martedì 2 dicembre 2008

Leggere: perchè no?

Annibale Ruccello: una Maschera Solare.
La Napoli che fu, il Seicento fecondo e barocco, ammantato d’ombre caravaggesche di figure in chiaroscuro, maschere perdute del Gran Ballo della Storia, nobili e popolani, santi e miscredenti, tutti assisi al desco inghirlandato e sfuggente di un tempo troppe volte mitizzato, ma spesso misconosciuto ai più. Ed è proprio per rischiarare le tenebre di un passato che assurge a bozzetto caricaturale ed ipostatico , scrostarne dalla tela rinsecchita e diafana le muffe d’una tradizione sovente corrotta, serva degli appetiti d’una cultura troppo spesso dimentica delle sue umili origini, che val la pena riscoprire un testo fondamentale dell’opera del drammaturgo Annibale Ruccello, Il Sole e la Maschera, edito dalla Stamperia del Valentino. Il volume è un saggio antropologico, una lettura cerusica e colta della popolare Cantata dei Pastori, testo sacro della drammaturgia partenopea, frutto dell’ingegno del buon Casimiro Ruggiero Ugone, al secolo Andrea Perrucci, per tutti “l’Abate”. Chi non conosce l’odissea peregrina, l’itinere impervio e ramingo della Sacra coppia, di Maria la Vergine e Giuseppe il Falegname, di Gabriele Arcangelo e della sua nemesi, il Diavolo Belfagor? Chi di noi non ha spalancato il sorriso ed il cuore ai lazzi clowneschi, alle grottesche perifrasi di Razzullo e Sarchiapone? Poveri diavoli, figli di un popolo affamato e lacero, alle prese col mistero più grande mai celebrato dalla notte dei tempi, la Nascita del Vero Lume tra le Ombre (questo il titolo originario dell’opera, poi trasfigurato ed assorbito in quello plebeo di “Cantata”), quel Messia Solare, Luce Eterna, evocata ed attesa con letizia e venerazione da ogni uomo sulla terra. Perché il Divino Bambinello è un messaggio diretto agli uomini, di aver fede, di continuare ad alimentar la speme, perché il ciclo si rinnova, non s’arresta, tutt’altro:un simbolismo arcano, di Vita e di Morte, un Gesù infante, stella fattasi uomo, sceso tra gli umili per mostrare tutta l’eversiva potenza del miracolo ciclico ed immutabile della Nascita. Ruccello, intellettuale fine, ahimè precocemente scomparso, sottolinea efficacemente la commistione sociale e cultuale alla base dell’opera del Perrucci: gesuita mancato, l’ “abate” s’adoprò per affascinare il popolo con il racconto del periglioso travaglio di Giuseppe e Maria, ostacolati dal perfido “Arcidiavolone” Belfagor, “campione del dimonio” che si dichiara vinto più che dalla spada ardente di Gabriele, dalle facezie e dalle amenità dei due fidi compari Razzullo e Sarchiapone. Ma i Napoletani superarono il Maestro, introiettando ed arricchendo il testo (si pensi solo che nella stesura originale di Sarchiapone non v’è traccia), sostituendo ad esso umori e figure tipicamente partenopee, anime perdute nei fondaci e nei vicoli di una Neapolis più meticcia e barocca che mai: una Cantata che diviene perciò spaccato quotidiano, traslatio drammatica di un vissuto epidermico e umbratile, tempo sospeso e magico, che va da Betlemme a Forcella, un presepio di figure perse in angiporti che solo tra queste mura antiche videro la luce, e ne conobbero le ombre.

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