Padre. Del padre s’invoca il nome, dall’alto d’una croce, nell’alveo dei templi, all’ombra d’un altare; del padre rivive il seme, l’impronta, il peccato originale ; del padre s’anela il plauso, temendone la mano. O forse d’Edipo si contempla il destino, paventando dell’avo la caduta, complesso desìo di veder la fine dell’uomo cui il principio dovemmo? Nemesi e compenso, del padre il figlio rimira lo sguardo, assimila il gesto, ammira la forza; ne segue l’orma sentendone il peso, quel gravame sospeso dell’ombra più lunga.
“L’ombra più lunga. Tre racconti sul padre” (Colonnese editore), agile libello del sociologo e scrittore Gianfranco Pecchinenda, è sintesi asciutta d’antinomie figurative, di padri ancor figli che rincorrono l’austero cipiglio di aviti patriarchi, figli cresciuti nel ventre kafkiano di egotistici “patres” di famiglie avvolgenti, ahimè soffocanti, madri e germani a far da contorno: perché nell’arena si scende in due, il ballo è danza mortale, tra un padre ed un figlio. Anime nude a fronteggiarsi, il sole verticale della pampa che scolora nell’ombra ineludibile di un patriarca al tramonto, lo sguardo del Figlio che diviene lo specchio del Padre: di questi il passo è pesante, l’incedere sicuro; di quelli il guizzo è felino, eppur febbrile perché vieppiù acerbo, quasi insicuro. All’ombra dei totem gli spiriti danzavano, ma i “Mani” son lemuri ormai passati di moda; a noi moderni è rimasto lo scarno conforto di famiglie-rifugio in cui trovar ricetto ed appiglio, il cerchio sacrale consunto, corpi in risonanza, il limite estremo così contiguo, così sottile. Pecchinenda amalgama mistura letteraria con mano esperta ed alchimia perfetta: un equilibrio stilistico che dimostra una ricercatezza lessicale in scia con l’espressionismo kafkiano de la “Lettera al padre”, frammenti d’Europa che s’innestano su note scintillanti ed argentine, un tango “caliente” come il tepore del ricordo, quel sentore indefinito ed antico che sfuma nell’oblio. “L’ombra più lunga” si staglia all’orizzonte, i contorni fumosi e slabbrati: è un tramonto pieno e decadente, ombra d’un padre che evapora stancamente, lo sguardo terso verso un domani che al figlio può solo indicare. Perché “i progetti dei padri sono i destini dei figli”, anche quando la strada è contorta, fangosa ed ostacola il passo. Perché le orme vanno ricalcate pur se il verso è discosto, anche se il cammino diverge. E nessuna prece terrà saldo l’animo come l’abbraccio d’un padre.
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