"Il vecchio maliardo giaceva riverso al suolo, un sacco floscio di biglie umorali, da cui rotolavano via fiotti vermigli, di liquorosa opalescenza . La pozza di sangue disegnava arabeschi fioriti attorno al suo corpo, desnudo; un alone soffuso di piume sospese aleggiava nella stanza in penombra. Piume e sangue: l’avito cappone aveva tirato le cuoia, ingrossato a puntino per il più crudele dei natali. Sempre se di cuoio si poteva conciare, o meglio cianciare, guardando quel corpo raggrinzito e spiumato, che tradiva tutto il peso dell’augusta età, malgrado i tiraggi e le levigazioni cui periodicamente sottoponeva le sue poveri carni, oca starnazzante di vanesia ed effimera essenza. Mister P. era palesemente, definitivamente, accoltellatamente, crepato. Il manico d’ uno stiletto imporporato s’ergeva invitto tra le tenere scapole, alette avicole ormai implumi, stele mortifera a fugar ogni dubbio, nebbia o refuso, circa l’evidenza probatoria che il margravio non s’era inflitto da sé un sì ferale destino, bensì ce l’avevano affondato, all’Inferno, e con furia beluina inusitata e perversa. Il becco, tagliola d’avorio finemente cesellata che sfoggiava ad ogni piè sospinto, era adesso muto, serrato da morsa invisibile, ad eccezione d’una punta linguacciuta pendula e floscia, mozzicone spezzato, a sondar l’aria tenue della stanza albeggiante. Il bianchiccio simulacro di quello che era per tutti l’emblema, l’egida stessa del Potere, il Papero Assoluto, monarca satrapesco dal mediatico eloquio, palpitava ancora, giù nelle sue pudenda illividite, di viagresco ardore: il grigiore mortifero irrigidiva le membra, assommandosi al rigore cavernoso del suo membro indispettito. Come nel più triviale e boccaccesco conto, il sultano priapesco se n’era andato venendo, satiro caprino e smargiasso, guitto atellano dal borsello rigonfio: di certo in vita godeva, e financo in morte aveva goduto. Allo sfocato leucore di candele corrose da fiamme danzanti, a raggiera disposte attorno all’alcova, la tronfia albagia del fellone smorto e stramorto, pareva sfumare nel chiarore incipiente che s’affacciava da fuori. L’alba incombeva, convulsa e spettrale, stagliandosi serica sull’ottomana damascata, il leggio intarsiato, il talamo pomposo; si riversava impetuosa sui marmi e gli stucchi, i preziosi tendaggi ed i trompe d’oeil a muro, arrampicandosi tignosa sulle gambe lisce e perfette d’una papera poco più che adolescente in perizoma e reggicalze, il sedere polposo, tonico e sfrontato, lo sguardo felino perso nel vuoto. Il petto le sussultava a singhiozzo, il seno batuffoloso mostrava le aureole virginali maculate, screziate di sangue ormai raggrumato:erano rivoli di stille silenti, le lacrime scarlatte del vecchio, le ultime piante. Le candide piume, ondulate, si specchiavano nei riflessi perlacei del suo crine frondoso, mentre gli occhi, vitali, instancabili vorticavano per la garconniere infuocata, ormai camera ardente per quel corpo senz’anima. Un refolo di vento le solleticò le natiche, raggelandole il sudore rorido sulla pelle: era tempo d’andare. Raccolse il suo esiguo vestiario con agile mano, mentre con l’indice a punta sondava gli interstizi porosi del cristallo scheggiato, alla nervosa ricerca dell’ultima spora di polvere bianca, per darsi la carica, per darsela a gambe. Scavalcò la salma con balzo sicuro, fermandosi sulla soglia per l’ultima stoccata a quel corpo consunto: la pelle itterica stava cangiando, le venature bluastre rilucevano al chiaroscuro. Il fermacarte di radica e argento svettava immobile, senza pieghe o sussulti, banderilla puntuta a segnarne il passo, del tapino unico epitaffio: Mister P. era ormai dissanguato, le sue spoglia minute di torello inquieto evaporavano al pallido sorgere della sua ultima aurora. E senza drappo alcuno o muleta pietosa a celarne la fine. “Puoi fotterti il Paese, ma il mio culo proprio no!”, fu il suo estremo saluto, e sbattendo la porta girò i tacchi al destino".
Peccato che sia solo un racconto.....
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