascinoso e perverso. IRAQ. Nuova Babilonia per un millennio gotico d’assalti medievali, scie luminose di corvi alati e roboanti a solcare la notte, il puzzo dei corpi disfatti a bruciare al fuoco di incensi chimici, lo sfondo di bastioni in rovina, miserie umane e materiche che si fanno slavina, corrodono i legami dissolvendo il senso, come ghibli vetroso che graffia i volti solcando le mani. Un circo di spettri, una Circe virago ferale che impila uomini come tessere di domino, oscenamente denudati nella loro essenza di “captivi”, tanto più indifesi perché vinti; un dottore- sottile servo di menzogna, la coscienza che si ribella, ululando al vento il suo disprezzo assoluto per un sistema deviato, che costringe a mentire, perpetuando sé stesso; e infine una donna soave come la brezza del mare, madre placentare che avvolge i suoi figli, lo sguardo perso negli occhi del più piccolo, spirito implume stroncato dalla violenza dei suoi carcerieri, all’ombra del “Palazzo della Fine”. Pare d’esser risucchiati nel vortice d’un Otto Dix, tra donne sfatte e grottesche, maschere deformi, e clowns satanici che s’animano da presso, invece è dura cronaca d’ un passato a noi vicino. In “Le mie piramidi”, il soldato Lynndie England ripercorre lo strazio della sua colpa marziale: la sua immagine di donna-mangiafuoco, tra le mani un lercio guinzaglio, un prigioniero iracheno ad ansimare come cane, fece il giro del globo. Era così che l’America amministrava giustizia in quel di Abu Ghraib? Una guerra sporca, perché frutto di ciarpame menzognero: dove le armi di cui si paventa, dove le nasconde Saddam? In “Harrowdown Hill” la risposta: le armi batteriologiche son celate perché mai esistite. E questa verità costa cara a David Kelly, microbiologo ed ispettore del Ministero della difesa britannico, stroncato dal rigurgito di coscienza; suicidio o forse omicidio, non è dato saperlo. Nell’ultimo monologo, “Gli strumenti della bramosia”, scorre la vita di Nehrajas Al Safarh, letterata e comunista negli anni della presa di Bagdad, quando soffiava il vento baathista e il Diavolo-Saddam prese la sferza tra le mani: le toccherà perder un figlio davanti ai suoi occhi, le rimarrà la forza di ricordare, perché solo la memoria può dare un senso all’orrore. La Thompson punta il dito, rigirandolo nel ventre purulento e infetto della guerra; e dietro il paravento della vuota retorica s’ode il prosaico frusciar di banconote sudice ed il puzzo di petrolio.
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