lunedì 15 febbraio 2010

Leggere : perchè no?

“GULP”! E’ exclamatio onomatopeica, beffa o celia, singulto che rampolla dal gozzo d’un beone, o forse armonia atellana di guitti in derisione, la gromma liquorosa di risate repentine a risgorgare? Idea stravagante, bizza, refuso a divenir parola? Di Pantagruel poderoso flato o di “Goofy” sincopato starnazzo? Giammai! “GULP” è acronimo campano per Gruppo Umoristi Ludici Postmoderni, milizia scelta, a testuggine compressa, legione scintillante al comando del supremo Imperatore. Di Pino Imperatore, ad esser precisi, umorista e curatore, assieme al brillante ludolinguista Edgardo Bellini, d’una antologia folle, o per meglio dire di folli, agli ordini indiscussi dei padri putativi, o forse paterini: “Aggiungi un porco a favola” (Edizioni Cento Autori). Perché esser adepti del “GULP” è giusta e laica missione, di diffondere premurosi, al suono roboante del puntuto Campanile (Achille, maestro indiscusso d’humour e calambour), il buonumore paglierino, dell’ambrosia distillato di satirica ragione, nettare rubizzo, divino rovello a pasteggiar le menti ed il cervello, pasquinando a crepapelle e godendone il sollazzo. Sagacia parlatoria, maccheronea neapolitana e qualche fusibile neuronale ormai saltato in padella, dan vita, come Frankenstein cartaceo, a cotale antologia, florilegio e carnet di favole immorali, minuetto o forse tango, avvolgente tarantella, per bambini cresciutelli, satanassi amorali e d’eretica fattura. Perché parodiare favole famose? E’ giusto dazio da pagare, perché le favole hanno una eterna morale, e rovesciandone il senso, svellendone i cardini, si raggiunge l’empireo parodistico, quel rovesciamento paratattico che dà vita ad una “rapsodia inversa, a trascinare il senso nel ridicolo”, senza mai apparir beoti, ma beati. Al taglio reciso delle Moire filatrici, cade del titolo una lettera ed il seme ne vien stravolto, l’ircocervo fabulistico fiero germoglia, stracciando la gramaglia in vesti arlecchinesche: e così ecco palesarsi all’onirica soglia ben più prosaiche e resistibili figure, quali una “Cenerantola” dalla voce poco suadente, una “Bulla Addormentata nel bosco”, di virtù manesca, oppure una “Principessa sul pivello”, forse intenta al medesimo illustrar posizioni sintattiche a metà strada tra kamasutra e metodo Montessori; e che dire d’un “Penocchio” dalla vista lunga, forse troppo, elefantesca appendice di virtù sì indecente, o d’una “Lilli” che incontra un “Cagabondo”, del quale invece s’ignora (meglio, si preferisce sorvolar) virtude? Per tacer infine dei “Tre porcelloni”, che in tempi grami di politica allupata, non vorremmo fossero satira pungente di nostrani epigoni ed eredi, emuli asinini di quel maschio Mascellone di gaddiana memoria, satiro gaudente e allor priapesco. Trentaquattro racconti per trentasei autori, un fuoco di fila da cui è difficile sfuggire: un progetto nato alle pendici del Vesuvio, perché a Napoli la Dea della Comicità ha emesso il primo vagito, cullata dalle ninnole del Basile, al fuoco antico delle ceneri di un Pulcinella mai morto.

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