"L'Amara Scienza" di Compagnone:
Una scrittura limpida, d’un lucore intenso, “barbigli” d’algido fuoco, che incendiano le pagine e l’opera tutta d’un autore, Luigi Compagnone, dalla penna mordace, ironia e disincanto miscelati a dovere: occhio sensibile, dagherrotipo in chiaroscuro, per sempre impressionato dagli umori carnali d’una Napoli non più sirena, stanca matrona dalle vesti pompose, eppur lacere. Un libro da riscoprire, L’amara scienza, edito dalla Compagnia dei Trovatori, in cui i fumi d’una metropoli in fibrillazione, microcosmo in espansione, s’intrecciano all’odore pungente dell’incenso, afrore spugnoso che assorbe i sudori e le angosce d’un popolo indiavolato, alla spasmodica ricerca d’un miracolo settembrino, d’un prodigio rappreso in un ampolla vermiglia. Un padre, Don Augusto Alinei, Ulisse rancoroso che ha infisso il suo remo nella terra argillosa, lo sguardo riverso su un passato di flutti salmastri; tre figli, come un Telemaco tricefalo, appendici dinamiche perse in un mare neapolitano che diviene Mediterraneo tutto, utero materno che ne nutre i desideri. Ne risalgono la corrente, alla recherche delle “lire funeste” che occorrono a quietare il padrone di casa; flussi onirici di memorie classiche, confusi nel lento procedere dei pensieri in tumulto, spume screziate che s’infrangono per un attimo sulla rena, per poi esserne risucchiate da presso, nell’eterno silenzio. Alinei come alieni, al mondo, e forse a loro stessi; come alisei, che spirano contrari a quel libeccio lavico che s’appiccica sulla loro pelle, nell’afa plumbea, appesantendone il passo. Isidro, Egidio, Lucia, tre anime in pena, in purgatorio terreno, spettatori attoniti e partecipi d’un dramma carnascialesco, una pulcinellata dall’aura luciferina, e dai contorni laurini: anni Cinquanta, il boom d’un edilizia rapace, le mani untuose d’una borghesia allucinata e vampiresca, complice d’un saccheggio culturale, prima che materiale, le mani su una città ancora stordita dagli echi sinistri di sirene di guerra ammaliatrici. Compagnone ne ricostruisce lo spirito, ne affresca i tratti smargiassi e la protervia lupesca, le sfolgoranti paillettes, a ricoprire le nudità e le miserie intellettuali d’una classe borghese che con spocchia e arroganza s’assise sullo scranno più alto, Trimalchione arricchito che sparigliò con violenza le carte sul tavolo, mentre il popolo inebriato consumava se stesso in un’orgia di beni superflui, baloccandosi con l’effimera nullità di una vita menzognera. Una cinica “abbuffata” cui non possono partecipare gli Alinei, ai quali rimarranno soltanto le briciole, nella persistente convinzione che l’unica speranza e panacea è quell’ “amara scienza” che ci pervade tutti, quella consapevolezza eterna ed immutabile che la vita basta a sé stessa, e non ha bisogno di alibi, ma solo di abili mani che ne raccolgano la sfida.
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